venerdì 31 luglio 2015

Torno io a poter andare

Che meraviglia 
infine
questo attendere nessuno
-e queste scale son di nuovo scale-
da nessuno dover essere amata
-e torna mare il mare-
a nessuno preferita
-tornano tutti a poter passare-
da nessuno abbandonata
-torno io a poter andare-
a nessuno appartenere
-torna un nome quel nome- 

Che quiete
esser soli
il cielo e io
nel buio accovacciarsi
come in un ventre ampio
e al suo interno diradarsi
allungare gli arti
estendere il collo
stropicciare i cespugli
e poi addormentarsi
senza nulla sognare

E nelle nuvole non trasfigurare 
volti assenti
rimanere intimamente presenti
non affacciati a domani
né a ieri irretiti.

Lasciare accadere
persino le fragole
i giornali, i rumori
per i propri sensi tenerli
senza mischiarli
con altre bocche amare
con occhi volti altrove
con orecchie e mani estranee

Io e io
tutta dentro il mio corpo
elogiando la materia
che separa
soffiando via lo spirito 
troppo leggero
che ad altri talvolta
-ingenuo-
si sente unito.

Bentornata, solitudine!
con fiato discreto
occhi ciechi
e mani eteree
mi tieni compagnia

lunedì 20 luglio 2015

Cose che non capitano

Ma tutto si riduce infine
a quell'unica frase
che con occhi annebbiati
mi dicesti una mattina:
"A noi non capiterebbe"

E mai ho inteso
a quale sciagura alludessi
-se allo strecciarsi di due mani
allo sgomitolarsi di una trama e un ordito
all'impossibilità di una rima baciata
se addirittura alla striscia di Gaza 
o al muro di Berlino
oppure a tornadi, tsunami, terremoti-

Ma più corazzata al mondo
me ne sono poi andata,
a tratti ripetendomi,
se qualcosa doleva 
tra le mie quattro mura d'aria:
"A noi non capiterebbe"

E pur adesso
che a noi anche è capitato,
sopra un cumulo di macerie
vado ripetendo sicura
quella tua prima preghiera
che ora non credi più:
"A noi non capiterebbe"


giovedì 16 luglio 2015

Non passa mai nulla

Seppur ti muovi
rimane in petto lo stesso cuore
e forte ti attira
a vecchi scogli
morsicati da mari noti
echeggianti storie esotiche 
nelle stesse assordanti conchiglie.

Un nuovo gabbiano
ti strilla contro 
una vecchia fame
dai pescherecci ruba i pesci di oggi
con gesti rituali 
con becchi consueti

E ancora ti sbarra le palpebre l'alba
a una nuova finestra
più candida e bianca 
ché molte volte hai lavato
come un segreto peccato 
col sapore di un noto sapone
e salirà da un nuovo angolo di strada
la tiepida fragranza del pane
già lo sai -hai imparato-
sempre uguale

Girerà il pomeriggio afoso
entro nuovi chiavistelli
e da inferriate sconosciute spierai
il dialogo muto di due ombre:
si scambieranno le stesse parole
che sempre è opportuno scambiare
-caldo, stagione, frescura-
stendendo quei panni
al solito bianchi
li vedrai sventolare da spesse mura
di un'ocra mai visto
parranno bandiere senza sovrano
nel solito spettrale silenzio dell'una
tintinnato appena da qualche forchetta
sgualcito dal tonfo di una palla perduta
zittito dal bastone risentito
di una donna sepolta 
in un letto di rughe
-la sua nuova vecchiaia 
a ringiovanire quel vecchio bastone-

Svanirà poi su un picco più aguzzo
la solita virgola di luce
sgretolandosi tra lucide imposte
rintoccando grave in un campanile sconosciuto
accartocciandoti nell'identico umido sonno
di tutte le notti
troncandoti la medesima preghiera sulle labbra

Dormirai, infine, senza aver finito
per intero di dire "Dio mio"
senza aver pensato "forse ci son solo io"
senza aver disegnato sugli ombrosi muri
il volto che più ti è caro
che è andato lontano
che chiamerai -vedrai-
con nomi nuovi
intonso portandolo a spasso
per giorni e anni
per fiori e fuliggine
per treni e pozzanghere e abiti da sposa.

E sognerai, lo sai, un sogno nuovo:
ma sarai bambino
in cadenti soffitte
con pesanti bauli
polveri grevi
inseguito da passati amori
primigeni controllori
animali ancestrali
storici condottieri
da plotoni di ieri.

Nulla, 
ascoltami:
non passa 
mai 
nulla.

Perciò tu non mi sogni:
non c'ero quando sei nato.




lunedì 13 luglio 2015

Ti è caduta la Luna!

Va bene.
È successo molto tempo fa.
È successo qualcosa, qualcosa di simile alla Luna.
Una lontananza ti ha d'improvviso sfiorato, s'è fatta vicina. 
Hai potuto accarezzare con le mani i crateri, affondarci la faccia, mangiare la polvere bianca.
Hai potuto camminare leggera, rimbalzare in alto, senza che ti richiamasse la gravità alla terra.

Forse perciò non hai visto quanto siderale era intorno lo spazio. 
Quanto danzavano, sprezzanti, le comete per un cielo nero.
Come lontana, da ché la Luna era così vicina, s'era fatta la Terra. Che non distinguevi più i monti e i mari e i deserti, trascuravi i dettagli, i climi, i confini. 

Ma avevi la Luna, aspra e bella, che in un giorno appena potevi girarla a piedi e saperne i contorni, contarne i giorni, tu tutta rinchiusa in segreto su quel pianeta lontano che s'era fatto vicino.
E così andava veloce sulla carta la mano, possedevi l'oggetto dei poeti, di vederli ti pareva col naso all'insù, coi colli iperestesi, a prendersi uno spicchio a testa mentre tu, ah, tu avevi la Luna, in carne ed ossa, a te tutta aperta, senza spicchi e pleniluni, senza ombre e vociami confusi.
Non aveva il tuo senno in una boccia, ma aveva il sapore delle cose perdute e pur senza una pozza d'acqua era stato come tornare a una prima lontana purezza -che strano dirlo adesso-, la purezza perfetta di chi sogna la Luna.

Forse perciò non hai visto come eri isolata in una tuta grossolana e che, senza casco artificioso e artificiale, non potevi respirare.
Che non aveva da offrirti neanche un mattone, perché la Luna, lo sai, ti fa volare ma non ha gravità per farti restare.
Che ogni anfratto era inabitabile, roccioso, contundente. 
Che nei crateri, in realtà, non c'era niente.
Che i melmosi sogni che aleggiavano intorno erano spaventapasseri per bambini troppi ostinati e niente, eccezion fatta per te, era vivo.

Ma era la Luna, la strepitosa Luna, quella che avrebbero tirato giù con una fune tutti gli amanti, quella per cui la notte ululano i lupi, sognano i gatti.
La Luna dei naviganti, dei forestieri, dei cavalieri.
La Luna, la Luna!
L'orologiaio delle notti stanche, la luce screpolata del buio, lo sguardo del primo cannocchiale, l'amore del Sole, gli americani e i russi e gli alieni occhieggianti.
La Luna, la Luna!

Era bella la Luna, quando era lontana. 
Quando era solo ciò che si sperava.


Ti è caduta, si, ti è caduta la Luna!


(Torna indietro, adesso, la Luna è caduta, i poeti non scrivono più, i cannocchiali sono puntati ad altre galassie e per le rotte notturne ci sono strumenti più sofisticati. E le cose perdute, beh, quelle rimangono sempre, non si trovano mai.)





martedì 7 luglio 2015

Una poesia privata che però non è dedicata a nessuno

Immagine di Valentina Luberto

Una poesia privata, che nessuno la guardi e la usi per qualcun altro, che nessun avventore si senta illegittimo destinatario o altri secoli e altre storie vi si amalgamino dentro.

Una poesia esausta, è una vecchia con un otre di capra -povera capra-, un musicante con la cornamusa, un forestiero all'osteria, la Melina Riccio con i fiori in testa, un russo che gioca a scacchi sul ciglio della strada.

Una poesia piccola e senza gloria, senza rime, un po' vana e un po' vanesia.

Vorrebbe essere un piccone, per lasciar segni nelle rocce. 
O un tasto sonante, una corda di chitarra, un'impastatrice, un campanello. 
Un clic meno melenso, un on-off, una vidimatrice, un cappello.
Qualcosa di utile, per cui tornare indietro quando si è in ritardo -una chiave, ecco sì, una chiave.

Invece è solo una poesia, nascosta nello spazio tra te e me, come nel folto di un bosco inventato.
La tira svogliato ai passanti il saltimbanco dei baci:
"Costa solo un bacio, signore, sporgetevi!", dice con un accento napoletano.
Io gli tiro una gomitata, non sta bene svendere le poesie.
"Ehm, ehm, un bacio a verso, volevo dire."
"E quanto è lunga questa poesia?", chiedi allora incuriosito.
"Ma quanto volete, signo'!"
Altra gomitata: è lunghissima, gli bisbiglio!!!!
"Cioè, è lunghissima, ma noi la vendiamo pure al taglio! Ne volete assaggiare una fetta? Prego, prego, favorite!"
Ah, questi napoletani!

È solo una poesia, ma ti disegna la notte sulle scarpe. Allunga le ombre, agita i silenzi sbilenchi dei lampioni ubriachi, ti lascia sotto casa una ventiquattr'ore bianca -si, come nei film-, aprila. Anzi, aspetta ad aprirla. 
Prosegui ancora un tratto, sotto la linea dei panni stesi: oscillano all'unisono da un filo bianchissimo, sembra attaccato ai due lati del cielo scuro, in effetti non ha partenza né arrivo in alcuna finestra, tetto, coperchio di sonni, almanacco di notti estive.
Prosegui, prosegui, ti vedo, sorrido: stai diventando la poesia, già, proprio tu con la ventiquattr'ore bianca, stai diventando il verso

Aveva un filo sopra la testa 
e la testa erano i suoi piedi

 (Ora dovrei farti pagare un bacio, anzi due, ma come posso farti pagare la poesia se la poesia sei tu?)

Andiamo avanti. 
La testa sono i tuoi piedi, i piedi sono la testa, ti guardo sottosopra, ecco perché hai la testa fra le nuvole. 
Vana, vanesia questa poesia, vorrebbe essere uno strumento più dignitoso, ma ti mette un cappello, suona note distratte, una ballata triste lungo la linea del bucato e i panni si alzano contro la gravità, diventano note, ti vola in mano un biglietto e una vidimatrice con le ali passa a segnare l'ora: ore 1,54 di una notte di poesia qualsiasi, scrive sul biglietto.
Ora puoi assistere allo spettacolo di te che diventi una poesia.

"Ne volete ancora?", dice allora il saltimbanco dei baci, mentre spruzza di blu un palazzo grigio, ci soffia contro tronchi di bianche betulle e crea un palco illusorio dove passano in fila scoiattoli azzurri, dove sibilano i cuculi, sbadigliano i ghiri, stanno sberluccicanti le lucciole e altri animali notturni. 
Mi pare che tu annuisca, ti piaci sempre quando diventi una poesia, e allora t'inoltri nell'illusione del bosco di betulle, mentre intorno crescono a dismisura in altezza i palazzi, diventano grattacieli.

Sulle betulle continuo a incidere versi, te li lascio sparsi come un puzzle, tu ridi che sembri un bambino 

Aveva un filo sopra la testa
e la testa erano i suoi piedi
funambolo del buio coi piedi per terra
perciò si sentiva sicuro

E poi ti sussurro, con un vento parlante, che non ti scrivo più poesie perché non mi esercito sulla tua pelle. Al massimo, ti guardo e scrivo te, ti stampo senza sgualcirti.
Perché, sai, c'è un campo dove sfioriscono le poesie.
Sì, da quella parte, vai.
Ti tocca il ramo secco di un fiore di pesco, uno scheletro di cuor di leone, l'ultimo petalo morente di una violacciocca, la spina sgualcita di una rosa.
Ti sei inciampato in una corona di anemoni imploranti acqua, mi spiace. Non volevo.
Ti rialzi. 
Bella, bella la notte, continua a portarti lungo il suo filo di panni stesi. Ora son nuvole, piovono giù, innaffiano i fiori. 
Sei arrivato, che ti dicevo? 
Sapevo che sarebbe piovuto giù tutto il bucato.
Quei fiori son tutte le poesie che non sono persone. Son le poesie che voglion essere poesie, le signore poesie, le grandi poesie. Perciò muoiono: non hanno le gambe e non hanno la testa, non hanno gli occhi, le mani, il naso, i capelli. Non vanno, non hanno paura, non sentono il vento e neanche la pioggia.

"Volete sapere come va a finire, ià?"

Oh secondo me... si!
Perché tu sei curioso e ora sei proprio l'uomo-poesia, ti ho messo pure il cilindro in testa e sei caduto tra gli anemoni e tutt'intorno son grattacieli altissimi e piccole esili betulle bianche e fili sospesi con bucato cangiante e questa poesia è vana e vanesia e ti dice, adesso: "apri, dai, apri la ventiquattr'ore".

"Su, non abbiate paura", strizza l'occhio il saltimbanco dei baci.

Arriva una mano da prestigiatore con un guanto giallo fosforescente, cade in volo per tutto il cielo notturno, sembra una mastodontica piuma volteggiante, gira la serratura, compone il codice di apertura, la apre: è vuota ma parla.

Sono io che ti parlo, che sempre ti parlo, mentre si ridestano gli anemoni e i cuor di leone e a poco a poco diventano te, un campo di te: te triste e te allegro; te che vai e che vieni; te che ti dimentichi e poi ti ricordi; te che ami e non ami, come i petali delle margherite; te che leggi avidamente; te che parli e parli il pensiero che si forma, fai i petali istantaneamente; te che perdi tempo e poi lo insegui. Ondeggiano all'unisono tutti questi steli con sopra il tuo volto, sei circondato da te come io ti vedo -ora capisci perché mi piaci? Sei tanti, tantissimi, non mi annoio mai- e un grosso pennino scende dal cielo, s'intinge in ogni corolla e poi scrive. 
Ma poi via, saltan dentro all'unisono nella ventiquattr'ore tutti i fiori-te, e con loro le betulle, il cielo notturno, i grattacieli, le nuvole e le note, la vidimatrice e i biglietti, il tuo cilindro, il pennino, il saltimbanco dei baci e anche i baci, si baciano all'impazzata a mezz'aria prima di esser risucchiati in valigia -sembrano pesci che mordono un acquario-, e poi giù anche le finestre illuminate, i camini, il silenzio avvolgente -è un grande mantello-, gli uccelli variopinti e gli aironi rosa -ma da dove sbucano?-, i musicanti e gli artisti di strada con i fiori in testa, le lampade e i pendoli, la mia tristezza e la tua che un po' si assomigliano, i miei sbagli e i tuoi che non si assomigliano mai -ti prego, incontriamoci di nuovo in uno sbaglio, era un posto così bello!-, le mie mani e le tue che qualche volta si trovano, e poi... poi qualche altra cianfrusaglia.
Ora ti dico che basta agitare la valigia, sfregarla un po' tra le mani e la poesia è fatta, c'è tutto o quasi: aggiungerei forse un corso d'acqua, della sabbia, uno ieri e un domani. Oggi è la poesia, anzi, oggi è te che sei la poesia e ci cammini dentro e cerchi il saltimbanco napoletano per chiedere qualche altra informazione -sei così puntiglioso a volte, vuoi ponderare bene i pro e i contro dell'affare.
Ma io ti dico di lasciarlo un po' stare, il saltimbanco: ora lo spazio è tutto vuoto, il cielo è bianco, il pavimento è bianco, tutto è bianco, la notte è chiusa dentro la valigia. 
E quindi, non ti darò niente in cambio, nemmeno un verso, una parola, una sillaba. 
Però, perciò, da tu a io, da io a tu (ecco dov'era teso il filo del bucato, tra tu e io, ma due rette parallele all'infinito s'incontrano!): mi concedi questo bacio?