lunedì 21 dicembre 2015

Io appena, col mio albero imperfetto

Ah! essere un albero!
e la memoria avere
a cerchi concentrici
accrescersi contenendo
anziché espellendo
forme passate
e poi intersecarsi, con fitti rami,
a lune e allodole
sbrinare con foglie e frutti
i vetri invernali del cielo.
E poi far da nicchia
a grilli e scoiattoli
o esser tana segreta
d'un bimbo mutacico
che però legge molto
aggrappato al mio tronco.
Alle nubi aggrapparsi
come a un'altalena
grondarle d'acqua
e ridere di tuoni,
che possano poi andare,
loro che questo hanno scelto
di mestiere: mai rimanere.
E dall'alto sembrar corolla
d'un grande fiore, la terra,
e custodirla dai soli
e dai molti astri
che incuriositi a turno
si sporgono a vedere.
E spingersi a fondo
con molte radici
nei nuclei più densi
e lì saper permanere
mai fugace come l'uomo
che lascia di sé solo il suo seme
dopo aver amato breve.
Mutuamente scambiare
cielo e terra
e con questo dire
un grande amore,
dal profondo attingere
per poi alleggerire
con quote aeree che s'intersecano
e far di tutto
passato e presente
terra e aria
morte e vita
l'equilibrio di un lungo vento.

E esser invece io appena,
senza altezze per la luna
tronchi per la memoria
radici per l'amore:
la terra, forse,
a cui scelse Dio
di non donare il suo albero.

Così imperfetto è il mio:
qualche verso strambo 
d'una solita poesia.



venerdì 18 dicembre 2015

Un draghetto verde fa festa se si frange una bottiglia di plastica. Te lo giuro.

Oggi il mondo è di plastica.
Le onde sono migliaia di bottiglie, incastrate coi loro ventri tondeggianti e stridenti una sull'altra.
Fanno un mare in moto eppure fermo.
Le aspettano a riva massi di plastica, sabbia di plastica, barche di plastica.
Tutti finti attendono le finte onde, che mai si frangeranno.
Coi nasi all'insù stanno gli uomini di plastica, in attesa del tramonto che non ci sarà: quel sole è senza vita, appeso come un lampadario ornamentale, una scultura moderna sul mondo che non gira.
Una volta, narra una voce sulla plastica, faticando a insinuarsi nell'aria imprigionata da un cellophane spesso, questo mondo era vero ed era vera l'attesa: qualcuno prima o poi arrivava, dal mare oppure dalle barche. Qualche volta persino dal cielo.
E tramontava il sole all'orizzonte, faceva un gran frastuono rosso, a volte pieno di fuochi d'artificio.
Si commuove se pensa alla pioggia e alle sue gocce confuse. Se pensa al cielo confuso quando pioveva. Alle nubi che si univano a far cani e orsi e gatti e volti che si baciano. 
Poi -dice- c'era una giostra che girava, si muoveva anche se era di plastica, perché spinta da mani vere. Una giostra a forma di draghetto verde, su cui mai nessuno saliva, accanto a un chioscho col tetto verde -pure quello- a cui mai nessuno si fermava.
Il draghetto partiva da solo, con musiche e strenne, ogni quarto d'ora.
Lo so, dice la voce sulla plastica, perché io mi ci sedevo sempre ad aspettare che arrivasse qualcuno, dal mare o dalle barche e qualche volta pure dal cielo. 
E che andasse via il sole e stendesse un'ombra pudica sopra la terra. 
A quel punto Dio diceva:
"Può baciare l'attesa" e io la baciavo, la baciavo a più non posso, mentre il draghetto cominciava a festeggiare muovendo il capo ritmicamente a destra e a manca.
È bello aspettare e vedere arrivare: tutto il mondo è un presepe, ogni giorno è Natale.
Poi s'è arricciata l'attesa in plastica e il mondo è soffocato.
Il mio mondo è soffocato, dice la voce battendo le parole sul cellophane.
Eppure sto qui e aspetto che si franga una bottiglia, che dal suo ventre tondeggiante e stridente sgorghi mezzo litro d'acqua e per magia, come un defibrillatore a un cuore troppo fermo, quel mezzo litro d'acqua rimetta in moto tutto il sistema: ridia le onde al mare, la sabbia alla spiaggia, il tramonto al cielo e qualcuno all'attesa.
Allora un draghetto verde comincerà a suonare la sua melodia metallica, la sua stereotipata allegria di luci intermittenti.
Non sa dire altrimenti: "oh, sei tornato finalmente! Non sai quanto ti ho aspettato!"


mercoledì 2 dicembre 2015

Il mio cane ed io


Il cane mio ed io
ce ne andiamo 
per una strada d'ombre:
due fiati bianchi
come spiriti appaiati 
nel freddo invernale,
passo a passo
facendo risuonare 
un prosaico pezzo d'asfalto
d'un ritmo ancestrale.
Democraticamente
ci dividiamo le soste:
a lui un cespuglio
decorato di cartacce 
a me un'edicola
con l'insegna spenta eppure aperta 
per i soli che -loro stessi spenti-
per identità ruotano la maniglia.
A lui il cane a macchie delle 19,15, 
a me la signora delle 19,19
che mai ha avuto un nome
però lei sorride e dice,
sempre con la stessa intonazione,
"Saluti la mamma"
e ogni volta garantisco,
-mentendo- "certamente".
A lui la terra
pregna di odori
su cui imprimere i suoi, 
a me il cielo
con la sua grande luna appesa
che già da qualche cuore
non parla più d'amore
Andiamo, il mio cane ed io,
per questa strada lunga e anonima
sui due lati circondati
da un'aiuola spartitraffico
dove non crescono più le rose
però molto ci piace
così densa di appassito squallore
perché già sappiamo 
che nessuno di superfluo
né di necessario
comparirà all'orizzonte.
Eppure non sarà inserita,
questa sera,
né le prossime identiche 
-cambierà solo il gelsomino
che sfiorito un bel giorno fiorirà 
come fosse ordinario
morire e poi rinascere
a regolari cadenze
di soli e astri-
tra le sere senza importanza.
Circola quest'intimità eterna
 tra il mio cane e me
coi fiati all'erta e al passo
cavalchiamo senza dircelo
la malinconia d'un quotidiano addio.
In piedi e zampe 
ci misuriamo la stanchezza
e a un certo punto
senza fiatare
decidiamo che é ora di rincasare.
Giriamo le spalle 
senza voltarci indietro
perfetti Orfeo
nell'Ade urbano
di piogge e pedoni
di semafori gallerie e lampioni,
con un gesto impercettibile
c'incolonniamo in un vicolo stretto
fumando il silenzio
addosso al tanto chiasso
di serrande urla motori bagliori
che fa il giorno quando muore.
Poi ci guardiamo un istante
per constatarci con discrezione
d'un millimetro invecchiati
ma non protestiamo
sapendoci altre mille volte
e in altri mille passati e futuri
esistenti. Ché noi serviamo alla strada
agli orologi e ai ritmi densi
della foglie cadenti.
Perfettamente simmetrici 
equi giusti
chiudiamo il portone
fieri d'aver concluso 
anche oggi
la nostra missione:
l'ho protetto -dico-
dai pericoli del traffico
mi protegge -penso-
dall'orrore di pronunciare
parole per dire che amo.

lunedì 30 novembre 2015

Segni inequivocabili

Ora che tutto è cambiato
presto saranno dimenticati
i nostri volti 
in quel caffè all'angolo
dove ordinavano sempre 
due macchiati con poca schiuma
e impareranno i camerieri a separare
ciò che prima era unito:
le sedie, i tavoli, i bicchieri.
L'uno sarà il cliente delle otto
l'altra quello delle otto e trenta.
Sarà a causa di questi piccoli scivolamenti
sulle lancette, sulle porte
sulle ceramiche delle tazzine 
che leggerà il mondo 
il segno inequivocabile 
che va dal "noi" all'"io".
E si curveranno un po' più acute le strade
per non farci incontrare
Inizierà a piovere un istante dopo
esserci chiusi dietro i reciproci portoni
onde evitare di essere in due
sotto un'acqua torrenziale
con un solo ombrello.
Ci spingeranno 
ammiccandosi tra loro i librai
con un cenno d'intesa.
verso diversi scaffali
decantandoci ognuno 
quel nuovissimo autore
che per niente al mondo
dovremmo perderci 
come prossima lettura serale.
E -puoi scommetterci-
sarà fermato l'uno o l'altra
da un turista inglese
tutto speranzoso di sapere
con la sua cartina sottosopra
la più celere strada per l'acquario
proprio quando sincronicamente
ci saremmo scontrati 
-tutti trafelati- alle 16,17
all'incrocio di due vie.
E poi, poi cresceranno anarchici
i cespugli di ginestre
offuscando la visuale
tra le due corsie opposte
d'una stretta provinciale
non sia mai che s'incrocino
in una sera come tante
le targhe antiche 
delle nostre auto molto usate.
Di questi e altri sortilegi
si serve a volte il mondo
ché non ama imparare di nuovo
ciò che a fatica ha disimparato:
unire le tazze, i tavoli, le strade,
associare ai passanti i volti,
regolare i fenomeni atmosferici,
attivare le coincidenze.
Ha il suo piccolo equilibrio
il mondo col suo caso
e sanno i baristi
che l'uomo solo non pensa più 
alla schiuma sul caffè della mattina.
E poi è vecchio, il mondo
e come i vecchi è avaro, pigro
e non ama inoltre
che gli si faccia notare
con unioni, partenze 
e reciproci imbarazzi 
che trascorsa è ancora 
un'altra stagione.


martedì 24 novembre 2015

Al centesimo mi alzerò

Tre zampilli alla finestra
al quarto mi alzerò
sperando sia tra molto
moltissimo tempo.

Sto indugiando
nel corpo mio notturno: 
è di tutt'altra specie
in azione volge i pensieri
cupi o allegri.

Sette zampilli alla finestra
ormai all'ottavo mi alzerò.

Devo sapere come va a finire
quel racconto del cerbiatto
che fu cacciato 
con tutti i cuccioli nel grembo.
E mentre io lo rianimavo
tu, in silenzio, alle mie spalle 
guardavi 
con gli occhi spenti
come quegli angeli 
che scrutano il Male
e lo ammorbidiscono col fiato
e i passi e il vento
s'una terra cava e nera
che riecheggia gli spari
e allunga le ombre
a dir quasi che nelle ombre 
va calcolata l'importanza delle cose:
e guarda infatti
che ombre grandi!
che corpi piccoli! 

Nove zampilli alla finestra
dev'esserci un buco sulla grondaia.
Verrà qualcuno a ripararla
sino ad allora il mondo non è pronto,
mi convinco,
per esser calpestato:
perciò al decimo mi alzerò.

Sto indugiando nella brughiera
sul corpo pieno di corpi
che è stato cacciato 
e non si rianima.
"É una strage", ti dico.
Una strage che muoia un corpo
con dentro altri corpi.
Tu rispondi, senza parole
"è la vita".
Poi svanisci.
È una strage, continuo a dire
mentre muoio da un lato
col mio involucro notturno
esanime sulla terra nera
tutt'ombra sulla montagna scura. 
E nel mio corpo spira
l'immagine del tuo
così a lungo portato.

Undici zampilli alla finestra
e quindi la quiete:
il numero è perfetto,
il buco riparato,
conferma che tutto è spirato
in sintonia
in questo mondo e nell'altro
e così sia.
Mi alzo, lavo e vesto
il mio corpo vuoto del risveglio:
è una strage, dico a te assente,
che muoia infine anche il ricordo
-quel feto in grembo alla lunga storia-
mentre foro di nascosto 
la grondaia. 
A cento zampilli almeno
voglio arrivare
prima di saperlo.

                Photo by J.Uelsmann

venerdì 6 novembre 2015

Presagi

Dicon le stelle 
da un cartomante 
con la lunga barba
interpellate
che oggi anche non ti vedrò.
Son d'accordo con gli oroscopi nostrani
i cinesi addirittura
e lo gridano a tutto cielo
da lontano richiamando
stormi neri d'uccellacci
additati con orrore
da diciassette ornitomanti
come macabro presagio.

Rientro allora imbacuccata
nell'inverno del mio corpo 
tossicchiando ghiaccio e neve
e altre freddezze amene 
contro gli alberi stecchiti.
E, in casa giunta, 
riapro un po' affannata
armadi e ripostigli
a lungo sprangati
da tenaci chiavistelli
e segrete casseforti
nel muro sprofondate.
Han mille braccia d'ombra
e ammiccanti dicono,
tutte cigolanti:
"Vieni! Metti! Conserva!",
assetate di poter qualcosa custodire.

Ubbidiente mi tolgo allora gli occhi
a uno a uno 
con cura li ripongo nel primo cassetto
falsamente promettendo tempi migliori
e non rifiuto il consiglio concitato
del cubetto di naftalina alla lavanda:
"Rimbocca loro le palpebre,
che poi, rimessi in sede,
shoccati dalla luce,
non abbiano
paura a rivedere!".

La bocca la conservo
schiusa appena, spolverata, lucidata
in un panno d'ovatta immacolata.
A lei ho destinato
un antico portagioie
e -che vuoi farci- la sento 
di tanto in tanto straparlare
dal fondo dell'armadio:
con voce metallica
fastidiosa
di te mi chiede senza sosta
e io rispondo tutta muta:
"Che vuoi che ti dica?
Non mi vedi? 
Son rimasta senza bocca!"

Il naso sta bene nel portamatite
divide così le penne dai pastelli
col suo setto impertinente
e ogni tanto lo trovo tutto teso
ad annusare se a mezz'aria 
giungesse per caso
il profumo del tuo dopobarba.

I capelli! 
I capelli a lungo li ho acconciati
che coprissero sul muro quella crepa
che guasta la bella simmetria dei libri antichi
ma giorno dopo giorno
pendon giù un po' appassiti.
L'ho visti!
S'allargano le ciocche di nascosto
alla distanza precisa tra il pollice e il tuo indice: 
non dimenticano l'impronta 
lasciata un dì dalle tue dita
e anarchici si accalcano alle mensole
come spettatori imbizzarriti.

Ci vogliono tre giri
in senso antiorario
per staccarmi poi tutta la testa
e lasciar che sul lampadario 
si accenda e spenga
di te ricordando 
come un vecchio diario.

È compiuta infine l'ardua impresa
di custodire in luogo sicuro
l'ultima delle mie facce.
Con ciò che resta esco di casa
mi rifornisco di giornali 
dalla folta rubrica d'astri 
e di telescopi 
da ogni finestra al cielo puntati.
Senza testa poi 
guardo le stelle e i neri stormi
giro una sfera
leggo le nuvole
conto i gechi e i quadrifogli.
Non c'è fretta
-dico allora al cielo spento-
posso aspettare:
tutto è in casa
-ben incartato-
a riposare.


giovedì 8 ottobre 2015

Lontano dal tuo tu

C'è di te un'immagine
che erra lontano dal tuo tu
e a ogni tuo passo
fa da bilanciere.
Pianta il fiore che hai strappato
blu in una radura molle
di sole bruciato
e con parole di ovatta
soffoca il drago rosso e verde
che venne sul cammino.
Vaga dimentica della tua armatura
ha il corpo dei boschi
e anima di chiome argentee
per sangue una linfa silvana
e la sua mano si streccia
in rivi e sentieri
e tutto abbraccia
così lontana dal tuo tu
mai girovago e sempre in marcia
incatenato al suo nugolo d'eventi
fantasma dell'aldiqua.

Ma c'è in te un'immagine
così lontana dal tuo tu
che tu dimentichi 
e io vedo.
E se scuoti la testa
per dirmi del tuo tu appena
io m'affanno a raccontarti
che lei
-quell'immagine di te
che si porta per castelli e labirinti
e al varco tace
su di una limpida cima-
all'unisono chiude i rami 
a ripararmi il capo
quando passo e piove il cielo
e soffia tempi di baccano
per spaventare le volpi notturne
e mi narra che può innamorarsi
la coccinella dell'elefante
e uno portare e l'altro portar fortuna
senza troppo apparir goffi 
-questo mi narra ovviamente
quando dorme il tuo tu
e il mio io non dorme
per il cielo che piove 
e i tempi di baccano
che bucano il cielo
e le volpi in cerchio
sulle tegole del tetto-

L'immagine di te
che tu dimentichi e espiri 
dall'armatura del tuo tu
di tanti metalli altisonante
mentre lei vaga 
con la sua cornamusa 
un po' stonata
e il suo seguito di pettirossi
formiche e elefanti
e devo io cantarle 
-senza sosta-
le poesie
ché non venga assorbita
senza neanche una parola
nell'erba gelida
così lontana dal tuo tu
l'immagine di te
che tu dimentichi
e io vedo.



martedì 29 settembre 2015

S'un terrazzo a vista, da nessuno visitato

Non so come indosseranno
la nostra forma le sedie
quando saremo andati.
Che gesto -immobili-
sceglieranno di conservare
per presentarlo a un distratto
viaggiatore del futuro
o a una fumosa discarica 
di oggetti abbandonati.
Se qualcuno ci includerà 
nell'inventario
del nostro appartamento 
in vendita
e se ciò -quel pezzo di vita già vissuta
sprofondata nel velluto strappato
della sedia- alzerà o abbasserà 
il valore dell'immobile.
C'è chi preferisce una vita
nuova di zecca
e contesterà che la nostra presenza
-seppure discreta-
gli sbiadisce il suo primo 
sprofondarsi in poltrona 
dopo una giornata di lavoro
o che un lascito di attesa
lo rende inquieto
di non veder a sua volta tornare.
Ancora, contesterà che strane presenze 
oscillano avvinte alle imposte
come panni di bucato mai asciutti 
o che la tavola è gravata del peso
di bouquet di fiori ormai sfioriti.
E chiederà uno sconto
per i nostri piedi scalzi che
-ne è sicuro-
di notte gli fanno più di uno sgambetto
o per quel gesto ancestrale di uncinetto
che ricama nell'aria a mezzanotte
vicino al camino spento.
Urlerà al povero agente immobiliare
-stanne certo- 
che a nulla è valso coprire le nicchie
con grandi schermi LCD
e che non questi erano i patti.
Che deve svanire tutto il passato
e i muri essere immacolati 
e invece guarda come persistono
sotto mani e mani di bianco 
le nostre ditate al cioccolato.
Come sventolano nella sagoma
del vecchio armadio
i nostri vestiti
"ché mia figlia persino 
dopo averli uditi
pretende d'indossare i tempi passati
e abbiamo dovuto portarla
dagli psichiatri 
che le rimettessero addosso
il 2100".
Oh no, non così vorrei che indossassero 
le nostre forme le sedie
quando saremo andati
ma che sotto la stoffa
affiorassero appena
per dire con voce lieve
con tempi chiari
con bonario perdono:
"Ora ciò che è stato è stato"
e lì rimanessero
strecciati i vimini 
sfoderati i cuscini
come volti raggrinziti
s'un terrazzo a vista
da nessuno visitato.