sabato 22 dicembre 2018

Un albero

Ma salvatemi un albero
salvatene uno col tronco nodoso
e molte radici a vista
(pilastri, colonne di travi rampicanti).
Uno di mille anni 
o di mille giorni
con molte iniziali d’amori
(rigorosamente finiti,
votati all’eterno)
incise tra i rami
uno che stia al margine perfetto
del bosco
fra l’andare e il mai tornare
(o perdersi)
con spazi tra le foglie 
per filtrare soli e lune
(e abbondanti piogge)
che sia sipario notturno
di qualche segreto
(silvano o umano).
Possono appassire i giorni comuni
(di più ancora quelli straordinari)
ma scriveteli su un albero
e lasciatelo intonso
seppur molto ricurvo 
pieno di affanni.
E se vi lascia qualcosa nell’humus
non chiamatele noci o castagne:
sarebbe ingiusto.
È il tempo solenne dell’albero
che casca nel geometrico disordine 
di planimetrie selvagge
(i punti cardinali delle volpi e dei pettirossi).
Salvatemi almeno la lentezza di un albero
scarno e malfermo, 
ne voglio uno che perda ogni anno
tutte le foglie
uno di quelli che sanno, 
che la vita è un bosco 
e la morte quel pezzo di cielo
 plumbeo incastonato 
tra un ramo dritto e uno storto.



domenica 26 agosto 2018

Ritorni

Ma poi, vedi, rinasce lo stesso fiore
nella medesima zolla
se mano umana non interviene
la terra restituisce sempre
ciò che si credeva perduto.
Tu così ora percorri
il sentiero dell’infanzia
a fenderlo trovi ancora
due grandi massi bruni
e quasi non credi d’inciampare
nella stessa radice
ascosa tra muschi e aghi ingialliti.
In fondo le pietre sono ancora appese
alla loro montagna
e subito ricordi 
come posizionare il piede
per non cadere. 
Ti passeggia a fianco 
un cagnolino bianco, tutto impettito
che di nuovo protesta con un cane pastore 
nero e bianco e selvaggio. 
Passa un testimone tra le mandrie
e di anno in anno le rigenera
con i loro sonagli monotoni
e le stanzia nel medesimo alpeggio
con un lento ondeggiare di code e muggiti.
Assorbe il silenzio in una buca
il richiamo della stessa marmotta,
più su ,dove diradano gli alberi
cominciano le distese di crocus e genziane.
E passo a passo rimpicciolisci
diventi poca cosa di fronte ai grandi alberi
alle cime bianche
ai ghiacci perenni
quasi quasi recuperi vista e olfatto
ti inebria di nuovo l’odore del fiume
quando sciacqua il suo campo di lamponi 
ti incanta la chiesa bianca sul dirupo
e ciò che -stoica, tenace- ti dice 
e un po’ ti spaventa la testa grigia del monte
la sua gola deserta
abitata da nebbie.
Tocchi la terra e fai un vagito
(una valanga scuote la valle in lontananza).
Si nasce sempre ritornando.




giovedì 23 agosto 2018

Certezze

Poi comprerei qualche certezza
a prezzo anche di muri ottusi
aprirsi al mattino dicendo 
“sarà così” e sicuri percorrere
una via nota. Andare incontro 
all’amore -se si sa amore-
o alla solitudine
-se quella è annunciata-
con plumbea rassegnazione
non vivere ma continuamente 
ricordare un ricordo vivido
che ci fu sempre
-il nostro incontro di domani
la nostra separazione  
entrare in un bacio sapendo
l’attimo esatto 
in cui per sempre 
rimarranno scostate le labbra
stringersi a monte 
di una dettagliata
pianificata sofferenza-.
Da principio accettare 
un ruzzolare d’imperfetti
-imperfezioni e tempi indicativi-
non morire 
ma sognare un vago affievolirsi
sdraiarsi in una sagoma sottile
e poi ancora andare oltre 
con la coscienza saltare il dirupo
provare e riprovare le proprie note
una litania altalenante  
di diesis cupi 
in una moltitudine di tasti 
bianchi.




domenica 12 agosto 2018

Quattro steli

Boccheggiano in un vaso vitreo
s’un davanzale
quattro fiori bianchi:
qualcuno in quella casa nasce
-dicon due mani intrecciate-
son comete discrete quei fiori
lasciati appostati 
per pastori urbani, 
per cibernetici re Magi;
qualcuno in quella casa è triste
-dice un occhio solo-
sono amori prosciugati
margherite non riuscite
la rabbia a volte è rassegnazione bianca;
qualcuno in quella casa è felice
-dice un bacio ramingo -
furon lasciati fuori -i fiori-
perché in due s’amarono
e non vollero testimoni; 
qualcuno in quella casa muore
-dice un braccio teso-
quei fiori sono remi -crisantemi-
traghettano passanti ciarlieri 
distaccano da un corpo i pensieri.

Quattro fiori bianchi a una finestra 
sono stesi. A me viene di soffiar forte
e vedere cosa tiene:
così a poco a poco la vita si sfoglia
balugina tra il vento il dolore, 
si srotola al sole la gioia, un momento,
infine a lungo non dura la morte,
si stacca dal gambo, ruzzola al cielo,
difficile dire prima dov’era, se c’era:
dimenticare è un movimento
che col restare poco ha a che fare.

Di tutto restan quattro steli
seduti come vecchi attorno a calici fieli 
brindano con mute parole
alla loro radice recisa, lontana:
l’Amore.

(Quattro fiori bianchi
stan fendendo il ghiaccio
di un campo
sembrerà forse crudele
vado a reciderli 
ricomincio la tela)







mercoledì 4 luglio 2018

Eppur non dovevi
e mi sei rimasto
sulle ciglia delle dita
sugli occhi dei polpastrelli
così sfiorandoti ti vedo
così sfiorandomi mi chiudi gli occhi 
e mi sei subito in sogno 
così sognandoti nascono nomadi 
e mi popolano carovane pigre
e vociami di cavalli e cammelli
strane popolazioni scure
ti portano in palmo 
parlando lingue gutturali 
dicono di te
dei tuoi regni lontani
e delle tue concubine
di te che mi sei rimasto
e non dovevi.
Sui polpastrelli degli occhi 
sulle dita delle ciglia
così guardandoti ti tocco
così guardandomi sei già l’assenza
tra uno sguardo e l’altro 
così cercandoti nascono personaggi 
d’inchiostro e carta
allucinazioni semoventi
che dicono del te e del non te
Che mi sei rimasto
e non dovevi
tra remi di sonno e di veglia
marinaio dei miei im-possibili 
in tempesta 
E tu possibilmente
rimani a lungo
tra i miei portici riparati
per sempre salva 
l’abbraccio di un’ombra:
è breve il sole.






sabato 23 giugno 2018

Una vecchia notte di grilli e di lune

Ci cerca la notte
tra gelsomini e covoni di fieno
per un lungo viale 
di alberi che impigliano il vento.
Tra cose buone ci cerca
la notte, ha una grossa otre
che a ognuno dispensa 
le impossibilità del giorno.
Tornano di notte a parlare i morti
qualche vecchia giuntura si olia.
Sinistre cigolano le porte
entra d’improvviso un suono
nelle orecchie d’un sordo.
Fa piano la notte,
in punta di piedi accende
qualche candelabro, 
scende scale vertiginose,
libera dalle gabbie le fiere,
riempie il letto dei fiumi rinsecchiti.
E scrive lettere la notte,
sigilla buste, mette nero su bianco 
febbricitanti rimpianti. Getta un manto
scuro sugli amanti distanti 
ed essi sanno d’improvviso
d’esser sotto una comune coperta
così circolano parole 
in quello spazio muto
s’arrampicano per i fili elettrici,
per le stazioni radio,
scorrono su rotaie stridenti 
e mai sbagliano interlocutore e destinario.
Tra cose buone ci cerca la notte
anima i busti bianchi delle statue
riporta in mare le conchiglie
a noi due disegna una strada
edifica un ponte 
toglie le alfa privative:
C’incontriamo e siam bambini.
Ti ho visto, mia impossibilità diurna,
ed era notte. Una vecchia notte 
di grilli e di lune.





martedì 8 maggio 2018

Rorschach

Rimarranno poche cose:
l’esoscheletro delle stagioni 
una tazzina vuota 
la circonferenza del mondo
non perfettamente tonda.
E rimarranno i fili del bucato 
le gabbie delle lanterne, 
i quattro punti cardinali dei crocefissi.
Forse le ombre degli spaventapasseri rimarranno
gli spazi bianchi tra le parole scritte
i crateri della luna.
E di noi due -almeno questo mi consola-
la distanza rimarrà, il vento 
tra i sonagli scossi dai baci
due lancette nere 
appese a una crosta di calce 
le nostre dita gialla e blu 
sopra un foglio.
Rimarrà il tonfo -sordo-
del tuo arrivederci.
Poche, poche cose rimarranno:
in calce lasceremo un negativo
e diranno che morendo
ci scattò una foto -mossa-
la nostra nostalgia.





giovedì 29 marzo 2018

Di te soprattutto mi ricordo il futuro

Di te soprattutto
mi ricordo il futuro, 
ad esempio al primo istante 
ho rammentato con esattezza di come 
centottanta giorni dopo all’incirca
si sarebbero scontrate
le labbra tue e le mie,
alle otto meno diciassette di mattina
davanti a una libreria chiusa.
E ciò sarebbe stato motivo 
di ritardo, invero modesto
ma sufficiente a
 ingenerare un cortocircuito temporale.
E ricordai precisamente
che un venditore ambulante
ci avrebbe sorpresi 
mentre molto sorpresi
gli compravamo il gambo di una rosa
senza la rosa.
E che, d’altra parte, non troppo ci sarebbe importato
di non aver schiuso il fiore
perché ciò che più di noi ci piace é l’attesa
e quindi ricordarci sempre 
con un po’ di dilazione,
rimandandoci gli incontri
e così le partenze 
le vidimatrici gli addii.
Così, girando il cucchiaino
in un caffè senza zucchero,
sconfinano in altre vite
i nostri ricordi:
mi ricordo benissimo, ad esempio,
che nella prossima vita
saremo insieme bambini
e faremo un gioco sciocco
nelle giornate invernali
quando sporgendoci ai due lati 
di un vetro appannato 
rideremo del bacio impresso sulla finestra
e dopo scapperemo arrossendo 
per aver fatto quella cosa 
che molto tempo prima
facevamo da grandi.

(Dei tuoi baci, lo sai,
soprattutto mi ricordo il prossimo)






sabato 24 febbraio 2018

La canzone dell’orso (ovvero anamnesi patologica remota)

L’orso suona l’arpa, seduto s’una sedia da regista.
Succede in un qualche mondo, s’una distesa di neve, vuota di alberi e monti.
Suona una melodia triste, cadenzata.
I medici lo guardano, si guardano.
Ha un culo grandissimo, deborda dalla sedia. Non si sa come non la sfondi con il suo grande peso: questo è il più grande mistero.
Il secondo è che ci sia una terra così ghiacciata e sconfinata, una terra in cui non cadono valanghe, non accadono onde, non infuriano piogge. Dove non capitano stagioni, iceberg, animali. Dove non risuona mai neanche una parola. E non vengono pesci, a mimare il silenzio con le loro grandi bocche rotonde sotto la coltre del ghiaccio.
È la terra dell’orso che non fame e suona l’arpa, con quelle sue unghie lunghissime, le zampe maldestre, i denti chiusi dentro la bocca. Chiuso in un pelo bruno, impenetrabile.
Il terzo mistero è come siano arrivati i medici nella terra dell’orso. O dove l’orso abbia preso l’arpa. O, ancor più, la sedia.
C’è una commistione strana di cose che non si appartengono.
Verrebbe da portare via qualcosa: forse lo sfondo, forse l’orso, forse le cose dell’orso, forse i medici.
Ma nessuno porta via niente.
La canzone dell’orso è la canzone di tutti gli orsi che suonano l’arpa nel mondo degli orsi. Ha un suono gutturale, come di un qualcosa che penetra la coltre del ghiaccio, che fa tremare la terra dell’orso, apre una piccola breccia tra le nevi.
Assomiglia a una strenna d’amore, a un sottile lamento, dell’amore e del lamento ha soprattutto la speranza, lo capisci da come muove sull’arpa le zampe, lasciando tentennare le corde qualche secondo di troppo, c’è sempre un secondo di troppo nel cuore della speranza, dell’amore e del lamento.
I secondi di troppo sono tanti quante le corde dell’arpa e, tutti insieme, nebulizzano un tempo sopra la testa dell’orso: è il tempo che può concedere perché s’impari la canzone dell’orso.
Un tempo lunghissimo per l’orso e le sue zampe maldestre. Un tempo brevissimo per i medici che li guardano, si guardano.
Cosa facciamo dell’orso?, si dicono in silenzio osservando il suo culo grandissimo, la sua mole imponente, il pelo bruno, le zanne aguzze.
C’è un attimo, tra l’inizio e la fine del secondo di troppo, in cui il suono rintocca, esce dall’arpa, dall’orso, s’invola sulla distesa bianca, rimbalza sui ghiacci senza alberi e senza monti, entra nelle bocche dei pesci assenti, infine rimbomba nella testa dei medici e lì si ferma. È un suono che nasce gutturale, diventa metallico, poi s’attenua, diventa rotondo. In alcun modo s’articola, eppure dice una storia lontana, di una sedia di un regista, che mai si sedette, che portò su un set un orso e un’arpa, che non ebbe abbastanza soldi o abbastanza coraggio. O forse bevve troppo, si giocò i suoi averi a poker. O, poverino, si schiantò con la macchina -era una Maserati tutta rombante- giù da un fosso. No, conobbe una donna molto bionda o molto mora e mollò tutto. Oppure, si dice, scoprì di essere gay. Si convertì al buddhismo, andò in India. S’ammazzò buttandosi da una ruota panoramica.
Insomma, questo punto è confuso, somiglia a un fa diesis, magari anche a un mi bemolle, in ogni caso: non tornò e non allestì la scenografia. Così finì l’orso in una terra senza pertugi e senza pesci, suonando questa storia molto confusa.
Ebbene in quel punto in cui il suono si fa rotondo, i presenti tendono le orecchie: c’è chi capisce “ente”, chi dice “niente”, chi solleva le spalle indifferente. Ognuno smania per uno straccio di parola.
Qualcuno vuol sapere esattamente dove andava il regista con la Maserati, nome cognome e data di nascita della donna per cui lasciò il set, cosa disse la vecchia madre quando si dichiarò omosessuale, se era estate o inverno quando si gettò dalla ruota panoramica e dov’era ubicata, il prezzo del biglietto, il numero dei giri al minuto, se fu un gesto impulsivo o meditato. Quanti dollari perse a poker.
Parole. Nella distesa del ghiaccio, nel mondo dell’orso, loro cercano parole. Come strade o come pesci.
S’accorgono d’un tratto che l’orso digrigna i denti: è finito il suo secondo di troppo abbarbicato sulla sommità di ogni corda, son finite ad una ad una le corde, è finito anche l’ultimo rintocco. Ritorna il peso sulla sedia tutto d’un colpo. La sedia crolla, scivola l’arpa sulla distesa ghiacciata. È risucchiata nel vuoto la canzone triste dell’orso.
Ora son solo denti, sangue e brandelli.
Sulla lastra immacolata qualche parola, un nugolo nero, un resto severo: anamnesi patologica remota.

 E più in là, inascoltata, una nota.



sabato 13 gennaio 2018

Considerazioni statistiche sulle partenze dei treni

Bisognerebbe che il treno
passasse. E una finestra avere
affacciata ai binari. Ascoltare 
gli annunci delle partenze imminenti.
Contare quante valigie verdi
e quante rosse. Scrupolosamente
annotare le dimensioni. Prospetticamente
sapere chi per poco
chi per tanto sta andando.
Il rapporto donne-uomini,
vecchi-giovani. Quanti stranieri.
Censire, contare, ammansire.
Enumerare paesi
case cantoniere
passaggi a livello.
Contare il numero dei baci 
scambiati davanti alle porte scorrevoli.
Congetturare quanto la lunghezza
del bacio correli alla lunghezza
della nostalgia
tenere conto di tutte le variabili
ad esempio che ti bacio brevemente
o non ti bacio affatto
o nemmeno ti saluto
se stai per mancare
-perché introdurre una presenza 
in un’assenza già così spaziale?
Tenere conto che alcuni
non portano valigie
se sanno già che non ritorneranno
-nessun morente si è mai accollato
il peso del proprio corpo,
nessun nascente è mai nato vestito-.
Considerare che alcuni partendo
staranno tornando
che certe stazioni servono al treno
per fare il treno
al viaggio per fare il viaggio
ai cartelli per fare i cartelli
che nessun convoglio ha mai pianto 
stridendo sui binari
che alcuni non comprano il biglietto
e non lasciano traccia
che molti arriveranno in ritardo
alcuni addirittura compreranno ogni giorno
una tratta e mai saliranno
collezioneranno viaggi non fatti 
addii non celebrati.
Alcuni verranno solo ad aspettare 
rimarranno in silenzio
un poco imbarazzati
osservando sparire
anche l’ultimo passeggero
come tutti quelli che attendono 
chi non arriva
mordicchiandosi il labbro
mangiucchiandosi le unghie
leggendo vecchi rotocalchi
o annunci pubblicitari.
Fatte queste considerazioni
troppo grande è la variabile
per fare previsioni.
Eppure bisognerebbe che il treno
 passasse. E una finestra avere
affacciata ai binari. E prestare attenzione
alle proprie comuni variabili:
stiamo sempre andando o tornando,
forse stanziando in attesa,
gli occhi abbassando
per non congedarci. E io colleziono
biglietti per alcuni non-viaggi.
Non ti saluto e non ti bacio, 
sei partito anni orsono 
e in questo tempo ho fatto molte cose:
mi sono comprata ad esempio
una casa vista stazione.