giovedì 29 gennaio 2015

A finestra spalancata, senza un solo giorno in mezzo


                    Schimdt-Rottluff

È aperta la finestra, le tende al vento sono uno stelo blu tutto affacciato al cuore dell'alba. Si tendono ai bordi di quel cuore, si gonfiano e si sgonfiano, sistole e diastole, tentennano come sagome di carta su un lembo di terra nera, terra terremotata.
Il cuore è la finestra, la finestra che è aperta, spinge fuori la vita che è una rosa nel vaso. Una rosa rossa con qualche ibrido blu. Cresce in altezza, la rosa, perché non può spandere le radici nello spazio angusto del vaso. Perciò si arrampica, esce dal cuore, è sangue arterioso, rosso vivo, forte, con qualche punta blu, cianotica appena: sono le punte del dolore. Questa rosa è senza spine, non sa ferire. Le sue ferite sono petali scuri. 
La vita è dentro, fuori c'è un'alba appena, uguale a mille albe rosate, vaporizzate di nubi leggere, di quieti tangibili, di silenzi concreti. Un'alba senza fiato, da tempo immemore ferma, inciampata nel suo inizio aureo che non si decide a mettersi in marcia. Ha nel suo fondo un occhio notturno che non sa dissolversi. 
È solo una scenografia in cartongesso, tutta dentro è la vita, chiusa in un vaso. Si arrampica tenace e si specchia nel cuore: una finestra spalancata su un davanzale, dove sventoleranno di certo panni puliti di lavanda. Su una strada da cui s'alzerà, sicuramente, un fiato di pane appena sfornato. Su un cortile in cui ululerà, stanne certo, un cane marrone. Su una campagna di grano dorato, tutto uguale, a perdifiato. Su di una porta di cui sentirai la chiave soltanto, che apre dopo mille giri di serratura.
La vita è tutta dentro, dentro il vaso in terracotta, preme e si affaccia. 
È un'anima chiusa in un corpo, va avanti e indietro tra sistole e diastole, lo spazio angusto la ferisce, poi la fa crescere di un altro centimetro. Le basta per guadagnare un altro pezzo di orizzonte: una ciminiera che leva fumo nero e poi, dopo, qualche onda di mare. Dopo ancora: montagne. Dopo ancora: un'altra alba uguale, tutta rosata, vaporizzata di nubi, che non sa accadere se non alba. Sempre alba.
Qui dentro i petali son sempre più blu. Accade un tramonto, tutto insieme. A finestra spalancata, senza un solo giorno in mezzo. 

lunedì 26 gennaio 2015

Hiroshima mon Amour (Resnais, 1959)


“Tra qualche anno, quando ti avrò dimenticata, e altre storie come questa accadranno ancora per forza d’abitudine, tra qualche anno io mi ricorderò di te come dell’oblio dell’amore stesso, io penserò a questa storia come all’orrore dell’oblio: lo so già”

Lo sfondo è Hiroshima, quattorici anni dopo la catastrofe.
Nuovi volti, mani, piedi vi camminano, come fossero immemori dei segni del disastro atomico.
Quattordici anni dopo, un uomo e una donna sconosciuti, giapponese lui, francese lei, fanno l’amore in una camera d’albergo a Hiroshima.
Ma sin dall’inizio l’amore carnale sgomitola -inatteso- una memoria.
Lei ricorda, mentre ama lui, ciò che apparentemente non ha vissuto: i volti sfigurati, le pelle carbonizzate, gli animali in fuga, il cibo gettato nelle discariche perché nocivo, così come quei fiori che -dice- subito hanno preso a fiorire tra le macerie, le nuove specie animali che sembrano essere affiorate, dopo un lunghissimo letargo, dalla terra offesa di Hiroshima.

Tu non hai visto niente a Hiroshima, le risponde lui ostinatamente.

Ma chi è davvero Hiroshima?
Hiroshima è la violenza dell’oblio e, come dice lei, ricapiterà ancora e ancora.
Hiroshima, però, è anche la fatua dolcezza dell’oblio: cancella, in un attimo, tutta una guerra. Anni e anni di malvagità. 
Hiroshima è, anzitutto, il conflitto tra memoria-dolore-follia e oblio-vuoto-rinascita. 
O meglio, è una domanda: si può rinascere senza la colpa dell’oblio, si può guarire e al contempo ricordare? E di che tipo di ricordo si tratta?

Tu non hai visto niente a Hiroshima.

Eppure lei ricorda, ricorda soprattutto quanto è straziante dimenticare e, nel luogo dell’oblio per eccellenza, quello dove ogni cosa è stata spazzata via turbinosamente, in soli otto secondi, forse proprio in ragione di quello spazio così vuoto -vuoto di passato, ma anche vuoto perché sconosciuto, culturalmente alieno, con un lui altrettanto sconosciuto-, materializza un insperato incontro tra due dimensioni temporali apparentemente sconnesse per sempre: il presente e il passato.

“Io ti incontro e mi ricordo di te. Chi sei tu? Tu mi uccidi. Tu mi fai del bene. Come avrei potuto sapere che questa città era fatta per il mio amore, come avrei potuto sapere che il tuo corpo si adatta al mio? Tu mi piaci, che avvenimento! Tu mi piaci, che languore all’improvviso! Che dolcezza! Tu non puoi sapere. Tu mi uccidi, tu mi fai del bene. Ho ancora tempo, ti prego divorami, deformami fino all’orrore. (...) Te ne prego. È pazzesco che tu abbia una bella pelle.”

Come la bomba atomica, così anche l’amante si fa portatore di una doppiezza: “tu mi uccidi, tu mi fai del bene”.
Laddove la bomba atomica fa del bene perché “uccide la guerra”, l’incontro con lui le fa del bene - al contrario - perché uccide l’oblio: “io ti incontro e mi ricordo di te”. 
È infatti “pazzesco” che lui, pur di Hiroshima, abbia “una bella pelle”: non deformato dalla tragedia, passato indenne al di sopra del dramma dell’oblio e della cancellazione, può diventare elemento salvifico e “deformarla fino all’orrore”, deformare cioè la maschera che lei stessa dice di aver indossato contro tutti gli anni trascorsi a contatto con la malvagità. Deformare che significa anche imprimere segni, vivere dopo un letargo: tu mi piaci, che avvenimento!

La narrazione procede sullo sfondo onirico di un’Hiroshima notturna, in una notte che scandisce le sedici ore che separano lei dal suo ritorno a Parigi e che sembra non dover mai finire.
Il racconto del dramma di lei diventa un dialogo con il fantasma dell’oggetto dell’amore perduto: scopriamo che la protagonista ha avuto una sua personale Hiroshima nella cittadina francese di Nevers, dove ha visto morire, appena diciottenne, colpito a morte da un colpo di fucile, il suo primo amore.

Gli amanti si incontrano, si possono incontrare, solo al di fuori della dimensione del tempo ordinario. 
Lei ora si rivolge a lui come all’amato perduto ed è lui, adesso, che ricorda ciò che mai ha vissuto: l’amore, la morte, la separazione, la follia di lei, il suo dolore di alienata, la lenta rinascita. Lui ricorda di averla amata a Nevers e ricorda di essere stato, a poco a poco, dimenticato.
Come a dire che il recupero del ricordo è possibile solo se in una dimensione sufficientemente vuota, diversa e distante ad accoglierlo e a rispecchiarlo: non a caso l’incontro avviene in un futuro apparentemente lontano dal dolore e dove ogni amante è -altrettanto apparentemente- alieno all’altro, estemporaneo, lontano nello spazio e nel tempo. 
I due amanti fanno sforzi opposti per incontrarsi: lui deve infatti divenire il passato di lei, mentre lei, a poco a poco, diviene il futuro di lui, ossia il sentimento ignoto, perturbante, ossessionante e angosciante, vale a dire l’amore stesso con la sua potenza fecondante e distruttiva.
Lui incredibilmente ha infatti una bella pelle, deve cioè ancora amare e passare attraverso il dolore e la tragedia della perdita e, non a caso, alla fine del film sarà lui a preoccuparsi del giorno in cui la dimenticherà.

È probabile che noi moriremo senza esserci mai più rivisti.
È probabile, si, salvo forse un giorno: la guerra.
Sì, la guerra.

La guerra, ossia il conflitto interiore, è il tramite del rivedersi, il luogo dove i ricordi riaffiorano. 

Il dialogo si fa sempre più fitto al tavolo di un anonimo bar, così come il legame e la minaccia che porta con sé: dopo il ricordo del passato e il sentore della separazione futura, irromperà un nuovo oblio e, infatti:
“La notte non finisce mai a Hiroshima”
ossia: non finisce mai il tentativo di indugiare nella dimensione atemporale, nell’eternità che separa dal giorno razionalizzante, dal giorno che è un ricominciare doveroso oltre il vociferare oscuro della notte interna, è cioè un tentativo perpetuo di dimenticare. La terra, dopo Hiroshima, si fa infatti della temperatura del sole, la luminosità diviene nemica della vita autentica, cancella gli spazi ombrosi della memoria.
E non a caso anche lei, come le “ricorda” lui, è vissuta per anni e anni, dal momento del suo dramma, nella notte eterna di una cantina, la cantina della follia, una sorta di simulacro per un ricordo che a poco a poco, contro la volontà, svaniva.

Non ho più che un solo ricordo: il tuo nome tedesco
dice lei, rivolgendosi al suo amante giapponese, così perfettamente consapevole e memore di essere davvero quell’oggetto d’amore perduto nella giovinezza: se tutto si ripeterà, infatti, anche questo nuovo amore sarà perduto, la cantina oltrepassata, l’intimità dei bicchieri e delle confessioni dimenticata. Poco importa in che anno siamo, in che luogo, al cospetto di chi: la perdita è sempre attuale.

E dunque non si perde che un solo amore, sembra dire il film: dapprima dimenticandolo, successivamente ritrovandolo in nuove forme e, ancora, per riadattarsi alla vita, esponendolo all'oblio. 
Perché l'amore è sempre giovane e, conservando ostinamente il fulcro della giovinezza, è anche sempre "disadattante", contraddittorio, sconveniente come la memoria originaria del dolore: l'amore rende sempre attuale lo shock della morte. Perciò sempre si perde per "essere ragionevoli" e dura un’infinita notte appena, quando l’oscurità dilava via i confini, prende gli sconosciuti e li abbraccia, inaspettatamente, e per un attimo li fa felici: felici di ricordarsi un tempo notturno in cui, innocentemente, si poteva essere felici. Era l'attimo assoluto -il primo-, che non poteva immaginare di dimenticare di aver tanto amato
Poi arriva sempre qualcuno che spara: un fucile, una bomba, un risveglio.

Tuo marito conosce questa storia?
No.
Non ci sono che io a sapere questa storia?
Non ci sei che tu. Che bello avere qualcuno, qualche volta.

"Qualcuno" non si può avere che qualche volta, aspettando che trascorra un’intera lunga notte a Hiroshima. 
“Qualcuno” non può comparire di giorno, perché chi compare di giorno -automaticamente- non si adatta alle ombre raccapriccianti, languide e angoscianti della notte. Non allucina e non vivifica l’oblio chi compare di giorno, pur rendendo l’uno e l’altra “il marito felice di mia moglie”, “la moglie felice di mio marito”.

Avevo fame. Fame d’infedeltà, di adulterio, di menzogne e di morte, da sempre. Sapevo che un giorno ci saremmo incontrati, ti attendevo con una pazienza senza limiti, ma calma. Divorami, deformami a tua somiglianza, così che nessun altro dopo di te capisca il perché di tanto desiderio. Resteremo soli, amor mio, il sole non sorgerà più per nessuno, mai. Mai più. È la fine. Tu mi uccidi, tu mi fai del bene.

L’adulterio a cui si riferisce la protagonista, tuttavia, non è quello nei confronti del marito: chi tradisce, riattualizzandone la presenza con l’amante di Hiroshima, è in realtà il suo primo amore perduto. La consapevolezza progressiva è infatti quella dell’elaborazione del lutto: soltanto adesso la protagonista sta guarendo, adesso che 
mentre il mio corpo s’incendia al tuo ricordo, io vorrei rivedere Nevers, per dimenticare ogni cosa, 
ossia dopo esser ritornata nell’emotività del ricordo, nella sua tragicità obliata, dopo aver -cioè- superato Hiroshima.
La sua prima apparente guarigione, infatti, è avvenuta il giorno in cui ha lasciato finalmente la cantina di Nevers per fuggire a Parigi. Lo stesso giorno i giornali annunciavano la bomba di Hiroshima e la fine della guerra. Lo stesso giorno veniva spazzata via la memoria individuale e collettiva: la guarigione, del mondo e della psiche, era però solo fittizia.

Quattordici anni che non trovavo più il gusto di un amore impossibile dopo Neveaur. Guarda come ti dimentico, guarda come ti ho dimenticato, guardami.

Senza un recupero “carnale” della memoria, Hiroshima capiterà ancora e ancora, dentro e fuori di noi e il dimenticare diventerà un'azione logorante ed eterna: sarà l'ancorarsi al processo dell'oblio per non farlo accadere. Un inseguitore, vestito da amante -che uccide e fa del bene al contempo, come l’interiorizzazione di un ricordo- non sembra poterci davvero lasciare, almeno fino al sopraggiungere del nuovo giorno, quando partono gli aerei che ci riportano nella dimensione diurna, temporale, ordinaria:

sta per venire da me, mi prenderà alle spalle, mi abbraccerà e io sarò perduta.

Quell’inseguitore, vestito da amante,  a tratti minaccioso, sembra restituire però una certezza: niente è davvero perduto, rimane sospeso in un qualche altrove, inesorabilmente affine ai luoghi delle nostre origini. Per questo alla fine i due amanti si nominano riconoscendosi, con improvvisa gioia: lui è Hiroshima e lei Nevers. Sono i luoghi della tragedia e dell’oblio che, in una notte segreta, si sono improvvisamente destati, come serpenti richiamati da un incantatore: l’amore.

"Mi piacerebbe stare con te qualche giorno in qualche luogo una volta. Rivederti oggi...? Non si rivedono in così poco tempo le persone. Rivederti una volta: lo vorrei tanto."

Non si rivedono in così poco tempo le persone. Si rivedono solo quando le crediamo dimenticate. 
Ecco perché chi indugia in amori impossibili lo fa non perché teme amori possibili. Lo fa perché sa che sono gli unici davvero possibili. 

E, con un salto cinematografico temporale, sarebbe il caso di dire, contro il fallimento dell'oblio terapeutico:
"Ci vediamo a Montauk" (Se mi lasci, ti cancello, 2004)

lunedì 12 gennaio 2015

Non-memorie travestite da hula-hop e altre negazioni, se (non) vuoi

Sei forse un esercizio di forma e -lo capisco bene- sei qui a portarmi via un po' di periodi dalle frasi, qualche capitolo dai libri, molti numeri dalle liste. Sei qui a ridurre, a cadere dagli alberi tutte le foglie tranne una - "LA foglia",  sembri poi dire allusivo-, a sbriciolare la crosta dal pane, a togliere dagli album le foto, dai calendari i giorni.

Sei l'antitesi del ricordo -dove io affastello, tu metti una mancanza-, impili pozzi, voragini, hula-hop, cerchietti, dita congiunte a creare tondi imperfetti, occhiali senza lenti. 

Sei l'antitesi della punteggiatura, ché la punteggiatura continua e ferma, tu invece no: non continui e non fermi, mi tiri su i punti e le virgole con una canna da pesca, miniaturizzi la maiuscole, attorcigli i punti esclamativi e li aggomitoli in punti di domanda, grandi e solitari. E così non comincia, non finisce, non prende fiato la nostra frase, si appiattisce il colore dentro i segni, non pianti, non risa, non. Tutto in valore assoluto, tutto difeso, come una roccaforte. Non. Non palindromico, come lo giri va bene. Non che poi lo accarezzi e di notte lo sogni, sogni l'affermazione dopo il non-.

Tu non continui e non fermi, mi srotoli la strada in un tapis roulant di grigi palazzi a cui si staccano le finestre, di insegne da cui colano giù tutte le lettere, di manichini che perdono braccia, gambe e anonimi volti, di stagni a cui si prosciugano le acque e le anatre e i cigni, di macchinari che cigolano via tutti i pezzi.

Sei l'antitesi del sonno - in te non si riposa e poi da te Giganti e Golia, Goya e Dalì-, ma anche della veglia - mi svuoti le tazzine del caffè, riarrotoli la farfalla indietro nella crisalide (ma sempre con un bacio attaccato alle ali), separi le ciglia-. 

In te non si dorme e da te non ci si sveglia, e non date e non anni e non rospi che si trasformano in principi, non lieti fine, non dicotomie consuete, ma pozzi e hula-hop e non-ricordi.

La tua sfida è una fionda senza sasso che tira tutto indietro: il passo nell'impronta, la mano nella tasca, la primavera nel letargo, l'acqua nel ghiaccio, lettere a scomparsa, a scompars, a scompar, a scompa, a scomp, a scom, sco, sc, s,                                    , e poi tutto avanti quando rilasci la fionda, riappari all'improvviso - da ieri o da domani?-, mai da dove ci eravamo lasciati, dalla tua ultima presenza o apparizione, più spesso da una faglia tra le rime, da un non-tempo sull'orologio.

E mentre mi dici, silenzioso, delle cose che non rimarranno -perché tu tutto ti porti indietro, al passo prima, al prima del poi, ché ancora possa accadere-, trovo LA foglia tra le foglie che hai caduto, LA foto senza l'album, il centro del pane, IL giorno senza anno, sorprendentemente permanenti, mentre tu parli male di te e dici -appena più forte, adesso, più forte perché sei meno sicuro- delle cose che non rimarranno. E io, che non ci credo al male di te, imito te che lavori di sottrazioni e te lo cancello, un po' alla buona, con la gomma.

Sei un esercizio di forma e io ti cammino sulle assenze e ti giro sulla vita -mai vorrei far cadere le circolarità eterne di cerchietti e non-memorie travestite da hula-hop- e, intanto che ti giro sulla vita, ti vedo l'insicurezza affacciata, disseminata tra i non, che non ferma e non continua, solo si affaccia dai palazzi senza finestre e in un non-abbraccio ti dico -è forse quello che speri, la ragione per cui togli, la curiosità primaria-: sono ancora qui, se (non) vuoi.



domenica 11 gennaio 2015

La chambre du baiser


Ogni giorno entro in questo angolo dimenticato di Mont Martre alla stessa ora, giro la chiave nella vecchia, arrugginita serratura, mi pulisco le suole delle scarpe sullo zerbino d’ingresso, dunque fluisco nel corridoio ombroso, i muri tenacemente pieni di libri - dovrei, dovrei spolverarli, qualche volta -, osservo deserta la piccola cucina, col suo tavolo apparecchiato per due, la tovaglia ricamata, il succo d’arancio dentro la caraffa, l’orchidea bianca al centro del tavolo.
Non fossi che una semplice guardiana, ligia agli ordini, terrei aperto l’uscio, girerei il cartello sulla porta d’ingresso e lascerei ben in vista la parola “OUVERT”.
Allora forse si affaccerebbe stupito qualche viaggiatore straniero, chiederebbe una camera a un prezzo abbordabile ed io, orgogliosa, mostrerei la casa con la sua moquette discreta, le librerie alle pareti, le piccole finestre incastonate tra muri d’edera rossa, la baldanzosità dei divani, preparerei il tè e sfornerei i biscotti dal forno che -d’improvviso- tornerebbe a funzionare.
Direi, allora, che proprio tra queste mura, a salir di due piani le scale, sta la stanza di un bacio che non fu mai dissolto. 
E, me la chiedessero anche per qualche ora appena, in fretta e furia salirei ad una ad una le scale, richiamerei alla mente il cassetto -certo, quel cassetto nel vecchio secretaire nel corridoio del primo piano- dove sta custodita la grande chiave che non ha più aperto la stanza, avrei finalmente una buona ragione per violare la regola, certo, ospitare gli ospiti inattesi e - presto! presto!- in fretta riordinare, che tutto sia perfetto.

Ed entrerei così finalmente nella stanza del "Bacio" di Toleause-Lautrec, alzerei le coperte e direi a quei due sconosciuti con il volto di ceramica di alzarsi. 

Loro si alzerebbero tutti anchilosati -da quante centinaia di anni stanno lì? - , aprirebbero gli occhi stupendosi di esser stati così tanto l'uno nella forma dell'altro, al punto da non riconoscere più bene i propri confini corporei, le proprie e le altrui labbra e chissà quanti inconsapevoli respiri in mezzo, le dita delle mani aperte alla distanza di due coste sul torace dell'altro, le ginocchia con sopra impresso il segno di un polpaccio, la fronte con in cima l'altra fronte.
Come, come è stato possibile?- continuerebbero a chiedersi, istintivamente portandosi l'uno nell'altro, ma senza alcun erotismo. 
Solo lo farebbero per ritrovarsi il corpo fantasma -avete presente la sindrome dell'arto fantasma, quando il malato continua ad avvertire dolore là dove invece la parte del corpo è stata amputata?-, per rinsaldare i perduti confini, ritornare a vedere, toccare, sentire, con la superficie corporea raddoppiata e, in quello sdoppiamento, addormentarsi per qualche altro secolo in un paio di bianche lenzuola, su cui poi si poseranno la polvere e il sole e la pioggia che entrerà da quella crepa sul tetto spiovente.

E intanto, noncurante, cambierei l'aria, sbatterei le lenzuola, i cuscini. Cercherei l’amore tra le coperte, un arcaico odore di segreti, un tempo di originaria tenerezza.

Ma loro starebbero lì, attoniti, a guardarsi, cercando a loro volta di riscoprirsi l'amore: una luce negli occhi di lei, un rassicurante sorriso sulla bocca di lui, la familiarità di una parola che, all'unisono, li faceva ridere, un gesto d'intesa, un “ricordi?”.
Ma tutto, tutto scoprirebbero di aver dimenticato, mentre erano intenti a passare lui in lei, lei in lui, e non parlerebbero più lingua conosciuta che possa ora esprimere questo vago dolore, di essersi tanto abituati a farsi l'un l'altro da corpo, da non aver più alcuna distanza da colmare, alcun braccio da tendere per potersi amare, per affrontare insieme -ma quel tanto ragionevolmente separati da potersi promettere reciprocamente la salvezza- l'aspra vertigine della caduta.
E no, non ricorderebbero più il passo felpato per uscire di casa senza fare rumore, le piccole o le grandi bugie per arrivare -quel giorno lontano- all’uscio che li avrebbe presi in una camera anonima -per quanto tempo? quanto lontano dalla vita consueta?-, l’attesa durante il viaggio mentre si dicevano parole qualsiasi, preludio di un “mai più”, il rumore del treno sulle rotaie, l’odore di soupe d’onion all’angolo della strada, la forma del fiore che lui non le regalò.

Invito dunque gli ospiti che, neanche oggi, sono arrivati, con la mia miglior cortesia. 
Li faccio accomodare sulla panchetta della cucina, preparo il tè accompagnandomi con parole festose. Li scruto: oggi sono anime bionde -saranno all’altezza?, mi chiedo dubbiosa- e, intanto che ribolle nella teiera il té, con un brivido che mi attraversa, lo faccio, lo faccio davvero: vado a preparare la stanza.
Estraggo la chiave dal secretaire, la giro nella serratura e violo la stanza del “Bacio”. 
Lesta vado alla finestra, apro la persiana -senza guardare, quasi questa traversata dalla porta alla finestra la facessi da sempre- e la stanza si inonda di luce: la stanza del dipinto col suo letto vuoto.

Gli amanti, sorpresi alla luce, sbalzano al muro e tremolano vagamente i loro contorni.
Con le bocche aperte, simili a pesci tratti dall'acqua, non guardano il mondo ma se stessi: sono due sagome impresse nel materasso, così orribilmente disincarnate che parrebbero confezionate a invitare: "avanti il prossimo".
Stanno lì, coi medesimi capelli rossi, le pelli color avorio e non un secondo si è impresso sui loro volti: non un segno di riconoscimento, una vaga sbucciatura sul gomito, la bruciatura di una pentola tratta via troppo distrattamente da un fuoco.
Sono profili piatti, affilati: sono ombre in un cimitero senza nomi.

E in effetti non sono visti, da me neppure tutta affaccendata a rifare la stanza, a spolverare lo scrittoio, a incerare il parquet, a incorniciare lo specchio con una coroncina di fiori tutti bianchi, a lucidare i vetri dell'unica piccola finestra della mansarda, a eliminare dalle travi di legno massiccio le ragnatele.
Non li vedo mentre tenacemente batto il materasso, senza pur accorgermi delle sagome impresse che non si tendono al passaggio della mano, né delle loro ombre, che sono scivolate silenziose sul muro e con le bocche spalancate osservano il loro risveglio, dopo centinaia di anni, l'ostinato inscindibile legame delle loro sagome sul letto.
Non li vedo mentre stendo le nuove lenzuola, mentre s'irradia per la stanza la loro fragranza di lavanda, mentre rimpolpo i cuscini, tiro alla sommità della finestrella le minuscole tende ricamate, ricucio alla spalliera i baldacchini, sostituisco gli asciugamani, posiziono sui comodini i cioccolatini della buonanotte.
Non li vedo mentre sospiro di sollievo per aver tolto qualche strato di oppressione a questo amore, mentre preparo il quadro per i suoi due nuovi amanti.
E non li vedo mentre, soddisfatta del mio lavoro, chiudo infine la persiana e le ombre, così risucchiate nelle sagome, si riposizionano ordinate l'una nell'altrui corpo: le dita delle mani aperte alla distanza di due coste sul torace dell'altro, il polpaccio di uno sul ginocchio dell'altro, le labbra adese in respiri indifferenziati, la fronte con in cima l'altra fronte, gli occhi chiusi, senza sogni. Nessun dolore.

Chiudo la porta a chiave, la consegno agli ospiti invisibili.

Si dice che un tempo questo albergo abbia ospitato gli amanti del Bacio di Touleause-Lautrec e che essi, che pur non potevano amarsi ed erano clandestini in quella stanza, abbiano impegnato l’unica ora che fosse loro concessa dalle rispettive vite -prima di lasciarsi per sempre- a farsi ritrarre nel bacio dal famoso pittore.
Da allora -sempre si dice- per volere dell’artista, la stanza è rimasta chiusa nell’ombra del bacio e una mano misteriosa paga ogni giorno perché l’intero albergo sia vietato a nuovi ospiti.
A tutti, se non a una fedele anziana guardiana che -dubitano alcuni sia davvero umana-, rigorosa, spolvera stanze e corridoi o, forse, l’ombra del suo amore, perduto in un quadro d’immobile bellezza qualche centinaio di anni fa.

giovedì 8 gennaio 2015

Domani

Sempre ti dico
"Arrivederci a domani"
ben sapendo 
che sarà pur un domani
-nebuloso, qualunque, incerto-
il giorno dopo la bocca
che, pesce muto 
dietro un vetro d'acquario
-chiamalo mondo, allora-,
dice: "arrivederci a domani",
qua e là inciampando 
nelle sillabe, perdendo l'ordine
-Ma-do-ni, ni-ma-do-
bisbigliando con occhi chiusi
"Domani una cioccolata calda...
Domani la salita aspra dei limoni..
Domani il consueto rosso tramonto...
Domani il risveglio arrotolato nella pioggia..."

E domani te nella cioccolata calda,
sulla salita aspra, te poi limoni e tramonto,
risveglio di pioggia, te rima baciata
o ciglio aggrottato
ai bordi della pagina.

Non so quale domani
quanti giri di lancette dopo l'oggi
se prima o dopo la morte
dopo o prima della prossima nascita
in quale emisfero
all'angolo di quale caffè, metropolitana, stazione affollata
su quale biglietto strappato
in quale caso, coincidenza o teoria
con quali scarpe, su quale panchina
o battello a vapore, dentro quale 
formula matematica che mi spieghi l'amore
nel riflesso di quale pozzanghera
o scroscio di sole 
in mezzo a quale dolore
in quale lingua "domani"
in quale corpo o punto interrogativo.

Ma sempre ti dico
con occhi chiusi bisbigliando,
inciampando nelle sillabe,
perdendo l'ordine
 -ni-ma-do, ma-do-ni-,
sempre ti dico
-mentre il domani di ieri
è già passato-
con la gioia certa
di chi ha uno scrigno inviolato
prigioniero di qualche terreno o cantina,
"Arrivederci a domani"

domenica 4 gennaio 2015

Strappato a mano, riattaccare a mano

Non so come, eppure ti ho visto tutto a pezzi, come un puzzle, tra mattoni di Ponte Vecchio e caldarroste, gingilli e stoffe al ricamo di bancarelle, assurdi intonaci scrostati di un vicolo che prometteva di portare alla casa di Dante -ma mi son persa prima, in una selva oscura-, David troppo scultorei per essere belli davvero -amo una bellezza meno pronunciata- e poi strati di freddo su acque olivastre e case sepolte dalle foglie per strade in salita -che angoscia, che angoscia il buio delle 16 e le ville antiche coi cancelli sprangati e corrosi di rampicanti- e il venditore di almanacchi, hotel di lusso e affittacamere improvvisati.
E così, ti dicevo, ti racconto, ti dico a distanza, ti ho visto tutto a pezzi: occhi di qui, capelli di lì, mani a destra, piedi a manca. 
Ogni tanto m'impigliavo in un particolare di te, gli dicevo due parole e poi non sapevo bene come fare con quei capelli che erano rami intricati e rimanevano svolazzanti a qualche metro da terra, con gli occhi di quella venditrice di saponette artigianali che avevano proprio quel tuo medesimo taglio e colore degli occhi, seppure infossati in un viso di moltissime rughe e stropicciati da mani con molti segni di lavoro, e io che indugiavo con la saponetta in mano e magari ne prendevo un'altra pure, guadagnandomi qualche altro tacito istante di serrato dialogo -velati di malinconia come sempre e hanno un profumo di bambù, i tuoi occhi, ma non chiedermi com'è il profumo di bambù-. 
E vogliamo parlare delle sopracciglia -quelle inconfondibili sopracciglia marzoline (ma non chiedermi come siano delle sopracciglia marzoline)- che si erano impigliate alla fronte così poco nobile, alta, rozza e sudata del panettiere, che sfornava il pane alle 6 del mattino e diceva bischerate e in niente era te, eppur ti aveva rubato le sopracciglia con così tanta nonchalance e le aggrottava al tuo modo tra i fumi del forno, le fragranze assonnate, la pesantezza del grigio attaccato ai muri -restituiscimi, restituiscimi quelle sopracciglia, stupido ladro, mi veniva da dirgli, mentre indietro avevo solo pane e ancora pane e al massimo una focaccia altissima che non è focaccia ma-me-ne-dia-altri-tre-etti in cambio delle sopracciglia-.
E in me si costruiva una mappa trasognata, tutta traballante, mi accingevo a ritagliare alberi e visi, così sarà capitato a Picasso un dì, pensavo, io non sono Picasso ma devo fare un collage di passi e di abbracci e di visi e visuali, così ti avrò mezzo intero su un pezzo di Arno, ma dove la trovo una bocca che sia la tua bocca, accidenti. 
E vuoi dire davvero che in quella libreria che fa angolo, tra scaffali di libri in disuso con la copertina tutta scolorita, non avrei trovato, ormai rassegnata a lasciare sopracciglia e occhi al bambù nelle loro lontane troppo umane dimore, l'inconfondibile impronta vocale di quel'"ah", palmo di mano sulla fronte, testa reclinata all'indietro e frase pronunciata veloce, con le parole tagliate sulla cima, con un accento d'improvviso meno volgare. 
Proprio lì stavano queste cose, su una testa qualsiasi che sbucava tra scaffali impietriti e crepitio di pagine girate convulsamente, una testa che non aveva a parte questo -quell'ah, palmo di mano sulla fronte, testa reclinata all'indietro e frase pronunciata veloce, con le parole tagliate sulla cima- niente, ma proprio niente di bello e di tuo e anzi, un profilo camuso, appesantito di noia, bluastro di sigarette, flaccido di vizi. Gli avrei soffiato via tutta la pelle, strato per strato, ma che dico soffiato, gliela avrei graffiata via con rabbia, per conservare il gesto soltanto con la sua parola tagliata in cima, come quei pennacchi sulle maschere tribali, totem improvvisato tra folli analogie e arguti scribacchini... cos'è una poesia se non tagliare via strato per strato tutto ciò che è accessorio nel mondo, cancellare con una gomma i visi bluastri e flaccidi, da scaffali di parole estrarne una, sospenderla sopra tutti i tetti  rossi, i campanili rotondi, le soavi perfezioni dei David, il silenzio delle acque olivastre e dei ponti vecchi e giovani, tentennarla come pendaglio apollineo, così avrei fatto con quell'"ah", palmo di mano sulla fronte, testa reclinata all'indietro e parole veloci tagliate sulla cima. 
E così avrei fatto con l'alzata di spalle e allargamento di braccia della receptionist -pallida, magrissima, con grandi occhi scuri - quando ha realizzato che non funzionava il bancomat - e non avevano niente di tuo i denti un poco storti, gli occhi strabuzzati, la bocca scocciata, le mani e la tempra nervose, però quell'alzata di spalle e allargamento di braccia valeva molti altri tentativi col bancomat smagnetizzato, molti altri sbuffi d'impazienza e aggressività sottile mascherata sotto un cordiale sorriso, provi ancora, per piacere (e allarghi le braccia di fronte all'insormontabile difficoltà, su, cosa aspetta?, lei ha il gesto giusto, è la mia improvvisata marionetta e dunque, dunque cosa sta aspettando?)
E ugualmente avrei riportato indietro, come improvvisa scena al rallentatore, il distratto guidatore che ha strisciato ambedue le fiancate contro il muro troppo stretto del vicolo, avanti e indietro, con tanto stridore; la risata sonora del bambino che si sentiva a distanza -quella medesima risata infantile che farfuglia parole e non sa smettere più e quindi per almeno un minuto e venti secondi nulla di male e irreparabile potrà accadere, quella risata che è la tua corazza e corazzava il bambino come un piccolo guerriero di latta-; e il ritrattista che mi voleva ritrarre e nel chiedermelo ha poggiato la sua mano sul mio polso, per richiamare la mia attenzione, qualche istante appena per poi trarlo via, proprio come te -ma non aveva niente di te, lui con i lineamenti sgarbati e una matita troppo pesante, però quattro volte me lo son fatto chiedere fingendomi straniera tra stranieri e anche stavolta avrei estratto la forma dell'aria sopra il mio polso levigata dalla mano imbronciata, quella soltanto-. 
E tutto avrei aggiunto a quel ricco bottino di te tutto a pezzi, di te che non ci sei, così ti devo cogliere come le margherite e poi strappare i petali alle margherite -ma no, non avrei il coraggio di "m'ama, non m'ama", solo i petali senza domande-, sparpagliarli qua e là e poi riandarli a cercare.
Però ho scritto sopra a ogni petalo: "strappato a mano, riattaccare a mano", così so che nessun altro si cimenterà nell'impresa.

P.S: come avrai notato, la tua bocca - o meglio: quell'angolo della tua bocca- non l'ho trovato da nessuna parte.