sabato 22 novembre 2014

RÍGAME MUCHO

 Parola del giorno: RIGAME


Ma chi l'ha detto, poi, che le parole debbano avere per forza quel significato lì, spiattellato dal dizionario?

Oggi il dizionario dice "rigame", con l'accento sulla "a".

Ma chissà perché io, invece, lo metto sulla "i" quell'accento, con una nota caliente, e lo trasformo in un sensuale imperativo: "rígame!", dico a gran voce.


Il mio amato sembra un albero secco, mi guarda stranito. Anzi, non mi guarda neppure!

Eh già, è da un po' che siamo in crisi (anche se non ho capito bene perché, devo ammetterlo ma, d'altronde, "te lo sei scelto coi rami contorti!", mi rinfacciano) e io non so più cosa inventarmi per farlo rifiorire.

Ho provato a intenerirlo, con carezze all'olio pregiato, che nutrissero al contempo la corteccia ma -che dire?- ha la scorza dura come un panettone scaduto. 

Gli ho confezionato tutto un innaffiatoio di lacrime amare: erano lacrime parlanti, ognuna sussurrava dolci parole d'amor perduto, alcune erano versi grandiosi, "amor ch'a nullo amato", etc etc, ma la sua terra, ahimè, non assorbe più l'acqua.

Gli ho scalfito il tronco con tanti cuoricini con scritto il suo nome -sembravo il furioso Orlando -e li ho anche dipinti, ma la corteccia era così secca che cadeva in pezzi, mi rimanevano i cuoricini -tutti infranti- tra le mani.

Ho allora provato a fare l'altezzosa, devo ammettere che non mi riesce bene, fingevo di averlo dimenticato, ma credo che abbia visto le mie pupille osservarlo dentro un cespuglio di rovi con le spine appuntite. E così, proprio mentre l'ho intravisto che sporgeva un poco allarmato la sua brulla corolla, si è subito ritratto.

Ma non mi sono data per vinta: ho pensato allora di intraprendere una terapia di coppia. 

La terapeuta, che abita in un desolato castello su un picco deserto, scuotendo la testa mi ha detto:

 "Cara, ma quello è un albero, per giunta secolare, ha messo le radici, dove vuoi andare? E inoltre, così radicato, come faresti a farlo spostare?"

Aveva ragione, eppure ho insistito: le ho pagato per mesi un salato onorario, sottoponendomi a una massacrante analisi doppia. Sì, avete capito bene, mia e dell'albero: l'ho scandagliato tutto, dall'alto al basso, dall'infanzia remota al presente, dall'emozione della prima foglia al trauma del primo autunno, mi sono commossa per gli strati di neve che lo hanno ghiacciato d'inverno, ho sentito il dolore del becco del picchio in primavera e l'arsura della canicola estiva, ho elaborato tutti i suoi lutti e, non contenta, ho provato a curargli l'entomofobia e l'anemofobia;  ho anche fatto un'ipnosi regressiva per scoprire chi era stato nelle sue vite precedenti, se ci eravamo già incontrati e se, per caso, il nostro incontro aveva avuto tragiche conseguenze; ho persino sognato in sua vece, mi sono stesa per lui sul lettino; alla fine avevo la schiena a pezzi, gli occhi gonfi di lacrime mie e brine sue, mi stavo trasformando in albero anch'io, ero piena di pollini, muschi e licheni; a tratti sentivo camminarmi insetti sulla superficie corporea, in PS sospettavano la psicosi di Korsakoff, ma "io non bevo, sono solo innamorata di un albero, sto empatizzando, è terapia", ho risposto molto convinta! Poi sono arrivati sintomi psicosomatici, incubi e insonnia. Così ho detto basta, la terapia ibrida donna/albero non ha funzionato.

Hanno chiamato allora un professorone che, tra cerchi di fumo, mi ha diagnosticato una metamorfosi isterica. Fissandomi negli occhi mi ha spiegato, molto lentamente, gustandosi ad una ad una le sue sublimi riflessioni, che mi stavo trasformando nell'oggetto d'amore perduto e, ammiccando tutto gaio, con una fumata bianca, ha aggiunto: "L'identificazione con l'oggetto amato fa sì che il lutto non venga elaborato. Sarebbe anche una soluzione, se non fosse che denuncia che lei non raggiungerà mai la fase genitale del suo sviluppo. Signorina, mi dispiace, lei è malata e molto grave, ha un Edipo molto grosso, non c'è più niente da fare", e, con una pacca sulla spalla, ha concluso: "Non rimane che il ricovero, o viene spontaneamente o dovrò farle un TSO."

Ma che, ma che TSO, io ci andavo volentieri, non sapevano il perché! 

Fatto sta che nella Clinica Psichiatrica del Bosco hanno cominciato a sedarmi, ma io ero sempre più su di giri, ero diventata un albero da frutta, di frutti tutti rossi, brulicavo di bacche e susine. Ero la delizia di tutti i ricoverati, i frutti erano buoni ed abbondanti, ma così zuccherosi che ho alzato la glicemia dell'intero reparto. 

I medici erano sbigottiti, si riunivano in continuo, non sapevano spiegarsi la reazione, aumentavano le dosi, inserivano stabilizzatori. Sino a che un'infermiera corpulenta e disincantata ha fatto irruzione in riunione:

"Dottori, ma che avete studiato a fare? Le avete dato una camera vista albero, e perciò è maniacale e non si può stabilizzare! Se volete che guarisca (e che non stiamo tutto il giorno a raccogliere i frutti dell'amore), dovete cambiarla di reparto!"

E non potete immaginare la disperazione quando, dopo il trattamento sanitario obbligatorio, mi hanno fatto la dimissione sanitaria obbligatoria. Eh già, non me ne volevo andare più, mi ero autocontenzionata al letto, tutta rossa, innamorata e piena di frutti.

Mi hanno allora trasferito in Chirurgia Ortopedica, mi hanno tagliato tutti i rami, poi hanno chiamato il chirurgo plastico per ridarmi sembianze umane mentre io, fingendomi accanita sostenitrice di dottrine del profondo protestavo: "siete macellai, i rami ricresceranno, i problemi si risolvono alla radice (dell'albero)!"

Pensate sia finita qui?

No! Una volta dimessa, mi sono data alla magia nera!

Ho provato a mettergli una civetta nel tronco: l'aveva ammaestrata per me una strega, esperta di mal d'amore, a carpirne i pensieri e a darmi indicazioni precise per pozioni e intrugli con cui bagnargli le radici. 

L'ho pagata un occhio della testa. 

Ma, non ci crederete, è venuto fuori solo allora che l'albero era già stregato o forse qualcosa non aveva funzionato: insomma, da quando ho posizionato il gufo in un anfratto di corteccia, puff!, l'albero s'è smaterializzato e chi l'ha visto più! 

Eppure c'era chi mi aveva avvisato: dedicati ai giovani arbusti, mi dicevano in coro tutti gli abitanti del bosco!

Ma io, io niente, mi ero innamorata della chioma argentata di quel vecchio albero che, devo dirlo, ai tempi d'oro mi aveva anche un po' ingannata: non era così avvizzito e poi si lasciava sfuggire dalle fronde languide parole d'amore, come mai ne avevo udite; e poi raccontava storie meravigliose, rideva sempre, mi guardava estasiato, era tutto innamorato! Si muoveva un po' sgraziato con le sue grosse radici, ma era così carino quando al mattino mi svegliava, tutto spettinato dal vento notturno, con la colazione tra i rami. 

E non solo ora è muto come un tronco senza linfa ma, beffa delle beffe, la Regina del Bosco, gli ha fatto pure potare la chioma... che storia! 

Che poi, si sa, una volta che t'innamori l'avvizzimento diventa un tenero struggimento dell'animo da curare e io, io giù ad innaffiare, e intanto invecchiavano i giovani arbusti, arrivavano i tagliaboschi, i mangiafuoco, i lupi mannari. Tutti ad avvertire: "vai via, vai via! Fallo almeno per orgoglio!"

Ma io: niente. 

Solo che adesso, mi vedi, non so più che fare.

Cerco risposte dall'oracolo Zanichelli , un pietrone parlante coperto di muschio, messo al centro della foresta, che ogni giorno mi suggerisce una parola.

Rigáme, dice oggi.

No, no, io m'immolo, mi faccio tronco sensuale e, con una rosa tra le labbra ormai di legno, ignorando l'accento, dico: "Rígame! Rígame mucho",  all'albero fantasma. 

È l'ultima chance.

E pensare che non sono un'anima latina.



http://youtu.be/Iiu7-BGBV2A


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2 commenti:

  1. pagina 299
    Mi sono chiesto quale mia parola abbia rinchiuso il vuoto ed il pieno per cui il dirla mi abbia fatto fiero e nel sentirla sia rimasta sola. Penso a ciò che non fu un bisogno, di quelli veri, senza una risposta. Penso al dire che portò al sogno, un desiderio per far di sé mostra. Ma poi mi chiedo dove abbia rinchiuso quel suo significato senza senso, quel dimostrare senza un consenso, quel nascondere lo sguardo ottuso. Mi viene in mente ogni mia parola che ha racchiuso ogni mio volere di raccontare qualsiasi cosa senza pensare all’altrui piacere. Giunge il pensiero d’avere creduto che trasmettere il mio accaduto fosse semplice da fare capire quanto comune da far riferire. Ma quando credi che tutto sia meme nasce l’errore che fascia la mente, crei dissapore cercando attenzione mostri l’orgoglio chiudendo il cuore. Questo mostrare senza una domanda, questo chiudersi nell’altrui attesa, crea la parola che porta alla resa perché sognare ben presto stanca. Quindi quel meme diventa una merda non più potendo sentirti potente e quella rabbia rivolta alla gente mostra pretesa su chi non ti cerca. E questo solo perché nel parlare hai abbondato o mal rifinito, hai ritenuto senza domandare, nel tuo spiegarti poi non hai finito. Anche se meme vuol dire bisogno non tutto può essere raccontato, perché chi ascolta pensa al suo passato e se diversamente non l’ha udito cerca ciò che può esser riferito.

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    1. Caro lettore/scrittore,
      m'incuriosisci. Sarebbe bello leggerti di più...

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