venerdì 19 febbraio 2016

Ultima a lasciare il mio posto

Sai, non ci sono più
le mezze stagioni
i mezzi amori
le mezze strofe
l'alba e l'imbrunire.

Vedi, tutto è portato
all'estremo. Così,
non più si vedono
bucaneve e foglie
volti quasi nati e quasi morti
e tra loro un passo che indietreggia
una mano che indugia
un foglio appallottolato in un cestino
e poi di nuovo aperto
qualche luce più tardi.
Mancano all'appello
anche i diesis e i bemolle
e lo scirocco -dicono-
non se la passa molto bene.
Senza bambini e senza vecchi
tutto si sa una volta per tutte
e -ascolta- non so bene
a chi raccontare la mia infanzia
o con chi morire la mia morte.
Ah, dimenticavo: non si dorme.
E cosi, capirai, non mi visitano più 
gli elefanti blu 
delle coccinelle innamorati
le volpi circensi sui tetti
i baci divenuti falene
dopo la loro lunga incubazione in crisalide.

Ogni cosa s'è preso questo estremismo
fatto a tavola di scacchi
e infatti -non te l'ho detto ancora-
è tutto un battersi d'opposti
con armi feroci
versi disumani -ma mai impauriti,
giacché o morti o vivi
ma mai quasi morti o quasi vivi-
rapidi balzi dall'uno all'altro stato
e dicono che così il cosmo sarà ripristinato.

Eppur sempre mi dilungo 
in autunni, in alberi cavi 
-morti sopra e vivi sotto-
in cieli semi-azzurri
e amori agrodolci.
E, ultima a lasciare il mio posto,
davanti allo spettacolo 
dell'ultimo tramonto
-che pure erogarono 
come bonus finale
a pochi nostalgici-
nonostante i richiami
-telegrafici, imperativi
metallici e insistenti-
rimango.

Ma non so più a chi raccontare
quel momento infinitesimo
tra crisalide e farfalla
tra immaginazione e morte.

Vedi, in questo mondo,
divinamente ordinato
giustamente crudele 
come un soldato
non so più 
a chi e come
parlare di te.



domenica 7 febbraio 2016

I HATE LOVE



Guadare la finestra il primo dell’anno, guardarla in un primo mattino del primo dell’anno, guardare forse per la prima volta, sporgersi giù con tutta la faccia, scoprire che la strada in cui abiti da un vita ha una sua anima aerea oltre che terrena e che tutto è diverso dal settimo piano -i tetti, i comignoli, l’angolatura del semaforo, le sberluccicanti insegne a forma di palla decorativa, tutte spente come una città dopo un bombardamento, e la gente, la gente così inerme, così attaccata al fondo delle cose. Basterebbe in fondo una caraffa d’acqua o tre, quattro mazzi di fiori aperti alla rinfusa, un chilo di sardine o un quintale di lenticchie avanzate da ieri sera -quello stupido banchetto consumato da solo-, buttare tutto dal settimo piano basterebbe forse per gettare scompiglio nelle vite dei mattinieri, che si aggirano con quella tranquillità irritante che hanno i visitatori dell’alba di non essere visti mentre farfugliano la loro solitudine tra i cadaveri della festa: resti di bicchieri rotti, corpi di fuochi d’artificio bruciacchiati, cocci di bottiglie del supermercato. 
E invece non fare niente, sporgersi soltanto, magari lasciar defluire appena un gorgoglio dalle labbra, “buoooon annoooooo” urlare e poi nascondere il viso, come un bambino dispettoso, a trent’anni non si possono fare queste cose o forse sì se è il primo dell’anno e sei molto infelice e non esci di qui da una vita mentre fuori nasce il mondo col suo anno nuovo e il verso di qualche uccello migratore. 
Non sono, non sono ubriaco, eppure ho una voglia matta di buttare giù tutto: sardine, lenticchie e i fiori che ti ho comprato ogni giorno ma poi non ti ho mai portato, perché certe cose è più facile pensarle che farle, nel pensiero va sempre tutto bene, io ti do i fiori e a te s’inarca il sopracciglio sinistro, è una porta verso gli occhi il sopracciglio, tre-due-uno finalmente mi guardi con la coda dell’occhio, poi con due terzi di occhio, poi con tutto l’occhio sinistro, il destro è strabico perciò non mi guarda mai. E se mi guardi mi baci, finisce sempre così, non puoi resistermi se mi guardi: da quel momento in poi è tutto semplice. È il prima che è complicato, è sempre il prima.

....

Lei possiede solo un ombrello ma molto grosso, mai visto un ombrello così grosso.
Eppure non piove.
Ho paura dei fuochi di capodanno, dice a un pubblico immaginario, si ripara con l’ombrello.
Ma mica ti cadono in testa, le obietto dalla finestra, con un silenzio così pesante che credo proprio mi abbia sentito: incredibile quanto pesino le parole non dette.
Ognuno ha le sue, risponde e poi tace, tira fuori uno specchietto dalla borsa e si controlla le labbra. A volte ha paura di trovarsi diversa, magari invecchiata o forse solo tremendamente diversa, altro viso, altra età, altro sesso. Perché poi non dovrebbe capitare? Chi l’ha detto? Solo perché non è mai successo prima, questo dovrebbe essere un buon motivo per credere che non succederà mai?
In ogni caso non è vero che ha paura dei fuochi d’artificio, forse è solo una scusa e in realtà le piace quel grosso ombrello: è di Moschino, blu notte con tante donnine con una veste rossa che ballano il flamenco.
Ad ogni modo le è servito l’ombrello contro la pioggia di sardine e lenticchie e fiori secchi.
Sono volati giù all’improvviso, dal cielo. Hanno macchiato l’ombrello.
Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, protestare e dire “bel modo di cominciare l’anno nuovo” o qualcosa del genere, ma chi è che se ne va in giro la mattina presto del primo dell’anno?
Non le viene in mente di alzare gli occhi al cielo, però. 
Una che si oscura da sempre lo sguardo con l’ombrello non ha di queste illuminazioni.
L’ultimo pezzo di quel tornado di oggetti gettati giù alla rinfusa è rettangolare, sembra lo stipite di una porta in cartongesso, c’è scritto sopra I HATE LOVE: taglia l’ombrello da parte a parte, per un soffio non le ha centrato la giugulare con il suo angolo appuntito, però le ha lacerato il lembo del cappotto.
Tutto il cielo muto le si apre sopra la testa.

.....


Nascondersi non serve più, la finestra è aperta, non può che essere venuto di qui tutto quel ben di dio.
Sono pazzo, pazzo, pazzo e neanche ubriaco. Non ci sono scuse. Ho quasi ucciso una passante. Perché? Perché ieri non mi sono divertito, e neppure l’altro ieri e quello prima ancora, non ho allentato i freni inibitori, sono sempre, sempre in ritardo. Mi disinibisco quando gli altri tornano in carreggiata, quando ripuliscono le strade, quando non è più la notte di capodanno.
Ho quasi ucciso una passante, Dio sa perché quella tiene aperto l’ombrello.
IO ODIO L’AMORE è una frase che può uccidere, non ci aveva creduto lei quando glielo avevo detto, protestando distratto con quella frase che si era messa a scrivere in un pomeriggio di pioggia con la matita per gli occhi, sulla nostra orribile porta in cartongesso.
E poi perché lo odi? Se odi l’amore odi me. 
Ma no. 
Ma no un cazzo. Oppure se non odi me, vuol dire che io non sono l’amore e non so cosa preferire. Di’ qualcosa. 
Ma no, ma no. E hai inarcato per l’ultima volta il sopracciglio sinistro, così mi hai guardato con due terzi di occhio e poi con l’occhio intero, il destro invece vagava per conto suo verso la libreria.
Però lo vedi che non si può odiare l’amore senza rischiare seriamente di uccidere qualcuno. Da quando odi l’amore tu, io sono morto. E uccido pure. O almeno ci provo.
....


C’è il cielo sopra lo squarcio dell’ombrello! 
Il cielo sopra l’ombrello!, lo dice anche con la voce, un filo appena e le scappa da ridire.
Le sembra di vederlo per la prima volta dopo tantissimo tempo.
E le nuvole abbracciate in fila come tante donnine di Moschino che ballano il flamenco. D’un rosso amaranto come l’alba alle 7,59 del primo dell’anno.
E molto, molto vento freddo sopra la pelle, nuda del suo ombrello lacerato.
Il mondo delle antenne, dei comignoli e dei fili sospesi, degli uccelli neri in equilibrio sopra le antenne, i comignoli e i fili sospesi, forse il regno delle creature notturne, Mary Poppins e Babbo Natale e forse pure la Befana. Delle note jazz che escono dalle trombe e dei toni cupi delle sonate tedesche che rimbombano nei clavicembali.
Non le sembra troppo inconsulto che dal cielo possano venire giù sardine e lenticchie, fiori secchi color lillà e neanche pezzi di cartongesso con su scritto I HATE LOVE.
Dev’essere la vita. Dev’essere così, avere di questi odori contraddittori, puzza di pesce e aromi appassiti e poi deve fare un gran bene il dolore di essere lacerati. In fondo è così che comincia tutto, lacerando una membrana, lacerando un ombrello.
E così vorrebbe salire, salire, soltanto salire.
Vorrebbe una scala e arrivare almeno all’altezza dell’orologio elettronico che dice 1/1/16, stare all’altezza di un primo giorno dell’anno.
Forse è vero che ha paura dei fuochi d’artificio. Degli uccelli, dei coriandoli, dei fumi che escono dai comignoli, dei campanili che svettano.
S’infila nel primo portone sulla sinistra: ha un porticato che sembra l’anticamera di un altro mondo, un pozzo al centro e poi lei, la scala, una scala a cielo aperto che gira su se stessa.

.....

Sono stato scoperto. Sta venendo a protestare e ha ragione.
Cosa potrei dirle? 
Scusi, ero infelice.
E se sei infelice, mi direbbe, non avevi certo il diritto di attentare alla mia vita.
Le dirò che l’infelicità è un’arma più potente della felicità. Nessuno dovrebbe soffrire oppure dovrebbero farlo tutti. O tutti o nessuno. La convincerò. Magari anche lei è infelice e vorrà lanciare qualcosa giù, dal cielo solitario alla terra affollata, prendere un qualche oggetto qualunque e pian piano eliminare, eliminare, eliminare questi finti compagni: vasi, libri, posacenere, giornali, cuscini, tappeti, portamatite, tutti questi orribili oggetti che si mettono tra me e la solitudine come morfina nelle vene di un malato terminale.
Certo, non sono presentabile: ho un pigiama a righe. Il mio viso dovrebbe essere bello, di solito sorridono le persone quando vedono il mio viso, però di solito ho cura di indossare almeno una camicia in tinta unita e dei pantaloni blu. Già, dei pantaloni blu. 
Anche i colori dovrebbero andarsene quando sei solo, dipanare qualche chilo di emozioni.
ODIO L’AMORE non c’è più: la porta ha un buco al posto di ciò che doveva uccidere e io posso finalmente sedermi in poltrona. Che potere la sottrazione!
Inizio a far colare via l’intonaco dai muri, basta fissarlo e il giallo sulla parete comincia a sciogliersi, a formare rivoli intricati sul pavimento. Il muro diventa trasparente, un continuum con l’aria grigia del cielo di gennaio.
E così via il mogano dalla libreria, lo squisito ricamo lilla, che tanto ti piaceva, dal cuscino sul divano, il bianco spesso dalla ceramica della tazza, il nero dai miei peli pubici, il rosso dalla lingua, l’ambra dall’iride. Via. 
Meno, meno, meno.
La finestra si apre e si chiude, come un polmone che riprenda a respirare.

....

Lei inizia a salire, la scalinata fa cerchi e cerchi. Mai visti così tanti piani sospesi sul cielo.
E si porta dietro uno stormo di uccelli. Non sa da dove vengano, forse sono usciti dal pozzo, dalle viscere della terra, forse quando è stato lacerato l’ombrello si sono lacerate improvvisamente tutte le membrane: il pozzo si è aperto, gli occhi ciechi hanno trovato un limpido cristallino, sono nati i ritardatari, uscite le farfalle dalle crisalidi, i pulcini dalle uova. E ora i pulcini volano e la seguono senza troppo avvicinarsi, come dei sudditi fedeli. O forse la sospingono con un esercito di ali.
Forse ci son sempre stati, dietro l’ombrello di Moschino con le danzatrici rosse di flamenco.
Forse c’è sempre stato un altro mondo, una scala concentrica, una parola piovuta dal cielo che includesse l’amore. Anche solo per odiarlo.
Sulla scala segue rivoli di colori mischiati alla rinfusa: si sente il salmone che risale alla sorgente.

.....

È rimasta solo la poltrona, scolorita. Il resto è volato tutto via.
La poltrona quasi quasi la tengo.
Serve un posto dove sedersi quando ci si vuole sentire del tutto soli.
Ho trent’anni, sono nudo ed è il primo di gennaio.
Abito al settimo piano di un antico palazzo del centro cittadino.
Sono bello, parlo bene, leggo poesie e scrivo cose senza valore.
Lei non era bella, non era neanche buona, non era neanche giovane. Non era neanche.
Portava delle calze orrende e dei bellissimi orecchini.
Mi piaceva come mi toccava. 
Come mi toccava la spalla, con piglio forte e deciso.
E come mi mordeva il mento al risveglio, con tutta la barba appuntita non ancora levigata dal rasoio. E poi mi diceva di sistemarmi il collo della camicia, mentre tagliava la carne cruda con un coltello affilato su un tagliere da cucina: tante volte ho pensato che avrebbe potuto avere un raptus e uccidermi con quel coltello da un momento all’altro ma non lo ha mai fatto, ha solo continuato a uccidere organismi già morti, a espandere la loro morte in fette, in bocconcini, in parti.
Era meticolosa, sì, non potrei dire altrimenti.
Era prudente, sì. 
Nascondeva tutta la sua rabbia nel modo in cui tagliava la carne. E in cui, con lo stesso piglio deciso, toccava altri uomini, altre vite e, forse di conseguenza, altre morti senza che io lo sapessi.
Mi toglieva i sigari dalla bocca e diceva che era meglio scopare che fumare e lo faceva subito, senza preliminari. Così mi avrebbe evitato un cancro ai polmoni, diceva. 
Io la baciavo con vigore, passandole la lingua su tutti i denti e il palato e le gengive, come per ripulirla ed estrarle quel verbo odioso dalla bocca: “scopare” è un verbo che nessuno dovrebbe mai usare. Dovrebbe essere vietato dalla legge.
Ma non gliel’ho mai detto, ho solo provato a toglierglielo lettera per lettera dalla bocca, senza mai riuscirci. 
Ed ero certo che prima o poi mi avrebbe ucciso, senza neanche farci caso, con una matita per gli occhi a sancire l’addio: I HATE LOVE, che frase di merda se l’amore sei tu. E ancora di più se non lo sei e lo è qualcun altro. Ti ammazza, ti ammazza.

.....

Ha sette piani questo palazzo, le porte sono grigie come pure il cielo sopra, che s’è ingrigito all’improvviso.
Gli uccelli si sono fermati sulla ringhiera dell’ultimo piano, seduti ordinatamente l’uno accanto all’altro, dandole le spalle.
Ora chiaramente, giunta all’apice, dovrà accadere qualcosa.
Lo sa anche il suo seguito alato, che per questo si è fermato ad aspettare.
Un uccello ha perso una piuma o forse no. Forse è sempre stata qui, ad aspettare. La prende tra l’indice e il medio.
C’è una sola porta al settimo piano, aperta.

....

Presumo che vorrà delle spiegazioni.
Ma lei tace, si guarda intorno, va dritta alla finestra.
Poi viene verso di me, mi prende la mano e se la porta sul viso.
Ha un’aria altera, potrebbe forse essere straniera. Le donne di qui non portano quei lunghi vestiti d’altri tempi. E poi sono arrabbiate, urlano, strepitano, amano colpevolizzare gli uomini. 
Lei non sembra biasimarmi per quello che ho fatto: tutto il suo viso pare aderirmi al dorso della mano, quasi fosse un tatuaggio, un riflesso o una ruga improvvisamente comparsa a solcarmi le dita. Come se fosse su questa mano da sempre
È straniera, ma non di un’altra nazione: di un altro mondo.
Potrebbe anche assomigliare a lei, ma come si può dire ora che ho buttato via i colori? Ora che non ci sono più elementi a separare e dare identità alle stanze? Che non c’è neanche più uno straccio di telefono per far squillare il suo nella borsetta come prova inconfondibile.
Sei tu? Sei tu?
Non mi risponde.
Sembri proprio tu, ma molto, molto prima.
Si affaccia alla finestra con due occhi innocenti e vuoti. Non l’ho mai visti questi occhi. 
Potrebbero essere i tuoi, ma molto tempo fa. 
Prima che diventassi tu, così meticolosa, prudente, traditrice, distratta. Così policromatica. Che quando sei di tutti i colori, non sei di nessuno.
Sei tu? Sei tu? 
E dimmi, odi sempre l’amore?
Te lo dicevo io che è una frase che può uccidere. C’è mancato poco e giustizia sarebbe stata fatta.

.....

Ma lei non risponde, sta di spalle, si sbottona la zip del vestito sulla schiena, lancia giù una piuma bianca, giù dalla finestra.
Segue i suoi movimenti concentrici, sembrano disegnare un’altra scalinata immateriale nello spazio tra il settimo piano e la terra.
Non presta ascolto a quell’uomo, sembra una parte dovuta della nuova vita, un pezzo inamovibile di quella scenografia.
È accaduto tutto d’un colpo, quando meno se lo aspettava. 
Ha chiuso l’ombrello e tutto si è aperto, anche il suo corpo.

....

Sembri proprio tu, ma molto, molto prima. 
In questo stato, sembrerebbe che tu non abbia bocca per mangiare, per parlare, per bere. Che tu non abbia bocca per ferirmi. Per dire “scopare”.
Nessun colore, nessun giallo di gelosia, nessun verde di bile, nessun tono di doppiezza. 
Pesi come la gravità qui dentro.
Non avrei timore che te ne andassi, se rimanessi.
Non avrei timore di star senza di te, se te ne andassi. Mi peseresti addosso per sempre, con questa gravità leggera di adesso.
Sembri tu, prima di essere tu.
TABULA RASA.
TA-BU-LA-RA-SA: te lo dico con la lingua dentro la tua bocca, che ha il sapore di un primo vagito. Non occorre scavarci dentro: inspira adesso la sua prima aria e non sa nulla.
C’è un buco nella porta in cartongesso. Ci scivola dentro l’aria come io scivolo dentro di te. 
Sei tu? Sei tu? Dimmi.
Ah già, non è, non è così importante.
Sei la donna che sale con un seguito alato. E io la vita che scende in colori grondanti sul pavimento.
Che bello, che bello che tu sia qui.
È l’anno nuovo, è venuto l’anno nuovo, ha portato via tutto il superfluo, ci ha lasciato le immagini primordiali: un uomo nudo, una donna nuda e una piuma che scende piano dal settimo piano.
Dicono che la piuma è il simbolo dell’anima e della reincarnazione.
Io dico che ci si può reincarnare tante volte in una vita sola.

...







Lei estrae lo specchietto dalla borsa e si guarda: è cambiata, è cambiata, è un’altra. Lo diceva che il fatto che ancora non fosse capitato a chiunque non era bastevole per escludere che potesse capitare a qualcuno. E infatti, guarda, vicino alle sue ci sono due nuove labbra. E un occhio strabico verso l’alto, non l’aveva mai avuto quel difetto ma le piace, pensa. È forse un difetto che le permetterà di essere ricordata.










....

Meno meno meno
Prima prima prima
01/01