domenica 30 ottobre 2016

(...)

La bellezza di un sogno lieve
che non ricorderò.
Un prato senza fiori
tutto steli.
L'assenza di nuvole.
Un acquitrino verdognolo 
senza vento, senza rane.
Due labbra schiuse
in attesa di un bacio
senza volto.
Un pallone di spugna
senza peso.
Il frutto non dischiuso
la colonna d'acqua che non cade
dal monte
le ali senza uccelli
la lacrima senza occhi.
Un'attesa incartata in un pacco 
che resterà intonso
senza stropicciamenti della carta.
E la tua gravità sospesa a mezz'aria
sotto neanche un'ombra.
Il tuo nome sulla mia bocca 
e tu assente, mai veduto
futuro presente.
Non lasciar tracce 
e passa, vita mia,
non fiorire:
fermati giusto quell'attimo prima
della salvezza di poter morire.


sabato 22 ottobre 2016

Aggettivi estemporanei e ragioni di non-Essere

Io sono più triste della tristezza
perché la tristezza non sa 
esser altro che se stessa.
Senza nostalgie del suo Altro
lei guarda altera
tutta chiusa nei suoi abiti
di ricami grigi e merletti di lacrime.
Mentre io mi sfuggo
io non sono:
sono sempre l'assenza
di qualcosa.
Mi manca l'allegria
e -allegra-
mi manca la malinconia
e -così triste, più triste-
son l'assenza d'una tristezza più dolce
-la tristezza del mosto, degli autunni
e dei tramonti-
e allora 
-triste di non essere quella tristezza- 
mi pungo, mi dolgo
il mondo è fatto di spine 
le divento
e più di loro son pungente 
ché le spine non sanno
essere altro che se stesse.
E poi io amo
e amo più dell'amore
tutto chiuso in se stesso.
Il mio amore sa l'odio
e sa il disamore
ama per farli assenti 
-l'odio e il disamore 
e la disillusione-
e quindi non ama e non odia
è un puro specchio d'ombre
ed è più triste della tristezza
ed è solo il contrario di qualcosa
mai un sinonimo
e s'inciampa in un burrone:
lui cade, è mortale 
e come tale
non sa niente dell'Amore

                   Ph. Aela Labbè




domenica 16 ottobre 2016

Del condizionale passato che non si abbellisce con la carta da parati e del presente semplice che è già bello di suo

Il fatto è che non potevamo uscire insieme.
Uscire insieme in un posto così brutto, intendo.
Lo capivo bene, mentre guardavo te che guardavi fuori dalla finestra senza mai scostare le tende, rigirando il cucchiaino nel caffè d'orzo che non sapeva di niente e non dicevi neanche una parola, ma quel silenzio voleva dire in effetti che non ci possono essere parole senza un orizzonte. O con un orizzonte così brutto.
E, in effetti, non si poteva che chiudersi dentro, abbellire i muri, impreziosire la carta da parati, colorare le tende ogni giorno di un colore sempre nuovo, giusto così, per non rimanere vittime della ruggine e del fetore di quel mondo fuori, così brutto, così rugginoso, così meccanico.
E alzare il volume delle note di Chopin e dei Led Zeppelin -notturno e scale al cielo- per coprire il cigolio infernale delle macchine, il flusso del petrolio nell'oleodotto, il tintinnio cupo delle foglie cadenti che, a furia di prender fumi e sgarbi, eran diventate coriacee e non più riassorbibili dal suolo e così si accumulavano ai lati delle strade e sul greto del fiume, ormai color del bronzo, e a un passante disattento sembravano una distesa di cadaveri di pesci bluastri e noi si doveva sempre dire che di pesci non ce n'erano più da quel dì, nemmeno i cadaveri, perché nel fiume color del bronzo si erano sciolti. Sciolti, esattamente, e così erano diventati il fiume stesso così come erano diventati cielo gli uccelli bruciati all'istante dalle esalazioni della fabbrica e terra i nostri pensieri che cadevano dalla testa, senza potersi fermare per un attimo nemmeno.
Così ci vedevi segregati in casa, le nostre sagome più spesse, come se ci si fosse attaccato addosso un segno distintivo e sembravamo omini stilizzati appiccicati alla finestra e invece eravamo pur un uomo e una donna e forse un tempo ci eravamo amati o forse non c'era stato tempo per questa evenienza, si era bruciato tutto prima e ci aveva scaraventati nel mondo del condizionale, ci saremmo amati, ti dicevo qualche volta, mentre rigiravi il cucchiaino nel caffè d'orzo e rimanevo incantato a guardarti e quel pungolo d'incanto sembrava un punto di colore in quel mondo così brutto. E chissà -pensavo-, se tu anche per un attimo m'avessi guardato attraverso le lenti ocra degli occhiali dietro cui ti nascondevi a quella luce troppo funesta, chissà, forse dal mio punto di colore e dal tuo sarebbe venuta fuori una macchia e poi, come un'ameba, un primordiale organismo unicellulare, avrebbe allungato i suoi pseudopodi ed espanso il colore e l'incanto tra i tubi e la vita incenerita.
Ma tu non mi guardavi, volevi solo proteggerti, arrivare a domani, e io ti guardavo troppo, affossata nelle rughe che di giorno in giorno comparivano sul tuo volto e ti dicevo sempre che mi parevi molto bella e che triste eri anche più bella, si apriva una profondità che trascendeva i confini del tuo corpo, che allargava lo spazio e se ne andava in giro, portandoti altrove, fuori dalla canna fumaria, sotto il pavimento e anche in mezzo alle pareti, ma io avrei rinunciato a un po' di bellezza per vederti allegra e allora magari ti cambiavo la tenda, cambiavo il lapislazzuli con il verde e a volte anche due, tre volte al giorno, pur di vederti meno bella ma più allegra, pur di vederti girare il capo e posarlo sul mio, a guardare l'orizzonte della tenda, il tramonto sulla tappezzeria, il germoglio al centrotavola. 
E ricominciavo coi condizionali, avremmo potuto amarci, anche se a me pareva proprio di amarti al presente semplice, ma mica te lo potevo dire in un mondo così brutto, c'era questo tacito accordo che rispettava il tuo amore per l'estetica, per ogni cosa ci vuole un contesto, per le parole un foglio immacolato, per le storie un tempo, e noi siamo così fuori dal tempo, nel tempo del condizionale, per di più passato, nella terra del rimpianto bronzino e delle foglie che sembrano pesci e non se ne esce di certo con una carezza tra i capelli e un "ti amo" al presente semplice che in realtà non c'è. 
E tu sei vecchia e invecchi e al massimo mangi e bevi e dormi e ti rannicchi nelle tue rughe e sei così oberata dai miei colori spessi, che a poco a poco si mangiano i muri della casa e a me pare proprio di amarti in malo modo e mi liquefo nel colore, piano piano.
Ma sai che c'è?
C'è che oggi è Natale, o forse non ancora ma facciamo finta, avevo solo bisogno di un pretesto per spulciar fuori un regalo.
Perciò svegliati, vorrei dirti che mi sembri bella, ma siccome bella è triste taccio, perché voglio solo che tu sia allegra, allegra e brutta e ti ho portato un colore.
Non fare quella faccia, questo non ce l'hai, te lo giuro che non l'hai mai visto.
Mi dici che tirerei fuori anche il colore più strambo per uscire dal condizionale, ma sai che c'è, che invece io ti ho regalato un po' di bianco, strano non averci pensato prima, e vieni, vieni un attimo fuori.
Ti impunti, non vuoi uscire di qui.
Ti trascino, esci fuori. Ti porto a vedere una cosa bellissima.
Saliamo fin sul tetto della nostra casa, avresti mai pensato che fosse così alto?
Il bianco è dappertutto, una nebbia soffice sul nostro mondo così brutto.
Dipana sul profilo aguzzo delle ciminiere, cammina sulle acque del fiume, cancella le foglie morte, rischiara il cielo. Imprigiona le molecole tossiche, le sospende in alto, come piccoli astri scuri, come ombre delle stelle, nel nostro mondo che è un negativo di quell'altro, anche noi siamo ombre che hanno perso il corpo.
Però, guarda, in mezzo a tutto questo bianco, i tubi dell'oleodotto sembran strade e le ciminiere colline e castelli. I fumi sembrano l'evaporazione di una grande brughiera o l'esalazioni di un grande mare.
Di', non ti sembra bello?
Di', non ti senti più giovane?
Dimmi, non c'è spazio per un estemporaneo presente? Presente semplice?
Dimmi, per questo attimo soltanto, prima che la nebbia si diradi, prima che torni quel mondo bruttissimo, dici davvero che non hai un pungolo di colore a mischiarsi col mio, una serpentina d'incanto tra gli strati della pece, un guizzo d'amore, un bacio ombra, uno stampo perenne s'un effimero bianco?

                     Foto di dmar73    http://instagram.com/dmar73

lunedì 3 ottobre 2016

Solo uno spizzico

Si vedevano al parcheggio di un grande autogrill sulla tangenziale da un tempo non proprio brevissimo.
Lui faceva il cuoco allo Spizzico. O meglio, scongelava pizze allo Spizzico e le metteva nel forno fino al suono del campanello, che indicava che la pizza aveva raggiunto la giusta fragranza.
Lei non andava mai a mangiare in quello Spizzico.
O meglio, a volte ci andava per osservarlo armeggiare con pizze e fritti, ma sempre fingendo di non conoscerlo: non potevano essere visti insieme.
Lui protestava, che non voleva essere visto col grembiule rosso e le mani puzzolenti di olio di scadente qualità.
Ma la puzza di olio mica si vede, ribatteva lei, mentre il grembiule rosso ti dona.
Fa uguale, diceva lui tutto seccato.
A lei invece piaceva vederlo con il suo grembiule rosso, le faceva tenerezza, e anche nell’odore delle cose che faceva, soprattutto quando aggiungeva un quid alle pizze: un fiore di zucca impanato, dei funghi porcini, delle erbe aromatiche che lei gli portava quando s’incontravano nel parcheggio.
Così non ti sembrerà di fare una cosa sempre uguale, diceva.
E lui ribadiva sempre che era proibito creare una qualsiasi cosa allo Spizzico, il menù dello Spizzico è come la vita, va seguita alla lettera, senza inutili deviazioni, senza opere di proselitismo all’originalità, adattandosi.
Ma poi in realtà ogni tanto lasciava cadere qualcosa sulle pizze, soprattutto quelle da asporto, così i clienti non sarebbero tornati indietro a protestare per quella deviazione.
Se hai così paura di deviare, che ci fai qui?
Qui non ci vede nessuno, ribadiva lui.
E quella cosa, del non essere visti, sembrava essere la più importante in assoluto.
Si mettevano in fondo al parcheggio, in un angolo mai frequentato da nessuno, forse perché era vicino a un fitto bosco che evocava paure ancestrali, o forse perché chi si ferma in Autogrill vuole solo mangiare e andare in bagno, perciò si mantiene il più vicino possibile al suo obiettivo.
Lì qualche volta facevano l’amore, male, incastrandosi tra i sedili, mettendo un parasole sul vetro, dicendosi qualche solita bugia. Altre volte parlavano cinque minuti.
Poi lui doveva andare, doveva tornare dalle pizze surgelate.
Qualche volta potresti portarmela una pizza.
Ma lui non le portava mai niente. Per qualche motivo, aveva deciso che non avrebbe mai fatto nulla per lei. Forse perché, se inizi a dare qualcosa, poi ti leghi a quel dare, diventa un gesto consueto, si annida nei circuiti della memoria, diventa un arco riflesso, non ci puoi fare niente, il braccio si allunga, una pizza oggi e una domani, si fa presto, non ci si accorge, che qualcuno prenda ciò che si ha da dare diventa più importante del prendere, e poi la pizza dovrà essere più buona, già, sempre e sempre di più: non basteranno più i fiori di zucca, forse serviranno anche i fiori di pesco e quelli d’arancio, mentre la vita è un menù fisso dello Spizzico.
Lei aspettava ogni giorno da tanto tempo quel trancio di pizza. O almeno una crocchetta di patate.
In realtà era un’attesa un po’ sgualcita, simile alla scarpe vecchie, che crollano da un lato.
Un giorno potremmo uscire da questo parcheggio, potrei venirti a prendere e potremmo andare a vedere un tramonto, un’alba, o magari a mangiare un dolce in pasticceria. Oppure andare sulle scale mobili di un ipermercato, dopo aver comprato dei biscotti con l’olio di palma.
No, diceva lui: noi siamo quelli del parcheggio.
E cosa siamo noi?
Niente, quelli del parcheggio.
E forse a quel punto le dava un bacio mal dato.
Se non tornassi mai più, ti dispiacerebbe?
Sì, mi dispiacerebbe molto.
E allora perché?
Devo andare.

Il mondo le sembrava tutto bellissimo, da quando amava così male in un parcheggio.
Aveva un fascino decadente anche la periferia, guarda quelle ciminiere, gli diceva mentre lui non c’era e gli nominava le cose come a un bambino che non ha mai visto niente, perché non sapeva immaginarselo fuori dal parcheggio, senza il grembiule rosso e il cappellino dello Spizzico sulla testa. E così diceva ponte, cormorano, papera, Ikea, Mercatone Uno, come fossero stati sonetti d’amore.
Collezionava oggetti alla rinfusa: libri, penne, matite, vecchi giradischi. Come una marziana, per fargli conoscere da dove veniva e invogliarlo a visitare anche lui quel luogo magnifico.
Gli faceva sentire le canzoni.
Gli portava il suo cane, tutto scodinzolante.
Il suo cane gli leccava la faccia e impazziva di gioia quando lo vedeva.
Perché è uguale a te, le diceva un poco sprezzante.
Metteva degli oggetti, tra sé e lui, come per edificare una via d’uscita dal parcheggio, come le briciole di Pollicino.
Con una bottiglia di sabbia, gli diceva senza dirlo “vieni al mare”.
Con un caffè, gli indicava la via di un risveglio.
Con un sombrero, il sogno di un viaggio lontano.
Con un libro, il calore di due poltrone affrontate, in cui ciascuno legge in silenzio qualcosa.
Poi andava a mangiare la pizza in uno Spizzico vicino a casa, che le sembrava irrimediabilmente meno bello, manchevole in qualcosa, a suo modo anonimo e sverniciato di ogni emozione.
Si mangiava il gusto della pizza che non le portava.
Guardava al di là dei grembiuli, sperava di trovare qualcosa, una sagoma altrettanto bella, magari somigliante e che volesse andar via dal parcheggio insieme a lei. Ma erano sagome anonime, non ridevano come rideva lui, non erano infelici nello stesso modo, di chi attende con una certa speranza sbiadita, non avevano la sua bellezza inquinata da una punta inquietante, spigolosa, non avevano neanche quella sua crudeltà ammansita e dosata, erano semplicemente gentili o scortesi, felici o infelici, belli o brutti. Non avevano nulla da cui essere riscattati: facevano le pizze senza origano e senza olive e non battevano ciglio. Nessun impercettibile segno di protesta. Nessun fiore di zucca messo di nascosto nei cartoni d’asporti. Nessuna parabola verso l’incanto.

Nel parcheggio cambiavano anche le stagioni.
Si faceva presto a passare da un freddo da morire a un caldo da morire.
Ti ho portato una spezia indiana.
Grazie.
E un peperone essiccato.
Grazie. E poi?
E un cappellino giallo.
Ma non posso mettermi un cappellino giallo. Il cappellino dello Spizzico è rosso.
Tu prendilo comunque, non si sa mai. Se non ci vedremo più, magari tra quarant’anni lo Spizzico avrà liberalizzato i cappellini e io, che avrò allora un’immagine un po’ sbiadita di te, ti riconoscerò perché questo cappellino non lo avrà nessun altro. È personalizzato.
Allora va bene. Ma noi ci vedremo sempre.
Davvero?
Davvero. Ciao.
Ciao.

Neve e sole. E mezze stagioni.

Ehi!
Che c’è?
Una volta mi abbracci?
In che senso?
Un abbraccio vero, nel senso che mi stringi forte, come dire “mi dispiace che vai via”
Se non lo sento, perché dovrei farlo?
Potresti sentirlo, dopo tutto.
Ah, forse potrei. Ci vediamo domani, eh!

Hanno smontato il cartello dello Spizzico.
Portano via la S per prima. E poi la I, senza un criterio ben preciso.
C’è uno strano odore, come se una grande pizza universale si fosse sciolta d’improvviso e d’improvviso colasse sul mondo fiotti di formaggio appiccicoso e scadente.
Il cielo è nuvoloso, potrebbe essere inverno, oppure estate.
Il parcheggio sembra un grande organismo esanime.
I muratori distruggono il bancone.
Qualcuno getta via i lasciti dei pizzaioli: una scatola con qualche spezia indiana, un libro, un cappellino giallo.
Non lo riconoscerà, pensa, se dovesse vederlo in un altro Spizzico, tra quarant’anni.
Non sa immaginarlo altrove. Anzi, forse è andato via con una lettera dell’insegna, tutt’insieme d’improvviso, senza lasciar traccia.
E poi vanno via i grembiuli rossi.
Su uno soltanto è rimasta una macchia.
Anzi, un bacio. Color ciclamino.
Non fosse per quello, potrebbe non esser mai esistito.
Mai come ora è felice di esser tornata indietro e di averlo, quel giorno, ancora una volta malamente baciato.