domenica 11 gennaio 2015

La chambre du baiser


Ogni giorno entro in questo angolo dimenticato di Mont Martre alla stessa ora, giro la chiave nella vecchia, arrugginita serratura, mi pulisco le suole delle scarpe sullo zerbino d’ingresso, dunque fluisco nel corridoio ombroso, i muri tenacemente pieni di libri - dovrei, dovrei spolverarli, qualche volta -, osservo deserta la piccola cucina, col suo tavolo apparecchiato per due, la tovaglia ricamata, il succo d’arancio dentro la caraffa, l’orchidea bianca al centro del tavolo.
Non fossi che una semplice guardiana, ligia agli ordini, terrei aperto l’uscio, girerei il cartello sulla porta d’ingresso e lascerei ben in vista la parola “OUVERT”.
Allora forse si affaccerebbe stupito qualche viaggiatore straniero, chiederebbe una camera a un prezzo abbordabile ed io, orgogliosa, mostrerei la casa con la sua moquette discreta, le librerie alle pareti, le piccole finestre incastonate tra muri d’edera rossa, la baldanzosità dei divani, preparerei il tè e sfornerei i biscotti dal forno che -d’improvviso- tornerebbe a funzionare.
Direi, allora, che proprio tra queste mura, a salir di due piani le scale, sta la stanza di un bacio che non fu mai dissolto. 
E, me la chiedessero anche per qualche ora appena, in fretta e furia salirei ad una ad una le scale, richiamerei alla mente il cassetto -certo, quel cassetto nel vecchio secretaire nel corridoio del primo piano- dove sta custodita la grande chiave che non ha più aperto la stanza, avrei finalmente una buona ragione per violare la regola, certo, ospitare gli ospiti inattesi e - presto! presto!- in fretta riordinare, che tutto sia perfetto.

Ed entrerei così finalmente nella stanza del "Bacio" di Toleause-Lautrec, alzerei le coperte e direi a quei due sconosciuti con il volto di ceramica di alzarsi. 

Loro si alzerebbero tutti anchilosati -da quante centinaia di anni stanno lì? - , aprirebbero gli occhi stupendosi di esser stati così tanto l'uno nella forma dell'altro, al punto da non riconoscere più bene i propri confini corporei, le proprie e le altrui labbra e chissà quanti inconsapevoli respiri in mezzo, le dita delle mani aperte alla distanza di due coste sul torace dell'altro, le ginocchia con sopra impresso il segno di un polpaccio, la fronte con in cima l'altra fronte.
Come, come è stato possibile?- continuerebbero a chiedersi, istintivamente portandosi l'uno nell'altro, ma senza alcun erotismo. 
Solo lo farebbero per ritrovarsi il corpo fantasma -avete presente la sindrome dell'arto fantasma, quando il malato continua ad avvertire dolore là dove invece la parte del corpo è stata amputata?-, per rinsaldare i perduti confini, ritornare a vedere, toccare, sentire, con la superficie corporea raddoppiata e, in quello sdoppiamento, addormentarsi per qualche altro secolo in un paio di bianche lenzuola, su cui poi si poseranno la polvere e il sole e la pioggia che entrerà da quella crepa sul tetto spiovente.

E intanto, noncurante, cambierei l'aria, sbatterei le lenzuola, i cuscini. Cercherei l’amore tra le coperte, un arcaico odore di segreti, un tempo di originaria tenerezza.

Ma loro starebbero lì, attoniti, a guardarsi, cercando a loro volta di riscoprirsi l'amore: una luce negli occhi di lei, un rassicurante sorriso sulla bocca di lui, la familiarità di una parola che, all'unisono, li faceva ridere, un gesto d'intesa, un “ricordi?”.
Ma tutto, tutto scoprirebbero di aver dimenticato, mentre erano intenti a passare lui in lei, lei in lui, e non parlerebbero più lingua conosciuta che possa ora esprimere questo vago dolore, di essersi tanto abituati a farsi l'un l'altro da corpo, da non aver più alcuna distanza da colmare, alcun braccio da tendere per potersi amare, per affrontare insieme -ma quel tanto ragionevolmente separati da potersi promettere reciprocamente la salvezza- l'aspra vertigine della caduta.
E no, non ricorderebbero più il passo felpato per uscire di casa senza fare rumore, le piccole o le grandi bugie per arrivare -quel giorno lontano- all’uscio che li avrebbe presi in una camera anonima -per quanto tempo? quanto lontano dalla vita consueta?-, l’attesa durante il viaggio mentre si dicevano parole qualsiasi, preludio di un “mai più”, il rumore del treno sulle rotaie, l’odore di soupe d’onion all’angolo della strada, la forma del fiore che lui non le regalò.

Invito dunque gli ospiti che, neanche oggi, sono arrivati, con la mia miglior cortesia. 
Li faccio accomodare sulla panchetta della cucina, preparo il tè accompagnandomi con parole festose. Li scruto: oggi sono anime bionde -saranno all’altezza?, mi chiedo dubbiosa- e, intanto che ribolle nella teiera il té, con un brivido che mi attraversa, lo faccio, lo faccio davvero: vado a preparare la stanza.
Estraggo la chiave dal secretaire, la giro nella serratura e violo la stanza del “Bacio”. 
Lesta vado alla finestra, apro la persiana -senza guardare, quasi questa traversata dalla porta alla finestra la facessi da sempre- e la stanza si inonda di luce: la stanza del dipinto col suo letto vuoto.

Gli amanti, sorpresi alla luce, sbalzano al muro e tremolano vagamente i loro contorni.
Con le bocche aperte, simili a pesci tratti dall'acqua, non guardano il mondo ma se stessi: sono due sagome impresse nel materasso, così orribilmente disincarnate che parrebbero confezionate a invitare: "avanti il prossimo".
Stanno lì, coi medesimi capelli rossi, le pelli color avorio e non un secondo si è impresso sui loro volti: non un segno di riconoscimento, una vaga sbucciatura sul gomito, la bruciatura di una pentola tratta via troppo distrattamente da un fuoco.
Sono profili piatti, affilati: sono ombre in un cimitero senza nomi.

E in effetti non sono visti, da me neppure tutta affaccendata a rifare la stanza, a spolverare lo scrittoio, a incerare il parquet, a incorniciare lo specchio con una coroncina di fiori tutti bianchi, a lucidare i vetri dell'unica piccola finestra della mansarda, a eliminare dalle travi di legno massiccio le ragnatele.
Non li vedo mentre tenacemente batto il materasso, senza pur accorgermi delle sagome impresse che non si tendono al passaggio della mano, né delle loro ombre, che sono scivolate silenziose sul muro e con le bocche spalancate osservano il loro risveglio, dopo centinaia di anni, l'ostinato inscindibile legame delle loro sagome sul letto.
Non li vedo mentre stendo le nuove lenzuola, mentre s'irradia per la stanza la loro fragranza di lavanda, mentre rimpolpo i cuscini, tiro alla sommità della finestrella le minuscole tende ricamate, ricucio alla spalliera i baldacchini, sostituisco gli asciugamani, posiziono sui comodini i cioccolatini della buonanotte.
Non li vedo mentre sospiro di sollievo per aver tolto qualche strato di oppressione a questo amore, mentre preparo il quadro per i suoi due nuovi amanti.
E non li vedo mentre, soddisfatta del mio lavoro, chiudo infine la persiana e le ombre, così risucchiate nelle sagome, si riposizionano ordinate l'una nell'altrui corpo: le dita delle mani aperte alla distanza di due coste sul torace dell'altro, il polpaccio di uno sul ginocchio dell'altro, le labbra adese in respiri indifferenziati, la fronte con in cima l'altra fronte, gli occhi chiusi, senza sogni. Nessun dolore.

Chiudo la porta a chiave, la consegno agli ospiti invisibili.

Si dice che un tempo questo albergo abbia ospitato gli amanti del Bacio di Touleause-Lautrec e che essi, che pur non potevano amarsi ed erano clandestini in quella stanza, abbiano impegnato l’unica ora che fosse loro concessa dalle rispettive vite -prima di lasciarsi per sempre- a farsi ritrarre nel bacio dal famoso pittore.
Da allora -sempre si dice- per volere dell’artista, la stanza è rimasta chiusa nell’ombra del bacio e una mano misteriosa paga ogni giorno perché l’intero albergo sia vietato a nuovi ospiti.
A tutti, se non a una fedele anziana guardiana che -dubitano alcuni sia davvero umana-, rigorosa, spolvera stanze e corridoi o, forse, l’ombra del suo amore, perduto in un quadro d’immobile bellezza qualche centinaio di anni fa.

1 commento:

  1. Ogni parola priva di suono si mostra nuda delle intenzioni. Potrebbe chieder aiuto ai colori e forse sarebbe l’aiuto migliore perché i colori sono ingenui e sinceri. Hanno provato ad unire parole e colori sulla tela per mostrare il futuro ma si sono fermati alle intenzioni, ai propositi. Poi si sono accorti che nessuno capiva ed hanno dato un taglio alla tela e sono diventati famosi. Forse i colori nascono per il presente. Forse la loro pura limitatezza vuole togliere le sfumature della vita, quelle sfumature per cui sono nate le parole. Ma le parole sono troppe e le confondiamo, le mischiamo, le travisiamo e poi gettiamo. Allora forse una parola priva di suono e di colore non ha senso se non quello di finire lasciando una attesa nella ingenuità di chi scrive e poi fugge. Via.

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