sabato 24 febbraio 2018

La canzone dell’orso (ovvero anamnesi patologica remota)

L’orso suona l’arpa, seduto s’una sedia da regista.
Succede in un qualche mondo, s’una distesa di neve, vuota di alberi e monti.
Suona una melodia triste, cadenzata.
I medici lo guardano, si guardano.
Ha un culo grandissimo, deborda dalla sedia. Non si sa come non la sfondi con il suo grande peso: questo è il più grande mistero.
Il secondo è che ci sia una terra così ghiacciata e sconfinata, una terra in cui non cadono valanghe, non accadono onde, non infuriano piogge. Dove non capitano stagioni, iceberg, animali. Dove non risuona mai neanche una parola. E non vengono pesci, a mimare il silenzio con le loro grandi bocche rotonde sotto la coltre del ghiaccio.
È la terra dell’orso che non fame e suona l’arpa, con quelle sue unghie lunghissime, le zampe maldestre, i denti chiusi dentro la bocca. Chiuso in un pelo bruno, impenetrabile.
Il terzo mistero è come siano arrivati i medici nella terra dell’orso. O dove l’orso abbia preso l’arpa. O, ancor più, la sedia.
C’è una commistione strana di cose che non si appartengono.
Verrebbe da portare via qualcosa: forse lo sfondo, forse l’orso, forse le cose dell’orso, forse i medici.
Ma nessuno porta via niente.
La canzone dell’orso è la canzone di tutti gli orsi che suonano l’arpa nel mondo degli orsi. Ha un suono gutturale, come di un qualcosa che penetra la coltre del ghiaccio, che fa tremare la terra dell’orso, apre una piccola breccia tra le nevi.
Assomiglia a una strenna d’amore, a un sottile lamento, dell’amore e del lamento ha soprattutto la speranza, lo capisci da come muove sull’arpa le zampe, lasciando tentennare le corde qualche secondo di troppo, c’è sempre un secondo di troppo nel cuore della speranza, dell’amore e del lamento.
I secondi di troppo sono tanti quante le corde dell’arpa e, tutti insieme, nebulizzano un tempo sopra la testa dell’orso: è il tempo che può concedere perché s’impari la canzone dell’orso.
Un tempo lunghissimo per l’orso e le sue zampe maldestre. Un tempo brevissimo per i medici che li guardano, si guardano.
Cosa facciamo dell’orso?, si dicono in silenzio osservando il suo culo grandissimo, la sua mole imponente, il pelo bruno, le zanne aguzze.
C’è un attimo, tra l’inizio e la fine del secondo di troppo, in cui il suono rintocca, esce dall’arpa, dall’orso, s’invola sulla distesa bianca, rimbalza sui ghiacci senza alberi e senza monti, entra nelle bocche dei pesci assenti, infine rimbomba nella testa dei medici e lì si ferma. È un suono che nasce gutturale, diventa metallico, poi s’attenua, diventa rotondo. In alcun modo s’articola, eppure dice una storia lontana, di una sedia di un regista, che mai si sedette, che portò su un set un orso e un’arpa, che non ebbe abbastanza soldi o abbastanza coraggio. O forse bevve troppo, si giocò i suoi averi a poker. O, poverino, si schiantò con la macchina -era una Maserati tutta rombante- giù da un fosso. No, conobbe una donna molto bionda o molto mora e mollò tutto. Oppure, si dice, scoprì di essere gay. Si convertì al buddhismo, andò in India. S’ammazzò buttandosi da una ruota panoramica.
Insomma, questo punto è confuso, somiglia a un fa diesis, magari anche a un mi bemolle, in ogni caso: non tornò e non allestì la scenografia. Così finì l’orso in una terra senza pertugi e senza pesci, suonando questa storia molto confusa.
Ebbene in quel punto in cui il suono si fa rotondo, i presenti tendono le orecchie: c’è chi capisce “ente”, chi dice “niente”, chi solleva le spalle indifferente. Ognuno smania per uno straccio di parola.
Qualcuno vuol sapere esattamente dove andava il regista con la Maserati, nome cognome e data di nascita della donna per cui lasciò il set, cosa disse la vecchia madre quando si dichiarò omosessuale, se era estate o inverno quando si gettò dalla ruota panoramica e dov’era ubicata, il prezzo del biglietto, il numero dei giri al minuto, se fu un gesto impulsivo o meditato. Quanti dollari perse a poker.
Parole. Nella distesa del ghiaccio, nel mondo dell’orso, loro cercano parole. Come strade o come pesci.
S’accorgono d’un tratto che l’orso digrigna i denti: è finito il suo secondo di troppo abbarbicato sulla sommità di ogni corda, son finite ad una ad una le corde, è finito anche l’ultimo rintocco. Ritorna il peso sulla sedia tutto d’un colpo. La sedia crolla, scivola l’arpa sulla distesa ghiacciata. È risucchiata nel vuoto la canzone triste dell’orso.
Ora son solo denti, sangue e brandelli.
Sulla lastra immacolata qualche parola, un nugolo nero, un resto severo: anamnesi patologica remota.

 E più in là, inascoltata, una nota.