lunedì 26 gennaio 2015

Hiroshima mon Amour (Resnais, 1959)


“Tra qualche anno, quando ti avrò dimenticata, e altre storie come questa accadranno ancora per forza d’abitudine, tra qualche anno io mi ricorderò di te come dell’oblio dell’amore stesso, io penserò a questa storia come all’orrore dell’oblio: lo so già”

Lo sfondo è Hiroshima, quattorici anni dopo la catastrofe.
Nuovi volti, mani, piedi vi camminano, come fossero immemori dei segni del disastro atomico.
Quattordici anni dopo, un uomo e una donna sconosciuti, giapponese lui, francese lei, fanno l’amore in una camera d’albergo a Hiroshima.
Ma sin dall’inizio l’amore carnale sgomitola -inatteso- una memoria.
Lei ricorda, mentre ama lui, ciò che apparentemente non ha vissuto: i volti sfigurati, le pelle carbonizzate, gli animali in fuga, il cibo gettato nelle discariche perché nocivo, così come quei fiori che -dice- subito hanno preso a fiorire tra le macerie, le nuove specie animali che sembrano essere affiorate, dopo un lunghissimo letargo, dalla terra offesa di Hiroshima.

Tu non hai visto niente a Hiroshima, le risponde lui ostinatamente.

Ma chi è davvero Hiroshima?
Hiroshima è la violenza dell’oblio e, come dice lei, ricapiterà ancora e ancora.
Hiroshima, però, è anche la fatua dolcezza dell’oblio: cancella, in un attimo, tutta una guerra. Anni e anni di malvagità. 
Hiroshima è, anzitutto, il conflitto tra memoria-dolore-follia e oblio-vuoto-rinascita. 
O meglio, è una domanda: si può rinascere senza la colpa dell’oblio, si può guarire e al contempo ricordare? E di che tipo di ricordo si tratta?

Tu non hai visto niente a Hiroshima.

Eppure lei ricorda, ricorda soprattutto quanto è straziante dimenticare e, nel luogo dell’oblio per eccellenza, quello dove ogni cosa è stata spazzata via turbinosamente, in soli otto secondi, forse proprio in ragione di quello spazio così vuoto -vuoto di passato, ma anche vuoto perché sconosciuto, culturalmente alieno, con un lui altrettanto sconosciuto-, materializza un insperato incontro tra due dimensioni temporali apparentemente sconnesse per sempre: il presente e il passato.

“Io ti incontro e mi ricordo di te. Chi sei tu? Tu mi uccidi. Tu mi fai del bene. Come avrei potuto sapere che questa città era fatta per il mio amore, come avrei potuto sapere che il tuo corpo si adatta al mio? Tu mi piaci, che avvenimento! Tu mi piaci, che languore all’improvviso! Che dolcezza! Tu non puoi sapere. Tu mi uccidi, tu mi fai del bene. Ho ancora tempo, ti prego divorami, deformami fino all’orrore. (...) Te ne prego. È pazzesco che tu abbia una bella pelle.”

Come la bomba atomica, così anche l’amante si fa portatore di una doppiezza: “tu mi uccidi, tu mi fai del bene”.
Laddove la bomba atomica fa del bene perché “uccide la guerra”, l’incontro con lui le fa del bene - al contrario - perché uccide l’oblio: “io ti incontro e mi ricordo di te”. 
È infatti “pazzesco” che lui, pur di Hiroshima, abbia “una bella pelle”: non deformato dalla tragedia, passato indenne al di sopra del dramma dell’oblio e della cancellazione, può diventare elemento salvifico e “deformarla fino all’orrore”, deformare cioè la maschera che lei stessa dice di aver indossato contro tutti gli anni trascorsi a contatto con la malvagità. Deformare che significa anche imprimere segni, vivere dopo un letargo: tu mi piaci, che avvenimento!

La narrazione procede sullo sfondo onirico di un’Hiroshima notturna, in una notte che scandisce le sedici ore che separano lei dal suo ritorno a Parigi e che sembra non dover mai finire.
Il racconto del dramma di lei diventa un dialogo con il fantasma dell’oggetto dell’amore perduto: scopriamo che la protagonista ha avuto una sua personale Hiroshima nella cittadina francese di Nevers, dove ha visto morire, appena diciottenne, colpito a morte da un colpo di fucile, il suo primo amore.

Gli amanti si incontrano, si possono incontrare, solo al di fuori della dimensione del tempo ordinario. 
Lei ora si rivolge a lui come all’amato perduto ed è lui, adesso, che ricorda ciò che mai ha vissuto: l’amore, la morte, la separazione, la follia di lei, il suo dolore di alienata, la lenta rinascita. Lui ricorda di averla amata a Nevers e ricorda di essere stato, a poco a poco, dimenticato.
Come a dire che il recupero del ricordo è possibile solo se in una dimensione sufficientemente vuota, diversa e distante ad accoglierlo e a rispecchiarlo: non a caso l’incontro avviene in un futuro apparentemente lontano dal dolore e dove ogni amante è -altrettanto apparentemente- alieno all’altro, estemporaneo, lontano nello spazio e nel tempo. 
I due amanti fanno sforzi opposti per incontrarsi: lui deve infatti divenire il passato di lei, mentre lei, a poco a poco, diviene il futuro di lui, ossia il sentimento ignoto, perturbante, ossessionante e angosciante, vale a dire l’amore stesso con la sua potenza fecondante e distruttiva.
Lui incredibilmente ha infatti una bella pelle, deve cioè ancora amare e passare attraverso il dolore e la tragedia della perdita e, non a caso, alla fine del film sarà lui a preoccuparsi del giorno in cui la dimenticherà.

È probabile che noi moriremo senza esserci mai più rivisti.
È probabile, si, salvo forse un giorno: la guerra.
Sì, la guerra.

La guerra, ossia il conflitto interiore, è il tramite del rivedersi, il luogo dove i ricordi riaffiorano. 

Il dialogo si fa sempre più fitto al tavolo di un anonimo bar, così come il legame e la minaccia che porta con sé: dopo il ricordo del passato e il sentore della separazione futura, irromperà un nuovo oblio e, infatti:
“La notte non finisce mai a Hiroshima”
ossia: non finisce mai il tentativo di indugiare nella dimensione atemporale, nell’eternità che separa dal giorno razionalizzante, dal giorno che è un ricominciare doveroso oltre il vociferare oscuro della notte interna, è cioè un tentativo perpetuo di dimenticare. La terra, dopo Hiroshima, si fa infatti della temperatura del sole, la luminosità diviene nemica della vita autentica, cancella gli spazi ombrosi della memoria.
E non a caso anche lei, come le “ricorda” lui, è vissuta per anni e anni, dal momento del suo dramma, nella notte eterna di una cantina, la cantina della follia, una sorta di simulacro per un ricordo che a poco a poco, contro la volontà, svaniva.

Non ho più che un solo ricordo: il tuo nome tedesco
dice lei, rivolgendosi al suo amante giapponese, così perfettamente consapevole e memore di essere davvero quell’oggetto d’amore perduto nella giovinezza: se tutto si ripeterà, infatti, anche questo nuovo amore sarà perduto, la cantina oltrepassata, l’intimità dei bicchieri e delle confessioni dimenticata. Poco importa in che anno siamo, in che luogo, al cospetto di chi: la perdita è sempre attuale.

E dunque non si perde che un solo amore, sembra dire il film: dapprima dimenticandolo, successivamente ritrovandolo in nuove forme e, ancora, per riadattarsi alla vita, esponendolo all'oblio. 
Perché l'amore è sempre giovane e, conservando ostinamente il fulcro della giovinezza, è anche sempre "disadattante", contraddittorio, sconveniente come la memoria originaria del dolore: l'amore rende sempre attuale lo shock della morte. Perciò sempre si perde per "essere ragionevoli" e dura un’infinita notte appena, quando l’oscurità dilava via i confini, prende gli sconosciuti e li abbraccia, inaspettatamente, e per un attimo li fa felici: felici di ricordarsi un tempo notturno in cui, innocentemente, si poteva essere felici. Era l'attimo assoluto -il primo-, che non poteva immaginare di dimenticare di aver tanto amato
Poi arriva sempre qualcuno che spara: un fucile, una bomba, un risveglio.

Tuo marito conosce questa storia?
No.
Non ci sono che io a sapere questa storia?
Non ci sei che tu. Che bello avere qualcuno, qualche volta.

"Qualcuno" non si può avere che qualche volta, aspettando che trascorra un’intera lunga notte a Hiroshima. 
“Qualcuno” non può comparire di giorno, perché chi compare di giorno -automaticamente- non si adatta alle ombre raccapriccianti, languide e angoscianti della notte. Non allucina e non vivifica l’oblio chi compare di giorno, pur rendendo l’uno e l’altra “il marito felice di mia moglie”, “la moglie felice di mio marito”.

Avevo fame. Fame d’infedeltà, di adulterio, di menzogne e di morte, da sempre. Sapevo che un giorno ci saremmo incontrati, ti attendevo con una pazienza senza limiti, ma calma. Divorami, deformami a tua somiglianza, così che nessun altro dopo di te capisca il perché di tanto desiderio. Resteremo soli, amor mio, il sole non sorgerà più per nessuno, mai. Mai più. È la fine. Tu mi uccidi, tu mi fai del bene.

L’adulterio a cui si riferisce la protagonista, tuttavia, non è quello nei confronti del marito: chi tradisce, riattualizzandone la presenza con l’amante di Hiroshima, è in realtà il suo primo amore perduto. La consapevolezza progressiva è infatti quella dell’elaborazione del lutto: soltanto adesso la protagonista sta guarendo, adesso che 
mentre il mio corpo s’incendia al tuo ricordo, io vorrei rivedere Nevers, per dimenticare ogni cosa, 
ossia dopo esser ritornata nell’emotività del ricordo, nella sua tragicità obliata, dopo aver -cioè- superato Hiroshima.
La sua prima apparente guarigione, infatti, è avvenuta il giorno in cui ha lasciato finalmente la cantina di Nevers per fuggire a Parigi. Lo stesso giorno i giornali annunciavano la bomba di Hiroshima e la fine della guerra. Lo stesso giorno veniva spazzata via la memoria individuale e collettiva: la guarigione, del mondo e della psiche, era però solo fittizia.

Quattordici anni che non trovavo più il gusto di un amore impossibile dopo Neveaur. Guarda come ti dimentico, guarda come ti ho dimenticato, guardami.

Senza un recupero “carnale” della memoria, Hiroshima capiterà ancora e ancora, dentro e fuori di noi e il dimenticare diventerà un'azione logorante ed eterna: sarà l'ancorarsi al processo dell'oblio per non farlo accadere. Un inseguitore, vestito da amante -che uccide e fa del bene al contempo, come l’interiorizzazione di un ricordo- non sembra poterci davvero lasciare, almeno fino al sopraggiungere del nuovo giorno, quando partono gli aerei che ci riportano nella dimensione diurna, temporale, ordinaria:

sta per venire da me, mi prenderà alle spalle, mi abbraccerà e io sarò perduta.

Quell’inseguitore, vestito da amante,  a tratti minaccioso, sembra restituire però una certezza: niente è davvero perduto, rimane sospeso in un qualche altrove, inesorabilmente affine ai luoghi delle nostre origini. Per questo alla fine i due amanti si nominano riconoscendosi, con improvvisa gioia: lui è Hiroshima e lei Nevers. Sono i luoghi della tragedia e dell’oblio che, in una notte segreta, si sono improvvisamente destati, come serpenti richiamati da un incantatore: l’amore.

"Mi piacerebbe stare con te qualche giorno in qualche luogo una volta. Rivederti oggi...? Non si rivedono in così poco tempo le persone. Rivederti una volta: lo vorrei tanto."

Non si rivedono in così poco tempo le persone. Si rivedono solo quando le crediamo dimenticate. 
Ecco perché chi indugia in amori impossibili lo fa non perché teme amori possibili. Lo fa perché sa che sono gli unici davvero possibili. 

E, con un salto cinematografico temporale, sarebbe il caso di dire, contro il fallimento dell'oblio terapeutico:
"Ci vediamo a Montauk" (Se mi lasci, ti cancello, 2004)

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