domenica 4 dicembre 2016

Dell'amore goffo e della giraffa che non mi hai regalato

Ti manca
quella ridicola goffaggine
dell'amore.
Per esempio
non hai mai noleggiato
una giraffa 
che col suo lungo collo
ti portasse fino al mio balcone
e mai in un giorno di pioggia, 
sei arrivato con un contenitore vuoto
a dirmi che per me
avevi catturato cinque nuvole.
Mai mi hai rincorso a perdifiato 
anche se non stavo andando
da nessuna parte
o comprato una metafora fresca
per poi nasconderla sotto il mio zerbino.
Ti manca
di avermi disegnato un ricamo
nella neve infangata 
e non ti sei ricordato 
che ho le mani fredde
e perdo i guanti.
Ti manca
quella ridicola goffaggine 
dell'amore 
e poiché non mi ami 
io che molto sono goffa
ti scrivo una poesia
per dirti che non ti amo più 
(L'amore goffo dice,
fra le altre cose,
almeno sempre una bugia)



         Ph. Ceslovas Cesnakegivicius


domenica 30 ottobre 2016

(...)

La bellezza di un sogno lieve
che non ricorderò.
Un prato senza fiori
tutto steli.
L'assenza di nuvole.
Un acquitrino verdognolo 
senza vento, senza rane.
Due labbra schiuse
in attesa di un bacio
senza volto.
Un pallone di spugna
senza peso.
Il frutto non dischiuso
la colonna d'acqua che non cade
dal monte
le ali senza uccelli
la lacrima senza occhi.
Un'attesa incartata in un pacco 
che resterà intonso
senza stropicciamenti della carta.
E la tua gravità sospesa a mezz'aria
sotto neanche un'ombra.
Il tuo nome sulla mia bocca 
e tu assente, mai veduto
futuro presente.
Non lasciar tracce 
e passa, vita mia,
non fiorire:
fermati giusto quell'attimo prima
della salvezza di poter morire.


sabato 22 ottobre 2016

Aggettivi estemporanei e ragioni di non-Essere

Io sono più triste della tristezza
perché la tristezza non sa 
esser altro che se stessa.
Senza nostalgie del suo Altro
lei guarda altera
tutta chiusa nei suoi abiti
di ricami grigi e merletti di lacrime.
Mentre io mi sfuggo
io non sono:
sono sempre l'assenza
di qualcosa.
Mi manca l'allegria
e -allegra-
mi manca la malinconia
e -così triste, più triste-
son l'assenza d'una tristezza più dolce
-la tristezza del mosto, degli autunni
e dei tramonti-
e allora 
-triste di non essere quella tristezza- 
mi pungo, mi dolgo
il mondo è fatto di spine 
le divento
e più di loro son pungente 
ché le spine non sanno
essere altro che se stesse.
E poi io amo
e amo più dell'amore
tutto chiuso in se stesso.
Il mio amore sa l'odio
e sa il disamore
ama per farli assenti 
-l'odio e il disamore 
e la disillusione-
e quindi non ama e non odia
è un puro specchio d'ombre
ed è più triste della tristezza
ed è solo il contrario di qualcosa
mai un sinonimo
e s'inciampa in un burrone:
lui cade, è mortale 
e come tale
non sa niente dell'Amore

                   Ph. Aela Labbè




domenica 16 ottobre 2016

Del condizionale passato che non si abbellisce con la carta da parati e del presente semplice che è già bello di suo

Il fatto è che non potevamo uscire insieme.
Uscire insieme in un posto così brutto, intendo.
Lo capivo bene, mentre guardavo te che guardavi fuori dalla finestra senza mai scostare le tende, rigirando il cucchiaino nel caffè d'orzo che non sapeva di niente e non dicevi neanche una parola, ma quel silenzio voleva dire in effetti che non ci possono essere parole senza un orizzonte. O con un orizzonte così brutto.
E, in effetti, non si poteva che chiudersi dentro, abbellire i muri, impreziosire la carta da parati, colorare le tende ogni giorno di un colore sempre nuovo, giusto così, per non rimanere vittime della ruggine e del fetore di quel mondo fuori, così brutto, così rugginoso, così meccanico.
E alzare il volume delle note di Chopin e dei Led Zeppelin -notturno e scale al cielo- per coprire il cigolio infernale delle macchine, il flusso del petrolio nell'oleodotto, il tintinnio cupo delle foglie cadenti che, a furia di prender fumi e sgarbi, eran diventate coriacee e non più riassorbibili dal suolo e così si accumulavano ai lati delle strade e sul greto del fiume, ormai color del bronzo, e a un passante disattento sembravano una distesa di cadaveri di pesci bluastri e noi si doveva sempre dire che di pesci non ce n'erano più da quel dì, nemmeno i cadaveri, perché nel fiume color del bronzo si erano sciolti. Sciolti, esattamente, e così erano diventati il fiume stesso così come erano diventati cielo gli uccelli bruciati all'istante dalle esalazioni della fabbrica e terra i nostri pensieri che cadevano dalla testa, senza potersi fermare per un attimo nemmeno.
Così ci vedevi segregati in casa, le nostre sagome più spesse, come se ci si fosse attaccato addosso un segno distintivo e sembravamo omini stilizzati appiccicati alla finestra e invece eravamo pur un uomo e una donna e forse un tempo ci eravamo amati o forse non c'era stato tempo per questa evenienza, si era bruciato tutto prima e ci aveva scaraventati nel mondo del condizionale, ci saremmo amati, ti dicevo qualche volta, mentre rigiravi il cucchiaino nel caffè d'orzo e rimanevo incantato a guardarti e quel pungolo d'incanto sembrava un punto di colore in quel mondo così brutto. E chissà -pensavo-, se tu anche per un attimo m'avessi guardato attraverso le lenti ocra degli occhiali dietro cui ti nascondevi a quella luce troppo funesta, chissà, forse dal mio punto di colore e dal tuo sarebbe venuta fuori una macchia e poi, come un'ameba, un primordiale organismo unicellulare, avrebbe allungato i suoi pseudopodi ed espanso il colore e l'incanto tra i tubi e la vita incenerita.
Ma tu non mi guardavi, volevi solo proteggerti, arrivare a domani, e io ti guardavo troppo, affossata nelle rughe che di giorno in giorno comparivano sul tuo volto e ti dicevo sempre che mi parevi molto bella e che triste eri anche più bella, si apriva una profondità che trascendeva i confini del tuo corpo, che allargava lo spazio e se ne andava in giro, portandoti altrove, fuori dalla canna fumaria, sotto il pavimento e anche in mezzo alle pareti, ma io avrei rinunciato a un po' di bellezza per vederti allegra e allora magari ti cambiavo la tenda, cambiavo il lapislazzuli con il verde e a volte anche due, tre volte al giorno, pur di vederti meno bella ma più allegra, pur di vederti girare il capo e posarlo sul mio, a guardare l'orizzonte della tenda, il tramonto sulla tappezzeria, il germoglio al centrotavola. 
E ricominciavo coi condizionali, avremmo potuto amarci, anche se a me pareva proprio di amarti al presente semplice, ma mica te lo potevo dire in un mondo così brutto, c'era questo tacito accordo che rispettava il tuo amore per l'estetica, per ogni cosa ci vuole un contesto, per le parole un foglio immacolato, per le storie un tempo, e noi siamo così fuori dal tempo, nel tempo del condizionale, per di più passato, nella terra del rimpianto bronzino e delle foglie che sembrano pesci e non se ne esce di certo con una carezza tra i capelli e un "ti amo" al presente semplice che in realtà non c'è. 
E tu sei vecchia e invecchi e al massimo mangi e bevi e dormi e ti rannicchi nelle tue rughe e sei così oberata dai miei colori spessi, che a poco a poco si mangiano i muri della casa e a me pare proprio di amarti in malo modo e mi liquefo nel colore, piano piano.
Ma sai che c'è?
C'è che oggi è Natale, o forse non ancora ma facciamo finta, avevo solo bisogno di un pretesto per spulciar fuori un regalo.
Perciò svegliati, vorrei dirti che mi sembri bella, ma siccome bella è triste taccio, perché voglio solo che tu sia allegra, allegra e brutta e ti ho portato un colore.
Non fare quella faccia, questo non ce l'hai, te lo giuro che non l'hai mai visto.
Mi dici che tirerei fuori anche il colore più strambo per uscire dal condizionale, ma sai che c'è, che invece io ti ho regalato un po' di bianco, strano non averci pensato prima, e vieni, vieni un attimo fuori.
Ti impunti, non vuoi uscire di qui.
Ti trascino, esci fuori. Ti porto a vedere una cosa bellissima.
Saliamo fin sul tetto della nostra casa, avresti mai pensato che fosse così alto?
Il bianco è dappertutto, una nebbia soffice sul nostro mondo così brutto.
Dipana sul profilo aguzzo delle ciminiere, cammina sulle acque del fiume, cancella le foglie morte, rischiara il cielo. Imprigiona le molecole tossiche, le sospende in alto, come piccoli astri scuri, come ombre delle stelle, nel nostro mondo che è un negativo di quell'altro, anche noi siamo ombre che hanno perso il corpo.
Però, guarda, in mezzo a tutto questo bianco, i tubi dell'oleodotto sembran strade e le ciminiere colline e castelli. I fumi sembrano l'evaporazione di una grande brughiera o l'esalazioni di un grande mare.
Di', non ti sembra bello?
Di', non ti senti più giovane?
Dimmi, non c'è spazio per un estemporaneo presente? Presente semplice?
Dimmi, per questo attimo soltanto, prima che la nebbia si diradi, prima che torni quel mondo bruttissimo, dici davvero che non hai un pungolo di colore a mischiarsi col mio, una serpentina d'incanto tra gli strati della pece, un guizzo d'amore, un bacio ombra, uno stampo perenne s'un effimero bianco?

                     Foto di dmar73    http://instagram.com/dmar73

lunedì 3 ottobre 2016

Solo uno spizzico

Si vedevano al parcheggio di un grande autogrill sulla tangenziale da un tempo non proprio brevissimo.
Lui faceva il cuoco allo Spizzico. O meglio, scongelava pizze allo Spizzico e le metteva nel forno fino al suono del campanello, che indicava che la pizza aveva raggiunto la giusta fragranza.
Lei non andava mai a mangiare in quello Spizzico.
O meglio, a volte ci andava per osservarlo armeggiare con pizze e fritti, ma sempre fingendo di non conoscerlo: non potevano essere visti insieme.
Lui protestava, che non voleva essere visto col grembiule rosso e le mani puzzolenti di olio di scadente qualità.
Ma la puzza di olio mica si vede, ribatteva lei, mentre il grembiule rosso ti dona.
Fa uguale, diceva lui tutto seccato.
A lei invece piaceva vederlo con il suo grembiule rosso, le faceva tenerezza, e anche nell’odore delle cose che faceva, soprattutto quando aggiungeva un quid alle pizze: un fiore di zucca impanato, dei funghi porcini, delle erbe aromatiche che lei gli portava quando s’incontravano nel parcheggio.
Così non ti sembrerà di fare una cosa sempre uguale, diceva.
E lui ribadiva sempre che era proibito creare una qualsiasi cosa allo Spizzico, il menù dello Spizzico è come la vita, va seguita alla lettera, senza inutili deviazioni, senza opere di proselitismo all’originalità, adattandosi.
Ma poi in realtà ogni tanto lasciava cadere qualcosa sulle pizze, soprattutto quelle da asporto, così i clienti non sarebbero tornati indietro a protestare per quella deviazione.
Se hai così paura di deviare, che ci fai qui?
Qui non ci vede nessuno, ribadiva lui.
E quella cosa, del non essere visti, sembrava essere la più importante in assoluto.
Si mettevano in fondo al parcheggio, in un angolo mai frequentato da nessuno, forse perché era vicino a un fitto bosco che evocava paure ancestrali, o forse perché chi si ferma in Autogrill vuole solo mangiare e andare in bagno, perciò si mantiene il più vicino possibile al suo obiettivo.
Lì qualche volta facevano l’amore, male, incastrandosi tra i sedili, mettendo un parasole sul vetro, dicendosi qualche solita bugia. Altre volte parlavano cinque minuti.
Poi lui doveva andare, doveva tornare dalle pizze surgelate.
Qualche volta potresti portarmela una pizza.
Ma lui non le portava mai niente. Per qualche motivo, aveva deciso che non avrebbe mai fatto nulla per lei. Forse perché, se inizi a dare qualcosa, poi ti leghi a quel dare, diventa un gesto consueto, si annida nei circuiti della memoria, diventa un arco riflesso, non ci puoi fare niente, il braccio si allunga, una pizza oggi e una domani, si fa presto, non ci si accorge, che qualcuno prenda ciò che si ha da dare diventa più importante del prendere, e poi la pizza dovrà essere più buona, già, sempre e sempre di più: non basteranno più i fiori di zucca, forse serviranno anche i fiori di pesco e quelli d’arancio, mentre la vita è un menù fisso dello Spizzico.
Lei aspettava ogni giorno da tanto tempo quel trancio di pizza. O almeno una crocchetta di patate.
In realtà era un’attesa un po’ sgualcita, simile alla scarpe vecchie, che crollano da un lato.
Un giorno potremmo uscire da questo parcheggio, potrei venirti a prendere e potremmo andare a vedere un tramonto, un’alba, o magari a mangiare un dolce in pasticceria. Oppure andare sulle scale mobili di un ipermercato, dopo aver comprato dei biscotti con l’olio di palma.
No, diceva lui: noi siamo quelli del parcheggio.
E cosa siamo noi?
Niente, quelli del parcheggio.
E forse a quel punto le dava un bacio mal dato.
Se non tornassi mai più, ti dispiacerebbe?
Sì, mi dispiacerebbe molto.
E allora perché?
Devo andare.

Il mondo le sembrava tutto bellissimo, da quando amava così male in un parcheggio.
Aveva un fascino decadente anche la periferia, guarda quelle ciminiere, gli diceva mentre lui non c’era e gli nominava le cose come a un bambino che non ha mai visto niente, perché non sapeva immaginarselo fuori dal parcheggio, senza il grembiule rosso e il cappellino dello Spizzico sulla testa. E così diceva ponte, cormorano, papera, Ikea, Mercatone Uno, come fossero stati sonetti d’amore.
Collezionava oggetti alla rinfusa: libri, penne, matite, vecchi giradischi. Come una marziana, per fargli conoscere da dove veniva e invogliarlo a visitare anche lui quel luogo magnifico.
Gli faceva sentire le canzoni.
Gli portava il suo cane, tutto scodinzolante.
Il suo cane gli leccava la faccia e impazziva di gioia quando lo vedeva.
Perché è uguale a te, le diceva un poco sprezzante.
Metteva degli oggetti, tra sé e lui, come per edificare una via d’uscita dal parcheggio, come le briciole di Pollicino.
Con una bottiglia di sabbia, gli diceva senza dirlo “vieni al mare”.
Con un caffè, gli indicava la via di un risveglio.
Con un sombrero, il sogno di un viaggio lontano.
Con un libro, il calore di due poltrone affrontate, in cui ciascuno legge in silenzio qualcosa.
Poi andava a mangiare la pizza in uno Spizzico vicino a casa, che le sembrava irrimediabilmente meno bello, manchevole in qualcosa, a suo modo anonimo e sverniciato di ogni emozione.
Si mangiava il gusto della pizza che non le portava.
Guardava al di là dei grembiuli, sperava di trovare qualcosa, una sagoma altrettanto bella, magari somigliante e che volesse andar via dal parcheggio insieme a lei. Ma erano sagome anonime, non ridevano come rideva lui, non erano infelici nello stesso modo, di chi attende con una certa speranza sbiadita, non avevano la sua bellezza inquinata da una punta inquietante, spigolosa, non avevano neanche quella sua crudeltà ammansita e dosata, erano semplicemente gentili o scortesi, felici o infelici, belli o brutti. Non avevano nulla da cui essere riscattati: facevano le pizze senza origano e senza olive e non battevano ciglio. Nessun impercettibile segno di protesta. Nessun fiore di zucca messo di nascosto nei cartoni d’asporti. Nessuna parabola verso l’incanto.

Nel parcheggio cambiavano anche le stagioni.
Si faceva presto a passare da un freddo da morire a un caldo da morire.
Ti ho portato una spezia indiana.
Grazie.
E un peperone essiccato.
Grazie. E poi?
E un cappellino giallo.
Ma non posso mettermi un cappellino giallo. Il cappellino dello Spizzico è rosso.
Tu prendilo comunque, non si sa mai. Se non ci vedremo più, magari tra quarant’anni lo Spizzico avrà liberalizzato i cappellini e io, che avrò allora un’immagine un po’ sbiadita di te, ti riconoscerò perché questo cappellino non lo avrà nessun altro. È personalizzato.
Allora va bene. Ma noi ci vedremo sempre.
Davvero?
Davvero. Ciao.
Ciao.

Neve e sole. E mezze stagioni.

Ehi!
Che c’è?
Una volta mi abbracci?
In che senso?
Un abbraccio vero, nel senso che mi stringi forte, come dire “mi dispiace che vai via”
Se non lo sento, perché dovrei farlo?
Potresti sentirlo, dopo tutto.
Ah, forse potrei. Ci vediamo domani, eh!

Hanno smontato il cartello dello Spizzico.
Portano via la S per prima. E poi la I, senza un criterio ben preciso.
C’è uno strano odore, come se una grande pizza universale si fosse sciolta d’improvviso e d’improvviso colasse sul mondo fiotti di formaggio appiccicoso e scadente.
Il cielo è nuvoloso, potrebbe essere inverno, oppure estate.
Il parcheggio sembra un grande organismo esanime.
I muratori distruggono il bancone.
Qualcuno getta via i lasciti dei pizzaioli: una scatola con qualche spezia indiana, un libro, un cappellino giallo.
Non lo riconoscerà, pensa, se dovesse vederlo in un altro Spizzico, tra quarant’anni.
Non sa immaginarlo altrove. Anzi, forse è andato via con una lettera dell’insegna, tutt’insieme d’improvviso, senza lasciar traccia.
E poi vanno via i grembiuli rossi.
Su uno soltanto è rimasta una macchia.
Anzi, un bacio. Color ciclamino.
Non fosse per quello, potrebbe non esser mai esistito.
Mai come ora è felice di esser tornata indietro e di averlo, quel giorno, ancora una volta malamente baciato.

giovedì 25 agosto 2016

Il mio amore era un bambino

Il mio amore era un bambino 
non sapeva le parole
e indicava con le dita
-meravigliandosi-
tutte le cose.

Era un bambino
con gli occhi paffuti
con le guance azzurre
e un cielo di capelli
Era rosa, era nuovo
e voleva amare
-capriccioso, presuntuoso-
e voleva amarti 
-con le mani, con la bocca
con i piedi-
e voleva nominarti 
-con ninnoli, con strenne-
e, per semplificarsi,
che di questo mondo 
ogni cosa facesse il tuo suono.

Perché era un bambino 
con occhi paffuti
e voleva mangiare l'amore
succhiarlo di notte
con sette poppate
e poi dormire 
tutto pieno di latte
ridendo a crepapelle
della sua pancia tesa 
e poi svegliarsi e piangere
perché ancora e ancora
perché mai basta
perché no, perché sì.

Perché era un bambino 
con le guance azzurre
tutto cielo
ed era il più bello
-così credeva-
ed era il più bravo
-così pensava-
ed era l'unico 
-così s'illudeva-
e voleva amare
superbo, fastidioso
e voleva amarti
volando sulle case e sulle mucche 
e sugli abiti di gesso degli adulti
era un quadro di Chagall
e non ti lasciava andare
e ti diceva in note e pianti 
ti accordava in mandolini
ti baciava coi tulipani.

Perché era un bambino 
rosa, nuovo 
venuto dalla cenere
tornato dalla morte.

Il mio amore era un bambino

Il mio amore è un vecchio stanco
sta s'un uscio addormentato
non aspetta
tesse il tempo s'una tela
dice troppo
ma più non rivela.

Non ricorda
e poi è caldo
gli fa male a star supino
e la pensione è un poco scarna.
Parla parla 
con la voce un po' spezzata.

S'accarezza poi una ruga:
su quel solco
anni orsono
ti ha sorriso.
Così adesso tiene il segno
del suo libro,
quel mio amore 
che una volta era un bambino.


              M.Chagall, Sun of Paris





venerdì 12 agosto 2016

Ode a un fotogramma di pece o pace

Poi salendo, salendo
s'aprì una finestra di pece 
altri dissero ch'era una finestra di pace
ad ogni modo
aveva neri  i bordi 
e in mezzo bianca
una cima aguzza
carezzata da una nuvola tonda
così petrolio e neve e aria 
fecero a un tratto 
uno sguardo sul mondo.

D'improvviso, salendo, 
-salendo più in alto-
una finestra
tra la pioggia e i piedi
e in mezzo nulla
-nessun vivente, albero, tramite o volto- 
solo pietre e scarpe 
e cime aguzze 
a assorbire il dono 
così materiale del cielo

E l'impermeabile finestra 
sospesa a mezz'aria
coi suoi quattro bordi 
-pece o pace o madre-
tra un mondo e l'altro
a cullare l'occhio
a restringere il campo
-vertiginoso, troppo grande-
del viaggiatore stanco
dal troppo guardare

Così sotto la finestra, 
sta una panchina:
riposa, viaggiatore,
a testa in giù 
dopo tanta salita,
i piedi alla finestra
gli occhi alla terra scura, 
riposa e non guardare,
il tuo occhio è una finestra
e tu ora la chiudi,
pece o pace o una palpebra
mentre si scioglie un ghiaccio
echeggia un'eco
rotola un sasso
e la finestra non è già più la stessa.

Si alza il viaggiatore
con un fotogramma 
tra testa e cuore.
Inforca anima e piccone:
per affacciarci
alla pensilina del mondo,
pece o pace o vita,
siamo fatti appena.



                (manca la foto)

mercoledì 27 luglio 2016

L'amore di qualcuno

L'amore di qualcuno
l'ho visto, indecoroso:
passeggiava sui tetti
parlava coi gatti
usciva dai comignoli.
E ora scomoda le lune
piega in lacrime i salici
fa interferenza nelle linee telefoniche.
Ritarda i tramonti
disfa le valigie
dipana la sabbia.
Dice: "resta".

L'amore di qualcuno 
spegne i lampioni 
le fiaccole
le lampade
sfiata il buio persino
non vuol vedere il suo amore,
l'amore di qualcuno, 
ma evocarlo soltanto
nelle cose che vengono
e in quelle che vanno.

Lo attacca alle nuvole 
-le più piccole nuvole
ruvide all'orizzonte-
lo dice al giallo dei semafori
o lo imbriglia alla decimillesima
goccia di pioggia
di quel temporale forte e nero
o al lembo di stoffa 
di una donna vecchia 
che lo porta lontano.

Lo suona nei valzer 
e nelle mazurche
o nel rombo potente
di un motore notturno.

Lo lascia nell'ultimo bicchiere
prima dell'ebbrezza
o nell'ultima immagine 
prima del sonno
come un orfano dimenticato, 
un funerale ottuso,
l'amore dell'amore di qualcuno.

L'amore di qualcuno 
potrebbe essere anche il mio amore
così tanto, improvvisamente,
reso anonimo,
l'amore di chiunque 
ammiccante sui tetti estivi
sotto grandi ombrelloni
su maestose montagne
in bocca alle capre e ai fiori
e anche al mio amore
che non sa dire il suo amore
e sceglie il pensiero concreto
dei grilli, delle api e dei pollini .

E poi si vergogna
mentre si sporge 
da una rosa troppo banale
-rossa, laccata, fuori stagione-
per chiedere alle cose
che amo di te
qualcosa di molto sciocco:
di staccarsi da te
e venire via con me.



lunedì 13 giugno 2016

Richiami gravitazionali


                
Ma poi la terra aspetta sempre
dopo i luminescenti voli notturni.
Attende 
coi suoi tentacoli bruni
con speranze scavate 
la violenza sublime
della morte.

Ma poi la terra ti riprende
quando pensi di non ritornare.
Ti riassorbe coi suoi usignoli stonati
col fado malinconico nelle bettole
col sapore agro del vino.

Poi mi bagno di acqua le palpebre
dopo averle accecate d'astri lontani.
E ti risento sugli occhi
bocca e mani e qualche crepa d'arsura
e camminiamo sulle pietre aguzze
felici del callo e del sangue
.

Poi torniamo al respiro
dopo una breve apnea d'eternità.
Curiamo un passero caduto
che ha scelto la terra
per essere ancora
dopo un volo lungo una vita.


                      Ph.  A.Varela

domenica 12 giugno 2016

E certo
ti amerei anche
se -per amarti-
non dovessi scegliere
una volta per tutte
un unico nome
per nominare il mio amore
e così nell'analisi logica
della frase più importante
renderti oggetto
e col lazo delle parole
imprigionarti 
in un elemento o sostanza
sulla tavola periodica
della mia rigorosa grammatica.

A cuor leggero ti amerei
se per amarti non dovessi 
punto per punto
saperti
come cerchio perfetto
e con quella certezza
assicurarmi l'aspro placebo 
contro la morte,
abbandonare il fiore di campo
nato senza nome 
una mattina di troppa pioggia
da ibride combinazioni di pollini e api
-tutto selvatico, che mai più tornerà
con gli stessi petali tondi 
bianchissimi e uno stelo violaceo-
per un rododendro geometrico
o un roseto di spine dette e ridette

Se -per amarti-
non dovessi disegnare un principio
-e una fine-
sulle rotaie troppo svizzere del tempo
mentre io ho piedi trasparenti
sui binari d'una stazione desolata
in bianco e nero stampata
s'una foto di centocinquant'anni fa
dove io ero assente
-e tu eri assente-
eppur ci trovavamo tra la folla
-non so come- pieni di bagagli 
sotto grandi cappelli
con nostalgici fazzoletti 
diretti senza piedi
senza corpo e senza nascita
verso un esodo incerto.
Così adesso io sposto 
ogni minuto di un minuto
l'arrivo del treno in arrivo
-l'amore, il tuo amore-
e rimando ogni ora di un'ora
la partenza del mio esodo incerto
-l'amore, il mio amore-

E faccio in modo di non incontrarti
ti osservo dietro uno specchio
per punire me stessa soltanto
dei limiti delle forme e dei corpi
e ricordarmi che è il mio occhio
stretto tra le sue due palpebre
a cercare di sé sempre e solo il riflesso.

Mi siedo con la tua ombra
nei giorni in cui non c'è il sole
così che aleggi tra ombre più vaste
-di alberi, nuvole, fantasmi- 
che non mi somigli 
-mani, piedi, gambe-
e le racconto storie senza cera
e senza c'era una volta.

Ed è il modo mio d'amarti
che tu mai debba in te cadere
-corpo, anni, storia-
o in me nascosto
nel mio spazio angusto
nel tempo predisposto
nel fiore stereotipato dell'amore
rimanere.


sabato 30 aprile 2016

Fai tutta un'allegria d'inconsapevole vendemmia

Ormai anche le malinconie
ingiallendo
volgono all'autunno.
Si arrotolano in fogli
e foglie
rassegnandosi ai piccoli rituali
del tempo
alle notti più lunghe
ai giorni più brevi
alla tosse del cielo 
indugiando forse troppo
su qualche ramo
che molto amarono
-ma senza troppa tenacia
pronte a lasciarsi andare.

E poi volgono al muschio
e ai licheni
si disfano in un'umidità 
di piogge
diventano altro
levigano la faccia delle pietre
oppure evaporano
verso volte assolate e fredde
chiare o forse sbiadite
come gli occhi dell'asino vecchio 
per la prima volta libero
dai pesi
per sempre gravato
dalle fruste.

Così malinconia e amore
s'assomigliano talvolta
son la ruga d'un cielo canuto
che non si fa più orizzonte
ma baco vuoto e fradicio
che cade e tace
pareidolia di nuvola
volto incastonato tra gli ulivi
per un bagliore geometrico
d'evaporazioni mattutine.

E pure in questo dolore
pigro persino per soffrire,
tutto in faccia all'imbrunire,
tu arrivi -a volte-
e le malinconie le pesti forte
senza troppo pensarci
quasi fossero graspi d'uva
molto bruna.
Fai tutta un'allegria
d'inconsapevole vendemmia
e io -subito ubriaca- 
ti seguo tra le vigne
a perdifiato
tu coi tuoi piedi impastati d'autunno
che mai si chiude del tutto in inverno
io con le mie parole spremute
a dirti che avevo in serbo
ancora qualche acino 
chiuso e scuro 
di annoiata felicità
ma non lo sapevo.

                             E.Schiele

martedì 12 aprile 2016

Considerazioni algebriche

Anche quando sto con te
sempre sto con il ricordo di te.

Si muovono le labbra del ricordo di te
alle tue sincronizzate
ma con altre parole mi parlano
alle tue di ora sovrapponendosi
fanno un turbinio bruno
un discorso ombra 
che io sola sento.

E ancora allungo le braccia
quando ti abbraccio
oltre la tua circonferenza
ad avvolgere tutto il ricordo di te
che con altre braccia 
-passate, innocenti-
dietro di te si affanna
e molto mi duole 
questo abbraccio doppio
questo mio amare quell'altro
sempre un po' più di te
questo mio spiare
appoggiata alla tua spalla
quel tuo viso di ieri
che ugualmente mi sorride
ma con un altro sorriso
una strada silente, abbandonata
su cui io sola cammino.

E pure adesso che così ti scrivo
sono in bilico le mie parole:
da una parte a te si dirigono
-sicure, indulgenti, 
dimentiche di ciò che è stato
pronte a te come rimani adesso
nudo di quel ricordo
come un animale della sua vecchia pelle-
dall'altra retrocedono
tutte aggrappate al ricordo di te
nella sua attesa impaziente
che sempre cesella il corpo
del mio desiderio
e molto mi rammarico che a lui,
e non a te,
siano andate le poesie mie più belle.

E mi scopro così incapace
di tollerarti tanto imperfetto
mentre quel fantasma mi seduce
ostentando un calice più rosso
dietro ai nostri così scoloriti,
mi offre il bacio più sanguigno
l'attenzione più pronta
il tempo più dilatato
il sentimento più devoto.

Ma a te soltanto
e non a lui
so scrivere per il meno
per l'assenza
per il fondo del bicchiere
per la crepa nel cammino
per l'amore che non provo
e la vita che non vivo.
A te soltanto
so dire che non sono
infine e con certezza
colei che ama.

Meno per meno:
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