venerdì 20 febbraio 2015

Quand partons nous pour le bonheur?

Quand partons nous pour le bonheur?

Dire “le bonheur” non è proprio come dire “la felicità”.
La felicità è un concetto, i concetti sono come rose all’occhiello: recisi.
L’ora buona è un po’ diversa: sta dentro l’orologio, in mezzo alle lancette.
Perde qualcosa, te lo concedo. Magari l’ora buona è un minuto appena. Ma guadagna molto perché non fa promesse.
In francese te lo posso chiedere: “quand partons nous pour le bonheur?”, in italiano no, sa troppo di eternità e d’impegno. 

In francese, posso stenderti sul quadrante tra le 7 e le 7,30 del mattino, per esempio. Anzi, facciamo tra la 8,30 e le 9, che altrimenti ti viene sonno e va a finire che perdiamo tutta la bonheur.
In italiano non sarebbe affatto una bonheur, perché a quell’ora c’è traffico e sono tutti nervosi. Che c’entra un quadrante d’orologio con la felicità?

L’italiano non sa fare economia di felicità, non compra le baguette lunghe un metro e non va in bicicletta al mattino.
Sul quadrante francese della bonheur, invece, potremmo metterci ai due capi della baguette, per esempio e ricordarci che è meglio mangiare il pane -e nel mangiare il pane, nutrirci dell’arcaico lavoro delle mani, delle farine che lievitano e, levitando, espandono la minima felicità della fragranza calda dell’alimento- piuttosto che pronunciare parole di rito al mattino presto -come va? ma perché poi deve sempre andare bene, se tu invece hai la voce ancora affondata nell’insonnia e nei cattivi pensieri?-, e poi andare in bicicletta in due anziché usare la macchina. E così sudarci la strada, pedale per pedale, sentire gli odori che chiudono fuori i finestrini -stamattina un buon profumo di mimosa ci saremmo persi, ad esempio- e i piccoli gridi dei mestieri -una serranda che si apre, le voci grosse del mercato del pesce, il crepitio del giornale sfogliato, la buffa signora coi fiori in testa che sparge la pace nel mondo e tante altre cose-.

E poi salutarci e darci appuntamento a un’altra bonheur, che so, tra un mese dalle 19,15 alle 19,45, sarebbe un quadrante perfetto, tutt’altra ora, a quell’ora i francesi mangiano la “galette” col formaggio, ma noi potremmo non mangiare affatto e constatare che di bonheur in bonheur adesso fa buio più tardi e toglierci le scarpe su qualche sabbia o similare. 
E riprendere la nostra baguette da dove l'avevamo lasciata -non si mangia un metro di baguette in mezz'ora-, prima o poi arriveremo all'esatta metà e passeremo dal silenzio del pane al silenzio del bacio. Che bonheur!

Mi piacerebbe allora fare come le ballerine di Degas: io non so ballare, infatti non si tratta di un ballo ma di un giro incantato e un po’ stereotipato, un giro sul quadrante della bonheur, un giro tutto felice che si ricarica girando la chiave come capita ai carillon, qualcosa da tenere in tasca. Un omaggio alla leggerezza. Adesso è così, tra un quadrante chissà.
Mi piacerebbe avere uno di quei tutù in tulle e le scarpette bianche pure ed essere un gesto di grazia assoluta, il braccio perfettamente allineato al baricentro corporeo, mentre  giro sugli scatti meccanici dell'orologio e tu mi guardi.
Ma tu te la immagini una felicità così? 
No, perché la nostra è una felicità etimologicamente impegnativa. È un problema di linguaggio, alla fine. È sempre un problema di linguaggio: la pesantezza dello stato permanente.
Noi non si parte mai per la felicità: per partire bisogna progettare gli itinerari, pianificare le spese, fare bilanci dei pro e dei contro.

Ma io vorrei partire per una mezz’ora o anche per dieci minuti, purché si vada un po’, anzi, molto lontano e, se ci sei di mezzo tu, fa niente davvero il tempo, io lo ricarico come i carillon. 


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