lunedì 30 novembre 2015

Segni inequivocabili

Ora che tutto è cambiato
presto saranno dimenticati
i nostri volti 
in quel caffè all'angolo
dove ordinavano sempre 
due macchiati con poca schiuma
e impareranno i camerieri a separare
ciò che prima era unito:
le sedie, i tavoli, i bicchieri.
L'uno sarà il cliente delle otto
l'altra quello delle otto e trenta.
Sarà a causa di questi piccoli scivolamenti
sulle lancette, sulle porte
sulle ceramiche delle tazzine 
che leggerà il mondo 
il segno inequivocabile 
che va dal "noi" all'"io".
E si curveranno un po' più acute le strade
per non farci incontrare
Inizierà a piovere un istante dopo
esserci chiusi dietro i reciproci portoni
onde evitare di essere in due
sotto un'acqua torrenziale
con un solo ombrello.
Ci spingeranno 
ammiccandosi tra loro i librai
con un cenno d'intesa.
verso diversi scaffali
decantandoci ognuno 
quel nuovissimo autore
che per niente al mondo
dovremmo perderci 
come prossima lettura serale.
E -puoi scommetterci-
sarà fermato l'uno o l'altra
da un turista inglese
tutto speranzoso di sapere
con la sua cartina sottosopra
la più celere strada per l'acquario
proprio quando sincronicamente
ci saremmo scontrati 
-tutti trafelati- alle 16,17
all'incrocio di due vie.
E poi, poi cresceranno anarchici
i cespugli di ginestre
offuscando la visuale
tra le due corsie opposte
d'una stretta provinciale
non sia mai che s'incrocino
in una sera come tante
le targhe antiche 
delle nostre auto molto usate.
Di questi e altri sortilegi
si serve a volte il mondo
ché non ama imparare di nuovo
ciò che a fatica ha disimparato:
unire le tazze, i tavoli, le strade,
associare ai passanti i volti,
regolare i fenomeni atmosferici,
attivare le coincidenze.
Ha il suo piccolo equilibrio
il mondo col suo caso
e sanno i baristi
che l'uomo solo non pensa più 
alla schiuma sul caffè della mattina.
E poi è vecchio, il mondo
e come i vecchi è avaro, pigro
e non ama inoltre
che gli si faccia notare
con unioni, partenze 
e reciproci imbarazzi 
che trascorsa è ancora 
un'altra stagione.


martedì 24 novembre 2015

Al centesimo mi alzerò

Tre zampilli alla finestra
al quarto mi alzerò
sperando sia tra molto
moltissimo tempo.

Sto indugiando
nel corpo mio notturno: 
è di tutt'altra specie
in azione volge i pensieri
cupi o allegri.

Sette zampilli alla finestra
ormai all'ottavo mi alzerò.

Devo sapere come va a finire
quel racconto del cerbiatto
che fu cacciato 
con tutti i cuccioli nel grembo.
E mentre io lo rianimavo
tu, in silenzio, alle mie spalle 
guardavi 
con gli occhi spenti
come quegli angeli 
che scrutano il Male
e lo ammorbidiscono col fiato
e i passi e il vento
s'una terra cava e nera
che riecheggia gli spari
e allunga le ombre
a dir quasi che nelle ombre 
va calcolata l'importanza delle cose:
e guarda infatti
che ombre grandi!
che corpi piccoli! 

Nove zampilli alla finestra
dev'esserci un buco sulla grondaia.
Verrà qualcuno a ripararla
sino ad allora il mondo non è pronto,
mi convinco,
per esser calpestato:
perciò al decimo mi alzerò.

Sto indugiando nella brughiera
sul corpo pieno di corpi
che è stato cacciato 
e non si rianima.
"É una strage", ti dico.
Una strage che muoia un corpo
con dentro altri corpi.
Tu rispondi, senza parole
"è la vita".
Poi svanisci.
È una strage, continuo a dire
mentre muoio da un lato
col mio involucro notturno
esanime sulla terra nera
tutt'ombra sulla montagna scura. 
E nel mio corpo spira
l'immagine del tuo
così a lungo portato.

Undici zampilli alla finestra
e quindi la quiete:
il numero è perfetto,
il buco riparato,
conferma che tutto è spirato
in sintonia
in questo mondo e nell'altro
e così sia.
Mi alzo, lavo e vesto
il mio corpo vuoto del risveglio:
è una strage, dico a te assente,
che muoia infine anche il ricordo
-quel feto in grembo alla lunga storia-
mentre foro di nascosto 
la grondaia. 
A cento zampilli almeno
voglio arrivare
prima di saperlo.

                Photo by J.Uelsmann

venerdì 6 novembre 2015

Presagi

Dicon le stelle 
da un cartomante 
con la lunga barba
interpellate
che oggi anche non ti vedrò.
Son d'accordo con gli oroscopi nostrani
i cinesi addirittura
e lo gridano a tutto cielo
da lontano richiamando
stormi neri d'uccellacci
additati con orrore
da diciassette ornitomanti
come macabro presagio.

Rientro allora imbacuccata
nell'inverno del mio corpo 
tossicchiando ghiaccio e neve
e altre freddezze amene 
contro gli alberi stecchiti.
E, in casa giunta, 
riapro un po' affannata
armadi e ripostigli
a lungo sprangati
da tenaci chiavistelli
e segrete casseforti
nel muro sprofondate.
Han mille braccia d'ombra
e ammiccanti dicono,
tutte cigolanti:
"Vieni! Metti! Conserva!",
assetate di poter qualcosa custodire.

Ubbidiente mi tolgo allora gli occhi
a uno a uno 
con cura li ripongo nel primo cassetto
falsamente promettendo tempi migliori
e non rifiuto il consiglio concitato
del cubetto di naftalina alla lavanda:
"Rimbocca loro le palpebre,
che poi, rimessi in sede,
shoccati dalla luce,
non abbiano
paura a rivedere!".

La bocca la conservo
schiusa appena, spolverata, lucidata
in un panno d'ovatta immacolata.
A lei ho destinato
un antico portagioie
e -che vuoi farci- la sento 
di tanto in tanto straparlare
dal fondo dell'armadio:
con voce metallica
fastidiosa
di te mi chiede senza sosta
e io rispondo tutta muta:
"Che vuoi che ti dica?
Non mi vedi? 
Son rimasta senza bocca!"

Il naso sta bene nel portamatite
divide così le penne dai pastelli
col suo setto impertinente
e ogni tanto lo trovo tutto teso
ad annusare se a mezz'aria 
giungesse per caso
il profumo del tuo dopobarba.

I capelli! 
I capelli a lungo li ho acconciati
che coprissero sul muro quella crepa
che guasta la bella simmetria dei libri antichi
ma giorno dopo giorno
pendon giù un po' appassiti.
L'ho visti!
S'allargano le ciocche di nascosto
alla distanza precisa tra il pollice e il tuo indice: 
non dimenticano l'impronta 
lasciata un dì dalle tue dita
e anarchici si accalcano alle mensole
come spettatori imbizzarriti.

Ci vogliono tre giri
in senso antiorario
per staccarmi poi tutta la testa
e lasciar che sul lampadario 
si accenda e spenga
di te ricordando 
come un vecchio diario.

È compiuta infine l'ardua impresa
di custodire in luogo sicuro
l'ultima delle mie facce.
Con ciò che resta esco di casa
mi rifornisco di giornali 
dalla folta rubrica d'astri 
e di telescopi 
da ogni finestra al cielo puntati.
Senza testa poi 
guardo le stelle e i neri stormi
giro una sfera
leggo le nuvole
conto i gechi e i quadrifogli.
Non c'è fretta
-dico allora al cielo spento-
posso aspettare:
tutto è in casa
-ben incartato-
a riposare.