domenica 21 dicembre 2014

Raccoglierci il tempo come le more

Vorrei, per noi, due volti vergini e gli occhi schiusi sincronicamente a una primissima luce e che, legati per mani e incubatrici e parlottii di distratte ostetriche che ci disinfettano gli ombelichi, ci sorridessimo inconsapevoli della destinazione del sorriso e quella curva senza denti si continuasse vagamente dalla tua alla mia bocca, come a tessere un unico indecifrabile e insensato sorriso alla vita. 

Vorrei poi, dopo molti anni separati, che per caso ci scontrassimo un giorno su un vialetto di ghiaia pieno di piccioni, venditori ambulanti e palloncini e, facendo cadere nello scontro il medesimo libro, ci scoprissimo vicini di giorno, di mese, di anno e di incubatrice e, per puro piacere di crederlo, ci riconoscessimo l'un l'altra gli occhi -anche se allora erano solo occhi neonati, aperti come la serranda di un locale vuoto.

Mi piacerebbe, allora, camminarti i giorni, i mesi, gli anni, con quella strana forza che ci darebbe il sapere di aver cominciato a vagare per i ruderi di questo mondo con muscoli contratti nello stesso istante; con polmoni dilatati al medesimo fiocco d'aria; con pianti intrecciati in una stessa melodia stonata; di aver a quei ruderi di mondo -scioccamente- sorriso in un sorriso unico e di tenerci dietro i medesimi giorni, mesi, anni - ma che dico anni: minuti, secondi, attimi- e fare delle mani una singola mano, aspra e guerriera, un baluardo contro un plotone nemico, una similitudine levata a bandiera -la nostra-, una ragnatela di volti coi nostri alle perfette simmetriche estremità. 

Noi che, per privilegio del destino, mai avremmo conosciuto quella grande solitudine di un tempo ancestrale, scalciante, muto, solitamente non condiviso con nessuno.

Noi che conteremmo i giorni della battaglia, come soldati dietro un pietrone a vegliarci la vita, e di notte scriveremmo tra gli spari una poesia d'amore mal scritta, troncata a metà perché finirebbe la punta della matita o perché non avremmo a sufficienza parole, noi che le useremmo come munizioni di estrema difesa contro ogni intruso che avanza dalla legione straniera.

Vorrei infine un allineamento dei corpi, che s'infragilissero insieme, ruga per ruga, dolore per dolore, malinconia per malinconia. Che sbiadissero all'unisono gli originari sorrisi, sì da fare del comune sorriso una comune smorfia, tesa dal tempo e dal freddo e dalla disillusione agli angoli delle medesime labbra, che nel frattempo si sarebbero a tratti prosciugate, che sarebbero ruvide al tatto, arse dal sole, dal vento -ma sì, arrugginite come una vecchia serratura, che a un certo punto non viene più aperta-. 
E noi, quindi vecchissimi, simili a legno, cuoio, pietra fuori, ci scopriremmo allora malleabili dentro la serratura e diremmo: "quanti giorni, mesi, anni, foto, quanti indifferenti anni nuovi e compleanni e fuochi d'artificio e candeline". Diremmo così, con le fronti uguali a tenere prigionieri uguali pensieri.

Questa gran similitudine vorrei, quel primo miracolo di incubatrice e vociare di ostetriche distratte mentre estraggono tempi confezionati e disinfettano ombelichi, quel punto fisso sul passato, anziché star così tanto indietro e perdermi l'angolo della tua bocca che così bene al mio s'incastri in un comune sorriso, in una comune smorfia di vane coraggiose battaglie.

E poi raccoglierci insieme il tempo, come le more. Già, come le more.

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