lunedì 21 marzo 2016

Se nevica polvere




Quando il mondo fu abbandonato, probabilmente io stavo dormendo.
Non so quanto dormii, se molto o se poco.
Quale che fosse il tempo trascorso, fu certamente abbastanza per cambiare lo stato delle cose in modo tanto netto quanto impercettibile e, quando aprii gli occhi, mi bastò un istante per capire che dal mio mondo era scomparso qualcosa e qualcos’altro si accumulava a vista d’occhio: era come se tutto fosse diventato, all’improvviso, una grande distesa di polvere.
Mi affacciai alla finestra: il cielo non era né buio né luminoso, ma avvolto in un denso strato crepuscolare. L’aria era fredda, ma senza inflessioni: sembrava un gas rarefatto, senza respiro.
Gli alberi non si muovevano e così non si muovevano i tetti delle case, i comignoli, i campanili, le pietre. Solo in quel momento capii che anche quegli oggetti così apparentemente inanimati, sino a qualche istante prima -o forse settimana, mese, anno, chi può dire quanto tempo fosse trascorso?- erano dotati di un movimento intrinseco e silenzioso: la montagna non sarebbe più franata, il comignolo non avrebbe più fumato a grossi sbuffi verso il cielo, i tetti non avrebbero più guardato la luna.
Indossai una giacca, la più pesante che avevo, e uscii di casa.
All’imbarcadero le barche si erano coperte di uno spesso strato di ruggine. 
La mia barchetta era ancora dove l’avevo ormeggiata, ma la sua brillante vernice azzurra si era screpolata qua e là, lasciandosi vincere da muffa e umidità.
Mi assicurai che potesse navigare e cominciai a remare verso l’altra riva del lago, dove sorgeva la città. Forse un insolito fenomeno metereologico si era scatenato su quella parte sfortunata della vallata. Forse sarebbe bastato quel piccolo tragitto per ritrovare la luce del sole, l’odore del pane, l’umanità affaccendata contro la ruggine.
Ma anche da lontano, i contorni degli edifici sembravano un grande organismo dormiente. Nulla pareva dover cominciare o finire. E, anche dentro di me, la sensazione non era troppo dissimile: remavo con una speranza sbiadita, come una di quelle sagome nere che compaiono nei sogni e scandiscono il tempo con una calma inquietante, come se improvvisamente, dopo tanti anni trascorsi con un tempo che non bastava mai, ci fosse stato tutto il tempo di questo mondo. 
Man mano che mi avvicinavo, riuscivo a riconoscere le balze delle tende appese alla sua finestra. Fui preso da una malinconia lancinante. Non come le altre volte: “ci sarà? non ci sarà? si affaccerà? E, se si affaccerà, avrò il coraggio di rivolgerle ancora un cenno? Le cose potranno cambiare? Chissà se a volte mi pensa”. No, questa volta sapevo che non c’era nessuno e che mai più l’avrei rivista.
Scesi dalla barca, carezzai il pomello della sua porta, spesso lo facevo con tutti i suoi oggetti: era pieno di polvere e la porta era aperta. Anche le porte vicine lo erano. 
Il mondo si era improvvisamente aperto. I segreti si erano scoperchiati. I cassetti spalancati. Nessuna intimità era più custodita. Mi fermai a guardare il suo bagno, che a volte ci aveva lavato via un po’ di tempo trascorso insieme: il lavabo era sfondato, lo specchio cosparso di macchie di muffa, la doccia coperta da uno strato di sabbia proveniente dagli scarichi tappati. Sembrava che il nostro tempo fosse tornato a galla, lui che era stato risucchiato nelle tubature insieme a un po’ del nostro sudore, del mio sperma e della nostra saliva e che stesse lì a imputridire con uno sguardo severo: era come se i ricordi fossero diventati cadaveri che nessuno aveva avuto il tempo di seppellire. In un angolo vidi una mia busta: era diventata coriacea come le mummie, sopra si leggeva chiaramente il suo nome e il suo indirizzo e, dietro, il mittente: quel mio tentativo di raggiungerla era ora esposto al mondo intero, anche il cielo avrebbe potuto guardarci dentro, da quella fenditura che si era scavata nell’abbaino. Ora tutti sapevano che l’amavo. Ora che se n’erano andati via.
Uscii in fretta, iniziai a correre.
Ogni tanto entravo in qualche abitazione o in qualche pubblico ufficio: alla posta le lettere erano impilate rigidamente una sull’altra, coperte da una lichenificazione color antracite.
Al panificio, i pani erano induriti come pietre, mischiati ai calcinacci.
A un certo punto la campana diede un rintocco cupo, arrugginito, desolato.
Entrai dentro il teatro, sprofondai in una poltrona di velluto rosso tutta strappi e sfondata e mi misi a fissare il palco, marcito sotto chissà quante piogge penetrate dai numerosi buchi nella maestosa volta a cupola. Il sipario era calato da una parte soltanto, attaccato a un montante caduto in rovina.
“Oggi danno Apocalipse Now!", sentii riecheggiare da una voce ridente.
Era una donna di piccola statura, sulla trentina, pelle e ossa, con un viso simpatico, né bello né brutto, incorniciato da un caschetto di capelli mossi color mogano. Si muoveva con decisione, mentre divideva le poltrone in una fila destra e una sinistra, sino a far comparire l’illusione di un corridoio centrale.
“Dai che scherzo, su. Un po’ di umorismo ci vuole, ti pare?”
Accennai qualcosa come un sorriso. Provai a tirare fuori la voce e solo allora mi accorsi che mi costava una fatica spropositata.
Lei mi guardò con biasimo, poi tirò fuori una capsula dalla tasca della giacca.
“Bevi, è acqua concentrata. Sembra che sia da tanto tempo che non bevi. La gola si secca e si fa fatica a parlare”
Masticai quell’acqua solida con un moto di disgusto, verificai che la mia bocca si stava in qualche modo sciogliendo e lubrificando, quasi fosse stata anche lei parte di quel grande ingranaggio arrugginito.
“Io… io dormivo”
“Ah, complimenti!”
“In che senso?”
“Ti sei addormentato mentre gli altri partivano.”
“Partivano? E dove andavano?”
“Non lo so di preciso. Non m’interessava e non mi sono informata. Però hanno detto << basta questo mondo!>> o qualcosa del genere. Si sono trovati un altro posto. Perché la gente è così: quando trova di meglio, se ne va.”
“Un altro pianeta?”
“In un certo senso."
“E… quanto tempo fa?”
“Quando sono andati via, questo mondo ha iniziato a morire. S’è come raggrinzito. In quanto tempo, non saprei dirlo. Forse in un secondo, forse in un secolo. Il tempo non scorre più uguale a prima. Essendosi raggrinzita, il sole non si distribuisce più uniformemente, l’atmosfera è diventata due volte più spessa, fa più freddo e non si capisce più che giorno sia, che stagione sia e via discorrendo”
“E come fai a sapere che si è raggrinzita?”
“Se non avessi dormito, lo sapresti anche tu”
“Va bene, ho capito che provi ribrezzo per uno che dorme mentre questo mondo viene abbandonato ma… potresti spiegarmelo?”
“Facevi uso di alcool?”
“No! Oddio, una birra ogni tanto…”
“Benzodiazepine, neurolettici, stabilizzatori dell’umore?”
Scossi la testa.
“Droghe?”
“Santo Dio, no! Ma che fai? M’interroghi?”
“Scusa, sono avvezza alle raccolte anamnestiche”
“Sei un medico?”
“No. Ma ho trascorso più vita chiusa negli ospedali che fuori. Negli ospedali per i matti, intendo”
“Ah, andiamo bene”
“Beh, è curioso: prima non mi credeva nessuno. Adesso quei pochi che sono rimasti, sono costretti a credermi per forza… c’è poco da fare. Pensa che strana la vita: ti addormenti, ti svegli su questo mondo abbandonato e l’unica che sembra saperne qualcosa è una povera matta”, e poi si mise a ridere con una risata tanto clamorosa che riecheggiò per tutto il teatro.
“A me non sembri tanto matta”
“Per forza, non c’è più nessuno. Più si riduce la gente a cui devi sembrare sana, più lo diventi. Mancano le opinioni divergenti. La pazzia è soprattutto una lotta e…”, disse asciugandosi il sudore dalla fronte e spostando le ultime poltrone rimaste a mezzo, “se non c’è nessuno con cui lottare, caro mio, l’assurdo diventa ordinario e l’ordinario assurdo”
Dopodiché mi fece cenno di seguirla.
Serpeggiammo per le strade spettrali della città, passammo sul ponte, che minacciava di sgretolarsi da un momento all’altro, io mi fermai per un attimo a guardare l’acqua del fiume, che sembrava una distesa sfinita di fango, una sorta di ombra dell’acqua. Mi ritornò l’immagine del bagno di lei e di nuovo quella nauseante sensazione che i ricordi fossero diventati cadaveri in putrefazione.
“Ma tu sei una sorta di disadattato sociale? Un barbone? Una minoranza etnica?”, mi disse all’improvviso parandosi davanti a me, guardandomi fisso negli occhi e iniziando a pizzicare centimetro per centimetro la mia faccia, con movimenti cadenzati, che sembravano finalizzati a qualcosa. Dopodiché iniziò a picchiettarmi la fronte con i polpastrelli, in un modo che però non aveva alcuna femminilità o dolcezza, ma sembrava davvero una sorta di esame obiettivo di un manuale di semeiotica inventato da lei soltanto. Mentre lo faceva, gli angoli della bocca le tremavano impercettibilmente.
A un certo punto, irritato e inquietato, le presi le mani e la fermai con decisione.
“Che cavolo stai facendo?”
“Sto vedendo se sei una persona coerente. Si vede dalle reazioni della faccia. Io ad esempio sono una persona molto incoerente: rispondo con smorfie opposte a destra e a sinistra anche se vengo toccata da un medesimo gesto. Si tratta di trovarsi dalla parte giusta.”
Effettivamente doveva avere qualche rotella fuori posto.
“Comunque non sono né un barbone né un disadattato. Sono un architetto. Ma perché me lo hai chiesto?”
“Beh, perché non t’è venuto a cercare un cane di nessuno quando sono partiti…"
Mi sentii pugnalato: aveva ragione. Non era venuto un cane di nessuno. Mi avevano lasciato a dormire, avevano preso le loro cose e se n’erano andati. Non poteva essere vero. Doveva esserci una spiegazione, pensai mentre vidi, con un certo sollievo, che le mie lacrime mi rigavano la faccia in modo simmetrico, a destra e a sinistra.
“Non c’è una spiegazione”, riecheggiò lei.
“Mi leggi anche nel pensiero?”
“No, ma chi piange è alla ricerca di una spiegazione. Infatti i matti matti, che si sono arresi, piangono pochissimo”
“E tu perché non sei andata?”
“Perché così finalmente posso vedere quello che voglio: cavalli che volano, spiriti vicino al mio letto, posso parlare col mio amico immaginario…”, poi di nuovo si lasciò sfuggire quella risata aguzza, si girò con un balzo e mi baciò la punta del naso: “ci sei cascato, di’ la verità… è incredibile quanta poca fantasia la gente abbia riguardo ai matti”. 
Cominciai a sentirmi molto stanco.
S’infilò su per una scala in un condominio fatiscente alla periferia della città, salimmo fino all’ultimo piano dove c’era un solaio debolmente illuminato. Sul fondo, in mezzo a una dozzina di cornici vuote, c’era un uomo sulla settantina o forse era il suo aspetto a farlo sembrare più vecchio: aveva il volto quasi grigio, con una barba mal rasata, le labbra sottili che lasciavano intravedere una bocca quasi totalmente sdentata. Se ne stava in piedi, con aria attonita, totalmente indifferente alla nostra presenza; a volte disegnava dei cerchi per aria con un piccolo pennello, con gesti vezzosi e un po’ femminei, accennando un piccolo sorriso di meraviglia; altre girava su se stesso senza posa in preda a improvvisa agitazione.
Mi fece cenno di avvicinarmi e m’invitò a guardare l’uomo negli occhi: dentro le sue pupille erano riflessi i quadri assenti all’interno delle cornici. Rimasi a bocca aperta, mentre con straordinaria vivezza nei suoi occhi si muovevano le cime degli alberi, si apparecchiava una tavola, si scacciava una pioggia con un ombrello azzurro.
“Era un pittore, lo avrai capito. In lui è rimasto un riflesso del mondo, forse perché era un artista e gli artisti vedono le cose in modo diverso. Ai tempi, prima che questo mondo si raggrinzisse, dipingeva quadri molto astratti. Ora che questo mondo è degno del più impensabile surrealismo, non fa altro che vedere una realtà più ordinaria. Continua ad essere un dissidente. Purtroppo, non riesce più a dipingere. L’immagine di ciò che è stato lo abbaglia a tal punto che non si può muovere e neanche parlare. Direbbero che è matto pure lui. Ma, vedi, se gli altri non ci sono, non ci sono neanche più i matti”
Provai a girarlo in direzione della finestra, che dava su una strada che, un tempo, degradava dolcemente verso la campagna. Adesso non c’erano che steccati tremolanti, case in rovina ed erba pallida. Nei suoi occhi, però, la strada s’intrufolava in un sentiero colmo di violette e alberi di pesco. Le case odoravano di bucato steso. I bambini giocavano a pallone in un grande campo, inseguiti da un piccolo cane marrone. 
Lo girai verso il centro: l’ufficio postale ritirava la posta del giorno, dal panettiere la gente usciva con in mano un trancio di pizza. Ancora qualche metro: la sua finestra era aperta, le tende sventolavano dentro e fuori dalla stanza scosse da un fresco vento primaverile. Aspettai un po’ di vedere se si affacciava. Il cuore mi batteva forte. Mi sembrava di vedere le piastrelle blu del suo bagno, la doccia splendente, i saponi sul lavabo. In camera sua, lo scrittoio era integro, sopra c’era la mia busta. I ricordi erano di nuovo ricordi: puri, immateriali, profumati come quel vento di primavera che lui dipingeva, dentro il suo iride, con tempere spesse, macchiando il bianco nel blu. Potevo ben vedere come quell’uomo scegliesse i colori e svolgesse i suoi movimenti sapienti sulla tela, pur rimanendo assolutamente immobile. Non si affacciò. Forse il riflesso del mondo che era stato la riteneva superflua. Ma allora non era un grande riflesso. Anche se non mi aveva svegliato e mi aveva lasciato qui, nel ricordo cadaverico del mondo, insieme a un'isterica e un pittore schizofrenico.
“I matti sono come carte geografiche agli occhi di chi li guarda: vedono solo i loro contorni, magari capiscono che lì c’è una montagna o una pianura o un deserto ma non riescono a immaginare che tipo di montagne, di pianure o di deserti”, disse indicando il pittore. Poi aggiunse grave, con aria perentoria: "Anche tu sei matto”
“No, io non sono matto”
Poi improvvisamente cominciò a cadere una neve copiosa. Ma non era la solita neve: era fatta di fiocchi di polvere. Cadeva a un ritmo vertiginoso.
“È la pelle di questo mondo che si raggrinzisce e cade”, mi disse, come fosse la cosa più naturale del mondo. Poi sparì dietro la porta, la sentii armeggiare un po’ con degli oggetti metallici. Alla fine ne uscì con in mano due pale.
“Dobbiamo spalare in fretta, altrimenti rimarremo sommersi: questa non si scioglie”
Lasciai a malincuore il pittore col riflesso del mondo negli occhi: dentro di lui la neve era candida e fredda e chiudeva piacevolmente la gente nel calore delle case.
Spalavamo la polvere e la ammucchiavamo ai bordi della strada e continuammo a farlo per un tempo incalcolabile. Gli attimi si susseguivano come fotogrammi identici, i gesti si ripetevano stereotipati, i fiocchi di polvere continuavano a cadere senza sosta e, a un certo punto, iniziai a vedere in essi uno strano dolore. Quando toccavano le cose, queste istantaneamente si ripiegavano su se stesse, come un uomo a cui si fosse curvata improvvisamente la schiena: diventano vecchie, si rompevano, si arrugginivano, gravavano su se stesse. Ciò mi spingeva a spalare più forte: cercavo di seppellire i cadaveri dei ricordi, non volevo più vederli così sfigurati.
“Ti dirò la verità sul perché ho scelto di rimanere. Cominci a starmi simpatico. Sono rimasta perché ho pensato che così non morirò”
“Tu sei matta davvero. Fra poco qui non ci sarà più niente da mangiare, il sole non sorgerà più e schiatteremo nel peggiore dei modi”
“Può darsi che non ci sarà più niente da mangiare e che il sole non sorgerà più. Ma non schiatteremo. E sai perché? Perché questo mondo ha bisogno di noi. Ci ho pensato, sai? Prima la gente moriva perché ne nasceva altra. Ora questo mondo lo sa che non nasceranno altre persone: io non posso più avere figli. Sono seccata. Ma a questo mondo servo per spalare la polvere e non mi eliminerà, non più.”

La stagione delle nevicate di polvere sembrava non finire mai.
Dopo quel lungo sonno, sembrava essersi dileguato in me ogni bisogno di dormire. Anche del cibo non sentivo più la necessità.
Passavo le giornate a spalare senza sosta la pelle della Terra che si raggrinziva, a pulire i locali degli edifici, a mettere ordine. 
Ascoltavo i discorsi della mia amica che, per quanto strambi, a volte parevano persino sensati.
Ogni tanto aveva delle crisi, durante le quali iniziava a tremare e urlare terrorizzata che le mani le si erano seccate e che la secchezza si stava propagando in tutto il corpo: in realtà le sue mani non si seccavano affatto, e così neanche il suo corpo, ma lei aveva quella reale sensazione. Dovevo tenergliele a lungo intrecciate nelle mie e, a poco a poco, si tranquillizzava.
“Grazie, ora sono idratate”, mi diceva ogni volta, al termine di quel piccolo rituale.
Cercavo di non pensare a niente. Ogni tanto guardavo negli occhi del pittore, lo giravo a nord, a sud, a est e a ovest e improvvisamente qualcosa fioriva, la lanterna sul lago si accendeva, i battelli andavano e venivano, il lungolago si popolava di carretti di gelati e cigni imbizzarriti.
A volte pensavo al nuovo mondo. Chissà se era come questo era stato. Se c’erano i cigni e le papere. Se suonavano le campane e la gente andava a teatro. Se c’era una finestra come la sua, con le tende bianche con le balze e se dietro, chiusa in quella sua indifferenza un po’ scostante, c’era ancora lei. Che non mi aveva avvisato.

Un giorno, mentre la mia amica era andata a solidificare un po’ di acqua nelle capsule allo zampillo della sorgente, presi il pittore per mano. Camminavo veloce e lui, automaticamente, mi seguiva. Attraversai il ponte, oltrepassai la chiesa, il panificio, il teatro, l’ufficio postale. 
Carezzai il pomello della sua porta, salimmo le scale e arrivammo nel suo appartamento.
Non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi.
Feci molti respiri profondi, poi mi decisi.
La stanza era pulita, le tende tirate. Vedevo distintamente lo scrittoio e, sopra, un’orchidea bianca. Dietro c’era il divano. Lo portai in camera da letto: sul letto le lenzuola erano pulite, appena cambiate, le finestre aperte. Nell’armadio riuscii a vedere distintamente la giacca beige. Sul comodino c’erano i suoi occhiali. Lo portai ancora nel bagno e in cucina: era tutto a posto, come se fosse appena stata fatta una profonda opera di pulizia. 
Ma non c’era traccia di lei e neanche di me. 
Riprovai ancora molte volte. Una volta vidi il suo piede e la gamba, fino al ginocchio. Un’altra ancora le dita delle sue mani. 
Se distoglievo lo sguardo dal pittore, i ricordi subito diventavano cadaveri: le lenzuola erano logore, strappate, il nostro amplesso le agitava convulse e le sporcava. Sul tavolo della cucina comparivano avanzi in decomposizione, una cena interrotta da una parola di troppo. I miei fiori marcivano dentro i vasi, non curati. La mia lettera se ne stava chiusa nella sua busta divenuta coriacea. 
“Non mi hai svegliato”, cominciavo a ripetere, a volte pieno di rabbia, altre pieno di dolore. Poi distoglievo lo sguardo, tornavo dal pittore, la rabbia e il dolore svanivano, tutto era posto: vasi bianchi e tende fresche. Ci pensava lui a pulire ogni cosa.
Un giorno lo portai a casa di mia madre. Anche lei non mi aveva svegliato. 
La casa era in condizioni pietose, come se si fosse consumata una lunga battaglia. 
I miei giocattoli erano tutti sparsi sul pavimento: il cavallo a dondolo sembrava essere stato trafitto in più punti e cacciava fuori il suo rivestimento di cotone come un essere sfiatato; le carrozze del trenino erano state scoperchiate, le rotaie erano finite sulla terrazza ed erano state sormontate da strati e strati di erba opportunista. Ovunque regnava un grande disordine: il bucato era non lavato, un biberon giaceva sul fuoco bollente, sullo sfondo un pianto acuto, fastidioso, inarrestabile che reclamava attenzioni. Mi chiedevo perché mia madre non avesse custodito con più cura i miei giocattoli. Sembrava la casa di un uomo solo. Anche lei era assente.
Mi bastava guardare negli occhi del pittore per cancellare quell’immagine, recuperare un ricordo ordinato, come doveva essere, riconciliarmi con quelle mie case così aperte, così brutalizzate dall’abbandono.

“Tu sei proprio matto”, mi disse quella sera la mia amica, mentre le raccontavo che non riuscivo a vedere mai nessuno nei miei ricordi.
“No, io no.”
Mi portò dal pittore, lo fissò a lungo nelle pupille, poi mi fece cenno di guardare le sue: c’è un uomo in un letto, corpulento, sudaticcio, tanta gente attorno, col camice bianco. Mi assomiglia tanto, forse troppo. Fa un caldo boia. Qualcuno prova a tenergli la mano ma lui con forza serra il pugno. Altri gli rivolgono una parola, chiamano il suo nome, gli porgono dell’acqua con una cannuccia ma lui serra con forza le labbra. Gli dicono che è una bella giornata: serra le palpebre. A chi prova a spostarlo, risponde con gesti convulsi, tirandosi fin sopra gli occhi la coperta. 
“Negativismo estremo”, si sente mormorare nella stanza. “Se continua così, bisognerà chiamare il chirurgo a mettergli un sondino”
Fino a qualche giorno fa scriveva senza sosta fogli riempiti con un unico nome, curandosi di non lasciare neanche uno spazio bianco.
“Qual è la storia di questo paziente?”, chiede qualcun altro da un angolo imprecisato della stanza affollata.
“Era un tipo bizzarro, faceva l’architetto ma non ha combinato un granché: progettava edifici a suo dire indeteriorabili. Tendeva a legarsi morbosamente alle persone e agli oggetti. C’è una familiarità per schizofrenia: alla madre avevano tolto l’affidamento del figlio per disturbi mentali. Pensate che ha tentato di mutilarsi i genitali con le mani e un ferro rovente. Le è venuta un’infezione e hanno dovuto praticarle un’isterectomia d’urgenza. Non so tanto altro”
“Beh, bisogna insistere con quella cannuccia”, dice un  altro medico rivolgendosi a una tirocinante “Vuoi farlo tu che hai un po’ più di tempo? Tra l’altro è un caso interessante. Ah, e stai attenta che non si butti giù dal letto, sono pazienti che possono avere reazioni imprevedibili”
I camici bianchi escono dalla stanza come un piccolo corteo funebre e albino e lo lasciano in quel mondo.

Guardai la mia amica negli occhi, con metà faccia rideva, con l’altra piangeva. Poi il viso iniziava a decomporsi e ad assumere un aspetto cangiante: lei, mia madre, lei, mia madre, lei mia madre. E poi altre donne, belle o orribili. E poi città, accoglienti o inospitali come ghetti. E poi io, in piedi in questo mondo, disteso nell’altro: qui spalavo la polvere, lì ne rimanevo sommerso.
“Domani io vado via: per favore, lasciami con l’idea di aver fatto qualcosa, apri la bocca... dai, solo un sorso”, diceva una ragazza giovane col camice bianco ai piedi del letto, mentre mi stringeva la mano. “Uno solo, giusto per farmi capire che mi senti. Non vorrai mica scioglierti su questo letto!”
Una piccola resistenza si sciolse e fece passare una goccia dentro il mio mondo.
Il pittore fece un tonfo sul pavimento. Nei suoi occhi ora non c’era più niente, solo il riflesso del soffitto, la mia faccia e la faccia della mia amica, tornata una soltanto, né bella né brutta ma in fondo con un aspetto simpatico, avvolto in uno strano dolore.
Lo seppellimmo senza troppe cerimonie sotto un pioppo, che rinverdì un pochino dopo che quella piccola goccia aveva imbevuto la terra. Dopo lei scavò una fossa e ci buttò dentro le vanghe.
Mi prese per mano, mi condusse in casa. Aveva le mani terribilmente secche.
Ci stendemmo sul letto. Fuori nevicava polvere. Lasciammo che cadesse, che coprisse ogni cosa. A un certo punto la vedemmo arrivare al livello della finestra. Ancora un po’ e sarebbe arrivata al tetto. 
“Lasciamo che cada, lasciamo questo mondo, ti prego”
Le strinsi la mano e lei sorrise.
“Grazie, ora è idratata”
…..
Dopo qualche settimana fui dimesso, in seguito a un rapido miglioramento. Doveva essere passato molto, moltissimo tempo.
Fuori, nell’altro mondo, non mi aspettava nessuno. 
Però lei, con una faccia simpatica, né bella né brutta ma segnata da uno strano dolore, venne via con me, forse invisibile al resto del mondo. Che, se nevica polvere, non se accorge nessuno.

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