lunedì 3 novembre 2014

Scalarti la barba e poi migrare


Me lo prendo sempre un po' di tempo per scrivere a te.

Prima di sapere se i pensieri lasceranno la carta e ti verranno a bussare alla porta.

Lo faccio così, lo faccio per me. 

Ognuno allucina un po' e, quando non ci sei, io allucino te.

Mi distendo sul tuo mento, sulle asperità della barba quando non fai in tempo a tagliarla. Lì, non lo sai, c'è tutto lo spazio del mondo. E mi basta. 

Sembra un po' una barca, quel solco curvilineo tra le labbra e la punta del mento. O un'amaca. O una crisalide. 

Comunque sia, un posto dove sto tutta intera, e mi stiracchio, e chiudo gli occhi, e tendo i polpastrelli all'indietro, caso mai per magia ti arrivassi fino all'iride o alla pupilla. E lì sapessi, d'improvviso, la tenerezza di essere guardata in silenzio, quando abbassi gli occhi e osservi e schiudi le labbra appena, incerto se dire o non dire.

Ma non vorrei che dicessi. 

Mi piacerebbe solo farti il solletico alle ciglia e poi addormentarmi nel solco del mento e sapere che mi guardi. 
E taci. E forse, non pensi neanche.

Vorrei trovarti in un attimo senza pensieri, chissà se sei mai così inerme, coi pensieri supini come pollini sui fiori gialli, in balia del vento, e vederli migrare via in un cielo azzurro, così azzurro da sembrar finto.

Allora ti scalerei il volto, tenendomi saldamente alla pelle, usando i peli della barba come pioli di una scala, i capelli come funi di ancoraggio (ma son talmente piccola che non ti farei male, te lo prometto), e verrei a guardarti come sei coi pensieri migrati. 

Coi pensieri migrati -lo vedi?- mi faresti poi strada, tireresti in alto le funi corrugando la fronte, mi offriresti un piano d'appoggio allargando il sorriso e la tua indulgenza scaverebbe quella fossetta in mezzo alle guance, che sarebbe proprio il piolo mancante, il trampolino per il setto nasale, quello scivolo al contrario per i tuoi occhi, che allora sarebbero vuoti abbastanza per essermi specchio.

E mi specchieresti l'ostinato amore per me attraverso l'amore per te. 
Mi specchieresti le dita che scrivono di nuovo, i pensieri che si pensano, le strade che s'instradano, la fatica di scalare che non si affatica, l'attesa che attende me mentre ti attendo. 
Mi specchieresti la quiete sul picco e dalle tue ghiandole lacrimali sgorgherebbero i rivi che sui picchi si trovano sempre, le ciglia sarebbero l'erba in bianco e nero di questa cartolina sbiadita e potrei non aver bisogno del tuo iride azzurro per pensare al cielo, non succede così in un quadro in bianco e nero. 

Potresti avere allora gli occhi di tutti, il naso di tutti, i capelli di tutti. Potresti essere allora un picco fra i tanti e, con fiducia, potrei iniziare a guardare l'orizzonte e cercare altri picchi, altri occhi, altri specchi. 

Potrebbe darsi che a questo punto scenda la neve, la neve che monda e che copre ancora un po', ammansisce le valli e i loro abissi, quieta i colori, sorvola le emozioni. 
La neve sarebbe la nuvola dei tuoi pensieri evaporati che fa ritorno, trascorsa tutta la stagione delle migrazioni. 
E tu non la riconosceresti, e io non la riconoscerei. Ché tanto è cambiata, per me, per te. 

Ma sarebbe quasi una visione, mentre io scalatore, tu montagna, ci scopriremmo intercambiabili tra noi e con tutto il resto al di là di noi: picchi, valli, tetti, abissi; erba, salite, discese; cielo e terra; stagioni; mesi; anni. 

E ci piacebbe scoprire che il nostro amore serviva all'amore e non al nostro amore.
Che il nostro ascendere serviva all'ascesa e non alla nostra ascesa.
Che il nostro incontro serviva a incontrare chi non s'incontrava e non a incontrare noi.

Ci piacebbe scoprire queste cose e io ti abbraccerei gli occhi come un grande petto e loro respirerebbero un grande respiro e mi metterebbero in volo. 

E io migrerei insieme ai tuoi pensieri migranti, come l'aquila in mezzo alla neve.

Già, scalarti la barba e poi... e poi migrare.


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