giovedì 6 novembre 2014

Mentre il cielo non è affatto azzurro e lui dice "pioggia"

I due uomini lavorano di spalle, chini su bacinelle rettangolari di metallo.
Il soffitto è a volte, di piccole piastrelle azzurre, sembra un cielo troppo vicino alla testa.
La stanza è vuota, solo una finestra a mezza luna e, sotto, una valle persa, senza memoria.
Lavorano di spalle e impastano una qualche materia organica, grigia come la fuliggine e, in mezzo, cercano l'oro.
Quello di sinistra impasta meccanicamente, lo sguardo assente. Non vorrebbe trovarsi lì, anche se lì è un luogo di silenzio, scosso appena dallo sciabordare dell'acqua resa viscosa dalle mani nella bacinella.
Quello di destra, invece, fissa il lavoro delle sue mani, gli tremano le labbra appena, non ha fretta sui polpastrelli, è esattamente dove vorrebbe essere.
Quello di sinistra si lava via il sudore dalla fronte. Quelli di destra, invece, ha un saio candido come la neve. Nulla sgorga dal suo corpo.
Versa a tratti l'acqua nella bacinella e accarezza ogni cosa, con la lentezza di un gesto d'amore.
E in quella lentezza si accorge - non poteva non accorgersene - che la sua materia assorbe l'acqua, avidamente. E allora si china e scruta in essa il contorno di due labbra assetate.
E scuote il compagno di sinistra e glielo dice a gran voce: "non c'è oro, però beve, guarda!"
Ma il compagno di sinistra non lo segue, fa una smorfia appena.
Non importa, lui versa ancora acqua sulle labbra assetate, sono labbra di una donna, imprigionata dentro il fango.
Non c'è oro, c'è una donna, grida allora e si sporge dalla stanza e cerca qualcuno che lo aiuti a trarla fuori dalla cera. 
Non può più muovere le mani nella materia, adesso che sa, ogni gesto sarebbe grossolano, la potrebbe ferire.
Può solo aspettare che si disseti e che l'acqua le rinvigorisca i lineamenti, che emergano come una maschera dalla creta.
Quello di sinistra non vede e gli mette fretta. Deve andare a casa, deve chiudere il laboratorio.
Ma è quello di destra che non lo sente, adesso, mentre si china sulle labbra sconosciute e soffia e scioglie la sua saliva sul fango, per imprimere qualcosa di umano su quel volto ancora informe. Respiri, saliva, acqua. Acqua, respiri, saliva.
Non è proprio un bacio, è solo alchimia. 
Anche se non verrà fuori l'oro.
Acqua, respiri, saliva. 
La forma vibra, si distacca appena dal suo stampo.
È nata prima la bocca degli occhi, pensa, e questo gli sembra strano, è come dire che nasce prima la gioia del pianto.
Ma poi no, è proprio così che deve accadere, prima quella scintilla del bacio che non è un bacio, nascono tutti così, da un brivido di gioia, sembra poco ma è abbastanza per trarre fuori dalla cera il viso che prima non c'era. E poi gli occhi, quando smettono di baciare le labbra, che servono per cercare con lo sguardo le labbra perdute, che hanno disegnato le forme quando la gola non emetteva fiato, era un polipo senz'aria in una bacinella d'avorio.
E così adesso ci sono, gli occhi, grandi, curvilinei, potrebbe averli disegnati lui, pensa, se non sapesse che non ha disegnato nulla, che ha solo baciato qualche centimetro di fango perché è stato troppo lento, troppo attento, meticoloso nel perdersi come non lo è quello di sinistra. Gli occhi si muovono, a destra e poi a sinistra, fissano il cielo di piastrelle. Non credere, le dice, non credere che sia tutto lì il mondo, adesso. Ma chissà se capisce, chissà se sente. E si avvicina alle orecchie sepolte nel fango, ci saranno da qualche parte, e glielo dice da più vicino, dà un nome a tutte le cose, le insegna ad ascoltare prima di parlare. E le orecchie scavano il fango, quanto coraggio, sembran conchiglie, come le conchiglie echeggiano qualcosa, ora è lui che si riascolta: "non credere, non credere che sia tutto lì il mondo, adesso". 
Sembrano quasi parole vere, scritte sulla creta, invece è solo memoria, la prima che avrà la donna che viene dal fango.
Ora c'è un viso, tutto intero, il fango cambia colore, è quasi bianco, è quasi asciutto, solo parole, lacrime e saliva, hai bisogno di forza per tirarti su e uscire dallo stampo, vorrebbe dirle. Ma ha paura. E si sposta.
E lei lo perde, via dal suo orizzonte, perciò si alza, da sola, è uno sforzo sovrumano lavarsi via migliaia di anni di fango, di radici melmose, di fiumi gelati e sterpaglie; di pesci lividi di blu, alghe verdastre, scheletri portati via dalla corrente; tesori sepolti e mai più ritrovati.
Adesso è lei che vorrebbe dirgli quante cose sono nella sua memoria, e poi un "fermati, fermati", ma non sa parlare la memoria del fango e i nomi lui li ha pronunciati troppo in fretta. E così può solo alzarsi, quanta fatica, e usare gli occhi al posto della bocca muta, inseguirlo con le gambe ancora pesanti, per il sonno, per il peso del fango, per l'incertezza del primo passo, e far dire agli occhi e alle gambe "fermati, fermati!". E magari inciampare, giù per la scala di pietra e farsi male e usare ancora la riserva di lacrime, e poi la gioia di trovarlo, su una collina con un solo albero, la prima immagine dei suoi occhi, la prima saliva della sua bocca, mentre il cielo non è affatto azzurro e scende altra acqua e lui dice "pioggia".

                          P.Delvaux

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