martedì 30 dicembre 2014

In nessun luogo si deposita l'amore

Non sa niente la terra
che a me ti porta 
niente il sole e la luna
o i falchi che solcano i mari
quei soliti falchi che annunciano
ciò che verrà in poesia.

E non sa niente la sabbia
che t'impolvera talvolta
le scarpe che vogliono andare
l'iride che non osa guardare
i lobi delle orecchie 
che non vogliono sentire.
Niente l'inchiostro che ti scrive
La mano che ti accarezza
Il cuore che ti ama
L'occhio che ti guarda
L'orologio che ti aspetta
Il sonno che ti sogna

Non si deposita in nessun luogo 
l'amore - non mani, non libri,
giorni o volti amici lo tengono-
mai ha testimoni
fluisce in trasparenza
è un ricciolo d'aria
per un istante teso
tra labbra e labbra -che non sanno-
Lo costruiscono inconsapevoli 
muratori -inchiostro, mano,
cuore, occhio, orologio, sonno-
Operosi di giorno in giorno
con pala e picconi scavano
per nascondere un messaggio
che mai verrà recapitato.

In nessun luogo si deposita
l'amore, ché in tutto l'universo
nessun'altra bocca dirà 
di questo ricciolo d'aria 
che un giorno passò 
bisbigliando confuso 
tra noi, impercettibilmente
spostandoci il sorriso.



domenica 21 dicembre 2014

Raccoglierci il tempo come le more

Vorrei, per noi, due volti vergini e gli occhi schiusi sincronicamente a una primissima luce e che, legati per mani e incubatrici e parlottii di distratte ostetriche che ci disinfettano gli ombelichi, ci sorridessimo inconsapevoli della destinazione del sorriso e quella curva senza denti si continuasse vagamente dalla tua alla mia bocca, come a tessere un unico indecifrabile e insensato sorriso alla vita. 

Vorrei poi, dopo molti anni separati, che per caso ci scontrassimo un giorno su un vialetto di ghiaia pieno di piccioni, venditori ambulanti e palloncini e, facendo cadere nello scontro il medesimo libro, ci scoprissimo vicini di giorno, di mese, di anno e di incubatrice e, per puro piacere di crederlo, ci riconoscessimo l'un l'altra gli occhi -anche se allora erano solo occhi neonati, aperti come la serranda di un locale vuoto.

Mi piacerebbe, allora, camminarti i giorni, i mesi, gli anni, con quella strana forza che ci darebbe il sapere di aver cominciato a vagare per i ruderi di questo mondo con muscoli contratti nello stesso istante; con polmoni dilatati al medesimo fiocco d'aria; con pianti intrecciati in una stessa melodia stonata; di aver a quei ruderi di mondo -scioccamente- sorriso in un sorriso unico e di tenerci dietro i medesimi giorni, mesi, anni - ma che dico anni: minuti, secondi, attimi- e fare delle mani una singola mano, aspra e guerriera, un baluardo contro un plotone nemico, una similitudine levata a bandiera -la nostra-, una ragnatela di volti coi nostri alle perfette simmetriche estremità. 

Noi che, per privilegio del destino, mai avremmo conosciuto quella grande solitudine di un tempo ancestrale, scalciante, muto, solitamente non condiviso con nessuno.

Noi che conteremmo i giorni della battaglia, come soldati dietro un pietrone a vegliarci la vita, e di notte scriveremmo tra gli spari una poesia d'amore mal scritta, troncata a metà perché finirebbe la punta della matita o perché non avremmo a sufficienza parole, noi che le useremmo come munizioni di estrema difesa contro ogni intruso che avanza dalla legione straniera.

Vorrei infine un allineamento dei corpi, che s'infragilissero insieme, ruga per ruga, dolore per dolore, malinconia per malinconia. Che sbiadissero all'unisono gli originari sorrisi, sì da fare del comune sorriso una comune smorfia, tesa dal tempo e dal freddo e dalla disillusione agli angoli delle medesime labbra, che nel frattempo si sarebbero a tratti prosciugate, che sarebbero ruvide al tatto, arse dal sole, dal vento -ma sì, arrugginite come una vecchia serratura, che a un certo punto non viene più aperta-. 
E noi, quindi vecchissimi, simili a legno, cuoio, pietra fuori, ci scopriremmo allora malleabili dentro la serratura e diremmo: "quanti giorni, mesi, anni, foto, quanti indifferenti anni nuovi e compleanni e fuochi d'artificio e candeline". Diremmo così, con le fronti uguali a tenere prigionieri uguali pensieri.

Questa gran similitudine vorrei, quel primo miracolo di incubatrice e vociare di ostetriche distratte mentre estraggono tempi confezionati e disinfettano ombelichi, quel punto fisso sul passato, anziché star così tanto indietro e perdermi l'angolo della tua bocca che così bene al mio s'incastri in un comune sorriso, in una comune smorfia di vane coraggiose battaglie.

E poi raccoglierci insieme il tempo, come le more. Già, come le more.

Inverno


E adesso ghiaccia 
tra la neve i petali
Lasciali aperti
alla giusta distanza
Lo stame occhio sbarrato
coricato con in mezzo una luna

Non sgualcirli

Che sia il freddo 
una bianca coperta
E s'intravvedano 
da trame di ghiaccio
i colori ora sbiaditi
come una non comune 
tenace memoria.

E soffia talora 
un colbacco di vento
che accenda le diafane bocche 
e in massa le schiuda 
sotto la spessa scorza.

Tieni quel fiore soprattutto
che fu di un amore improvviso
piegagli i petali appena
come mani giunte in preghiera
E se premerà per sciogliersi
in mezzo all'inverno
tu, inverno, più forte cristallizza 
intorno, tieni slanciato
il gambo ormai blu.

E se vorrà tentennando parlare
tu, inverno, di tacere fagli segno
Addormentalo 
tra gli uscieri del gelo 
che neri solcano il cielo
calamite sospese
a chiamare una terra
vuota di segni
che inciampa in impronte.

E digli
tu digli che dorma
alla sua paura mostra
come rapido ancora 
il fiume che pare 
immobile scorre
Come aspettano di risorgere
dalle tane i fiati
Come si scrollano 
di siccità passate
i pini affollati di neve.

Queste cose digli
cullalo piano
tra i rimbrotti stalagmitici
dei tetti e dei camini
e sempre ricordagli il calore 
con un freddissimo abbraccio
e così custodiscilo
lui che fu fiore
di un improvviso amore
custodiscilo -ti prego-
almeno fino a primavera.

martedì 16 dicembre 2014

Presepio

Per il tempo di Natale: posare la neve, sistemare gli addobbi, accendere le candele.
Illuminare gli antri spenti, rinverdire i presepi -tutte, tutte le attese-, non dimenticare, infine, la cometa, portarla al capo, lasciarla vagare -tutta di carta- sopra la testa.
E poi: mai dimenticare di scaldare la mangiatoia, sistemarvisi in posizione fetale, ricercare col viso il fiato dei grandi ancestrali animali, attendere i doni fatti di paglia, stupirsi di quanto non servano -se sei appena nato e hai freddo e ti indica da lontano appena una cometa di carta- oro, incenso e mirra.
Ma ugualmente accettarli, con quel livido peso di consapevolezza -crescerai già domani e domani, cresciuto, serviranno, purtroppo-, ma adesso ricordati, ricordati di nascere ancora e fissa il muschio alla memoria: un giorno ti si avvinghierà alle scarpe -quando sarai un poco distratto, tra radici e neve sporca- e ti addolcirà un poco i contorni del viso, che si saranno nel frattempo tesi, come corde arrugginite che non vogliono più suonare.

E osservare -per quanto è possibile essendo così tanto supini, così tanto orizzontali e privi di prospettiva- le orde dei pastori solcare la valle, faticosamente tra palme spazzate dal vento e dal ghiaccio, vederli ingiungere come un plotone nemico, mentre invece disconoscono e dimenticano marciando il tedio meschino che -sino al momento della cometa di carta- ha avvolto il loro cuore.
Sono inciampati -diranno- in un ciuffo di muschio, sembrava un miracolo in mezzo ai pietroni e, così rovinosamente cadendo, son rimasti per qualche istante con gli occhi fissi al cielo e hanno visto: hanno visto le solite stelle, il Carro e tutte le costellazioni e poi quella assurda cometa di carta, di sicuro un po’ kitch, appesa alla nera montagna.
E così per un attimo hanno avuti vuoti gli occhi, all’unisono si sono accesi e disposti nella valle come specchio stellare, hanno fatto -senza saperlo- il Carro e tutte le costellazioni e ordinati incedono nella regolare, perfetta geometria del cielo sulla terra e non i massi aguzzi, i precipizi, gli abissi scompongono quella danza silente, quel divenire fisso e a te giunge l’infinità del cielo, il mistero degli astri, la musica dei pianeti.
A te giunge -così supino-, attaccato al seno.

E senza parole si scrive Betlemme sulla geografia della tua carta e appena intinta è la penna nel calamaio di neve e la scritta è un ricamo bianco sul cielo nero.
Fioccano i pani dai panieri, sgocciola l’acqua dai frantoi, stramazzano in sacrificio le bestie con gemiti scuri, sgomitolano tessiture dai filatoi, con un cigolio che pare di un marchingegno sotteso alla terra. Tendi l’orecchio, a tratti par vento soltanto -un vento freddo dal sud al tuo nord-, ma a poco a poco si svela il frenetico lavoro di mani, la fatica delle fronti sudate che incedono -con brocche, con grigi cavalli, con variopinti equilibri di vesti e mantelli-, il tempo ora dipinto in una vaga scia di lumi.
A te queste cose si portano -a te così supino, attaccato al seno.

A te per quest’eternità appena, che ridesta però le speranze chiuse, la purezza macchiata, la corsa del primo che giunge -così sincronica a quella dell’ultimo che vuol recuperare la distanza- e si tende e si contende e si accorcia la luminosa scia e il Carro del cielo specchiato in Terra, ché Terra e Cielo sembrano ora due palmi di mani schiusi, attaccati per i polsi. 

E da quell’utero tanto improvvisato, tu ti posizioni, tu così supino, tu attaccato al seno, tu col viso proteso a cercare il fiato di ancestrali animali, tu che non lo sapevi, mentre intrecciavi in origami la cometa, che era per te.


"Ho visto che gli uomini si sorprendono della morte ma non di esser nati. Tuttavia è la nascita ad essere più sorprendente ed ammirevole."Louis-Claude de Saint-Martin

domenica 14 dicembre 2014

Nessuno - è così chiaro - non ti assomiglia nessuno

Dicono che per somiglianza
si ama
per cosa che fluisca
tra le pupille
un insignificante ricordo
Per orror di morte
infine
ché qualcosa esiste
- ed è già tutto fiorito, guarda -
a richiamar ciò che è esistito.

E così si chiama amore
quella pallida 
malinconica somiglianza
magari forzata
come serratura allora sprangata
e adesso aperta
forziere che serba 
le antiche primule che subito 
- come occhi- si aprono,
pergamene e ceralacca
che -di nuovo- sgorgano inchiostro,
o primitiva finestra
-che mai più fu spolverata-
adesso d'improvviso luminosa,
una ciocca di capelli
- prima amputata -
ora scossa al vento,
un profilo bianco
-fu sempre solo un imprendibile
profilo, carceriera una cornice,
mai visto di fronte-
come d'incanto svelato.

Dicono queste cose
dell'amore e così giustificano
che possa a uno seguirne un altro
- ci sarà, sempre ci sarà 
un nuovo amore -
dicono con unisone bocche
dirimpettaie alla stagione nuova 
 - dopo tanto imbrunire -
al bucaneve simile al bucaneve
alla primavera simile alla primavera
al volto simile al volto. 

Dicono queste cose
e io vago con occhi
senza mai trovare.
Ché in questo mondo
crepuscolo di strade
gomitolo di similitudini
nessuno - è così chiaro - 
non ti assomiglia nessuno.


lunedì 8 dicembre 2014

Lunerîe

L'attimo prima.

Ti vedo così, sembri un soldato al fronte, corazzato. O, forse, un dio bendato che si è perso.

Fluttui in un’oscurità densa, con quella luna inquietante, tutta piena, bordi bianchi e interno nero, che ti sta appena dietro, come una cornice.

E’ così buio che non pare tu abbia i piedi appoggiati su una qualche superficie.

Tu contro la luna, un orizzonte troppo acerbo per chiedere mare, monti, colline, palazzi. 

Forse è il primo orizzonte, una scenografia di teatro, tutta nera, un luogo stilizzato, con te che ci cammini sopra, una riga bianca un po' luminescente, le labbra aperte che succhiano i lasciti di luce della luna, forse un neonato alla prima poppata.

O forse un uomo che prega una donna, l'ultima donna rimasta mentre il mondo muore.

Fatto sta che ci sei tu, bianco sul fondo scuro, e la luna, piena, tonda, stranamente vicina, col suo contorno ugualmente bianco sul fondo scuro.

È l'attimo prima.


Io sono nell'attimo dopo, una sola sequenza di tempo più in là - e ti guardo.

La Luna si è impercettibilmente spostata sulla linea del cielo, è qualche minuto più avanti verso il mattino. 

A mano a mano che cammina, forse perché si allontana, sembra un po’ meno piena.

E non saprei cosa scegliere tra la luna di prima e la luna di adesso. Stanno una accanto all’altra, sono attimi congelati - e io li guardo. 

Si è fermato tutto, coesistono questi due attimi sulla superficie del cielo.


Tra il mio mondo e il tuo, tra l'attimo prima è l'attimo dopo, non c'è che un respiro, un battito di ciglia e una membrana, trasparente e pulsante. 

Senti? 

La sfioro col palmo della mano, nel tentativo di arrivare sino a te.

Tu, che ti muovi nel riflesso lunare, sembri un ballerino con la sua circonferenza di luce tutto intorno, estendi ad una ad una le gambe, le porti verso il cielo, poi cadi in un giro veloce. Ti chiudi in posizione fetale, poi ancora ti riapri, sembri un fiore adesso, ricadi verso la terra con la tua corolla un po' sgualcita, bussi con una mano sul contorno della luna, poi scalci e trema la superficie dell'astro.

Sono convulsi i tuoi gesti, sei così solo con quella palla piena di crateri e intorno il mondo è sparito o, forse, non c'è ancora. 

Ti manca tutto, persino la parola. 

E, così, non si sa se balli perché non ti rimane che questo linguaggio ancestrale, perché sei un pazzo che dialoga con la luna o se cerchi di tirar giù da quell'altro pianeta un po' di oggetti perduti. 

Chissà, magari son finiti nei crateri; magari a rovistare con le mani, con le braccia che adesso allunghi verso quelle voragini, trovi qualcosa di te -che so-, forse un nome, un cognome, una lunga strada arrotolata come un pezzo di stoffa da stendere verso una casa, la tua casa che è una casa qualunque in un sobborgo della città che ora è perduta, e allora cerchi ancora, cambi cratere, estrai grattacieli fulgenti e grandi palazzi, alberi cittadini, siepi e rose, solletichi ancora quel ventre lunare e quello starnutisce via qualche odore: odore di pane, di caffè, di pesce; odore di urina su un muro; odore di gelsomino estivo; odore di pino invernale; odore di sangue e formalina in un ospedale.

Eppure, eppure tutte queste cose che tu estrai dalla luna finiscono qui, nell'attimo dopo, sotto la Luna che è un po' più vicino alla linea del mattino, si stendono ai miei piedi, mi solleticano le narici, le ciglia, il tatto. 

Mi attraversano gli occhi -azzurri, li vedo riflessi in uno specchio denso i miei occhi, così vuoti-, quegli oggetti passano attraverso la membrana come per osmosi, mi popolano il mondo sino a far della Luna un dettaglio tra tanti, un dettaglio dell'attimo dopo.

Non so cosa guardare adesso, se te o il mio mondo -tutto nuovo.

Folata di vento, suono di ninnoli. Primo suono di un'armonica, in lontananza.


Protesto per la tua immensa fatica non seguita da un risultato: il tuo mondo è ancora la Luna e vuoto intorno.

Fluttui, fluttui ancora, ti porti qualcosa alle labbra, potrebbe essere qualsiasi cosa ma io penso male, sento la tua solitudine: no, non farlo, non bere!

E intanto, chissà, forse è un’illusione, ma ti vedo più grande, la tua sagoma sembra quella di un prigioniero dentro la Luna.

Chissà, forse esploderà mentre tu, adesso, sembri metterne in tensione la circonferenza: spingi a più non posso. E pieghi le ginocchia e tendi più in alto le braccia e fai tremare i bordi della Luna.

Sei ebbro, ebbro di oscurità, di pienezza, di Luna. 


Questa pressione fa uscire altri dettagli dai crateri, che fluiscono subito nel mondo con la Luna dell’attimo dopo. 

Sono gli spiriti che forse avevi sognato, chissà quando, forse quando la solitudine ti ha fatto così tanta paura e la Luna, quella buona Luna che ti tiene, ha nascosto nelle sue voragini per non spaventarti troppo: mostri coi denti aguzzi, lupi e falene notturne. E ancora: streghe e folletti, animali del bosco. Scivolano su questo mondo insieme a uno strato di neve. Che freddo, che freddo fa qua.

La tua paura, adesso, è la mia paura. Il tuo freddo diventa mio, il tuo mondo immaginario è tutto steso ai miei piedi. Ma è così distante, adesso, la mia Luna. Solo un punto nel cielo.

Scopro per la prima volta di avere una voce, è un fiume al contrario che sale dallo stomaco alle labbra e dalle labbra agli occhi. Ma nessuno mi ha insegnato a trasformare i pensieri, le immagini in parole. Ecco perché adesso so solo piangere, dentro questa solitudine popolata di mostri e di neve e la Luna che scivola via verso l'attimo ancora dopo, non riesco a fermarla, a tenerla vicino.


E poi, poi piango per te, che continui a succhiare con foga quel qualche cosa di amaro.

E che usi la Luna per appenderti nel vuoto, lasciare la Luna. 

Hai trovato una fune, oscilla giù dalla Luna. No, al collo no, ti prego!

Si macchia di rosso il fondo bianco della Luna, mentre a poco a poco, con movimenti concentrici si dilata, ti fa uscire nel buio e tu la abbandoni.


Sono nell'attimo dopo.

La mia Luna si riprende, a poco a poco ma, come chi ha perso qualcosa da dentro, adesso non è che uno spicchio.

Il rosso scivola sulla membrana, diventa calore per questo mondo, mi gonfia il cuore, mi espande i polmoni.

Qualcuno taglia la fune, me la srotola dal collo. Mi mette in questo mondo.

Mi porto qualcosa alle labbra, ora so che non era una bottiglia, ma solo il mio pollice di pelle tiepida e grinzosa. Come una bottiglia, però, riempie una solitudine.

La Luna si allontana nella sua veste bianca. Mi guarda, mi sorride, dice “mamma”. 


Certo, sarà per sempre sul mio orizzonte ma, ora che son nato in questo mondo, morto nell'altro, lo so, non saremo mai più così vicini. 


È bello quando ancora non ci sei, quando il Tempo non è che una pellicola stesa ai tuoi piedi, tutti gli attimi affiancati. È bello quando ci sono due Lune, una che cova il mondo e gli nasconde i sogni del futuro nei crateri, e una che lo guarda, gli alza e abbassa le maree, gli cambia gli umori, i tempi, gli amori.

Perciò -dicono- l'uomo ambisce di ritornare sempre alla Luna.


lunedì 1 dicembre 2014

Ché più facilmente si dimentica ciò che bene si ricorda

E così mi verrebbe da chiederti se, per Natale, mi puoi regalare qualcosa che, domani, assomigli a un ricordo.
Che so, qualcosa di denso: una data su un calendario sgualcito, un fiore da intrecciare a un gomitolo, tre righe di un libro, sottolineate e con un'orecchia sulla pagina, un vecchio pullover di lana bucato -il tuo, ovviamente-, il negativo di una fotografia mai sviluppata sullo sfondo di un famoso monumento.

Non sia mai che un domani, quando molte cose concrete si saranno frapposte fra me e qualche cosa di te, possa io dubitare che tu -un giorno- con tracce inconsistenti, con baci e con segni analfabeti che allora, tra molti domani, non saprò più decifrare, sei passato -leggero, inconsistente, incosciente- per questa strada. 

Non sia mai che, risuggellando con la punta dei polpastrelli i tuoi segni -quei segni che paiono macchie d'inchiostro, distratte, distrattissime- non riesca più, unendole, a ricomporre i contorni del tuo viso sulla carta -quei contorni che, criptati, hai voluto lasciarmi -no, voluto no-, che -tuo malgrado- mi hai lasciato nel caos-, che hai scritto -lo capirò poi- con inchiostro simpatico.

Non sia che, quando tra strade a rapida intersezione mi investiranno note, parole, finestre, presagi, pezzi di carta, slogan pubblicitari, io non sappia ricomporre il puzzle e da note, parole, finestre, presagi, pezzi di carta, slogan pubblicitari, non trovi io il dettaglio che, con sicurezza, a te mi riporti -un riflesso dell'occhio, l'eco di una risata, l'accento di una parola- e mi rassicuri che -molti ieri fa- tu hai calpestato un po' più forte l'asfalto sotto la mia porta, come a voler - pur senza determinazione, senza certezza- lasciare lì impressa la forma delle scarpe.

Non sia che molti cieli, stagioni, mesi, anni, possano confondere quei cieli, stagioni, mesi -no, anni no- che ti hanno attraversato i vestiti mentre -per caso, per imprevisto incontro di venti che, di solito, non s'incontrano- s'impigliavano ai miei.

Che possano molti odori -ortensie, gelsomini, vischio, pane appena sfornato, latte in un pentolino, febbre in una stanza chiusa, mare ed alghe, fogli appena stampati- evaporare il tuo odore che, come lascito inatteso di un paesaggio in cartolina, per sbaglio -certo, per sbaglio- mi ha solleticato, senza fermarsi -non ti fermavi mai-, le narici.

Perciò, ti chiederei -potessi!- di lasciarmi qualcosa che, un domani, assomigli a un ricordo: netto, sicuro, invincibile, un'area del cervello, un giorno e un anno, una fotografia non sfocata con una almeno delle smorfie che fai, un ritaglio della tua stoffa, una goccia di pioggia imprigionata tra due vetri.
E non parentesi, linee astratte, numeri algebrici in valore assoluto; non luci intermittenti, gesti sepolti in una pozzanghera, suoni polifonici, mezze stagioni.

Così, chiuso in quei drastici confini delle cose che esistono, senza sempre cercarti in melodie al contrario, in libri senza un finale, nell'angolo di uno specchio venato, affacciata a finestre che guardano altre finestre, sì, così, senza doverti -continuamente- fare il ricordo, inizierei a dimenticarti.
Ché più facilmente si dimentica ciò che bene si ricorda.