giovedì 27 aprile 2017

Caro...,


Caro…,

le lettere sono come la neve: dimenticano.
Dimenticano di esser state sciolte, un tempo. 
E cadono di nuovo.
Fanno così le parole, come la neve: riempiono gli spazi freddi e vuoti.
Chissà se tu pensi mai, come penso io con tanta emozione, al primo uomo che pronunciò la prima parola, qualche milione di anni fa.
Sicuramente non era solo - se no a chi l’avrebbe rivolta?
Sicuramente con lui c’era qualcuno, qualcuno che non aveva un nome, che non aveva nulla, prima di essere chiamato da quella parola.
Chissà se tu pensi mai, come sto pensando io adesso con un po’ di commozione, a come deve essersi sentito quel qualcuno, la prima volta che è stato chiamato. Che è stato preso dalla massa delle cose, dei serpenti, delle mele, delle cascate, delle torbiere, degli anfibi ed è stato chiamato. Per similitudine, contro la solitudine. 
Chissà che suono aveva il suo nome. Forse un po’ gutturale, goffo, incerto, come sono le cose quando si fanno per la prima volta. Forse la voce del chiamante era tremebonda. Forse quel nome era un incidente di pronuncia tra molteplici tentativi. Forse è capito casualmente, mentre si schiariva la voce al mattino o mentre puliva uno strumento di caccia. Forse uno starnuto trattenuto è diventato un nome, il primo nome. O forse i primitivi non trattenevano gli starnuti e quindi quel nome non è stato affatto un incidente che ha rotto un’esitazione ma una reale intenzione, un bisogno intenso, un portare chi è lontano vicino, fin sopra la rima delle labbra e tenerselo lì a sfidare le assenze. Forse è stata la prima grande astrazione o il primo grande incantesimo, effigie del raziocinio o del pensiero magico o di entrambi: sdoppiare qualcosa, a dir poco un platonismo, tu che sei lì, dentro il tuo corpo; e tu che sei qui, sulla punta della mia bocca, che vibri sulla mia lingua, dentro la mia gola. Tu che diventi un’immagine, uno spirito o forse la sostanza di questo suono, che mi piace ripetere ancora e ancora, come un mantra contro la morte.
Chissà, chissà se ci pensi anche tu alla gioia che deve aver provato l’inventore di quel nome, quando ha scoperto che quel nome poteva essere un ponte sopra tanti niente. 
Chissà se, trovandosi solo, in una caverna, sotto un cielo stellato, tra orribili fruscii notturni, quell’uomo si ripeteva quel nome e se ne faceva uno scudo contro la paura, contro Dio arrabbiato che lo aveva cacciato, contro il presentimento della morte e contro tutte le cose ancora senza un nome. 
A volte, io credo, ci s’innamora del nome che si dà alle cose.
Del suono che ebbero la prima volta. Del buio in cui ci fecero compagnia. 
Del gesto così simile al bacio che comporta pronunciare un nome; dirlo tante volte; farlo affiorare in superficie, sfidando il timore che esca sbagliato, ridicolo, storpiato. Dello stupore che ha sortito in chi lo ha ascoltato e riconosciuto come suo. Dell’improvvisa intimità che aleggia sotto una parola condivisa. Io sono te come ti pronuncio, tu sei me che ti ho pronunciato. Di lì a “noi” è questione di una sillaba. 
Caro…,
le lettere sono come la prima parola di un uomo primitivo. Sono un nome dato a chi non conosci e vorresti tenere vicino.
Caro, caro, caro …,
questa lettera è una lettera smemorata. È come la prima lettera di tante lettere che ti ho scritto perché eri troppo lontano. Questa lettera allucina, va in cortocircuito e prova a chiamarti con nomi casuali: scarabeo, leone, camaleonte. Giornale, coperta, scarabocchio. Tempo, fracasso, tuono. Dolore. Rabbia. 
C’è una cosa che fanno le lettere, come la neve: coprono le imperfezioni di questo mondo. 
Tu pensa ai viaggi della neve e delle lettere: da quanto lontano devono partire, con quanta intenzione, con quanto candore, con quanta ingenuità. A come devono moltiplicarsi, fiocchi e parole, per far finta di niente, per coprire gli spazi, per dare calore al freddo.  A quanto devono negare le asperità di monti e destinatari, la loro indifferenza, i loro sbuffi avvilenti, di camini e di noia. A come devono rimaner delusi quando non vengono aperti, cristalli e buste, dopo tutto quel cammino da spazi cinerei, da luoghi confusi dove le cose non hanno un nome e si amalgamano dentro, acqua e emozioni. 
C’è una cosa che hanno in comune le lettere, la neve, gli uomini primitivi: iniziano. 
Dicono “caro” e mettono una virgola. Cancellano i punti.
“Caro”, forse così avrà chiamato il suo interlocutore il primo uomo. Gli sarà uscito per via di quei suoi versi un po’ gutturali, con poca dolcezza e, a furia di dirlo, dev’esser diventato un suono gentile. Un suono notturno, dolente, malinconico, evoluto. Come la nostalgia, la neve e le lettere.




giovedì 20 aprile 2017

L'altezza dei prati

Bisognerebbe
essere almeno all'altezza
dei prati
che da lontano
pungolano il cielo
con colori pastello 
con fili sottili
con banali combinazioni di petali
e poi si lasciano calpestare
mai troppo alteri
e muti si offrono  
a portentose piogge
a siccità cattive
che si gelano in nevi grigie
che si sciolgono in acquitrini.
E che, dopo esser fioriti,
dopo tanta fatica 
a lasciare gl'inverni
a romper gl'indugi,
dopo tanto coraggio
a emergere ancora
con un moto ondoso appena
di vento e di diniego
si lascian tagliare 
per esigenze d'ordine e costume.
E saran testardi
giocheranno ai fantasmi
ancora rifioriranno 
nel vuoto del fiore assente
l'aspetto del primo fiore 
che fu presente.

Bisognerebbe
avere almeno quello spirito
caotico e ingenuo
che ha un prato:
tenersi i dispiaceri
coltivarsi i fiori alla rinfusa 
intristirsi col candore
di una neve -anche se sporca-
essere accoglienti
ma non farsi portar via
nascondere almeno un quadrifoglio
non esser mai pregiati
e ricordare che fiore aveva
il posto delle cicatrici.


sabato 15 aprile 2017

Bisogna attardarsi


Dovremmo attardarci.
Ma non per i ginepri in fiore
per gli scrosci silvestri
per l'angoscia ancestrale
dei latrati lontani.
E neanche per il tepore 
di questa giungla urbana
per queste chiacchiere notturne 
di ferraglie e bottiglie.
Di certo non per queste terrazze
di ulivi e rimpianti
per i mostri
che attorcigliano cielo e terra
-fili e rotaie e nubi-

Dovremmo attardarci
sulla punta d'un dubbio:
e se fosse questo il giorno
che fioriscono i sassi
che rimane acceso il sole
che rinascono i morti?

Mi scosti dal viso
una ciocca
e dici: sciocca.

Bisogna attardarsi.
Potrebbe essere la sera
che parlano i gatti
che camminano gli alberi
che alle sorgenti ritornano i fiumi.

Ti chiudo forte la mano
nella mano
e dico: ri-mani.

Potremmo attardarci
e non per questo nostro battibecco 
di pensieri e baci
né per una nostalgia qualsiasi
agitata tra liquori, sudore e sogni
e neanche per l'affetto che viene
guardando un fiore caduto e schiuso
s'un lembo d'asfalto scuro.

Potremmo attardarci.
Come fosse la prossima
l'alba in cui sarà svelato
il grande segreto
in cui troveremo scritta
la formula del cielo -sul cielo-
quasi fosse un gran bassorilievo.

Mi soffi in fronte
un pensiero 
e dici: mistero.

Giri le spalle, 
andiamo.

Eppur m’attardo
e ti guardo:
e se fosse tra poco
il momento che m'ami?