sabato 22 novembre 2014

RÍGAME MUCHO

 Parola del giorno: RIGAME


Ma chi l'ha detto, poi, che le parole debbano avere per forza quel significato lì, spiattellato dal dizionario?

Oggi il dizionario dice "rigame", con l'accento sulla "a".

Ma chissà perché io, invece, lo metto sulla "i" quell'accento, con una nota caliente, e lo trasformo in un sensuale imperativo: "rígame!", dico a gran voce.


Il mio amato sembra un albero secco, mi guarda stranito. Anzi, non mi guarda neppure!

Eh già, è da un po' che siamo in crisi (anche se non ho capito bene perché, devo ammetterlo ma, d'altronde, "te lo sei scelto coi rami contorti!", mi rinfacciano) e io non so più cosa inventarmi per farlo rifiorire.

Ho provato a intenerirlo, con carezze all'olio pregiato, che nutrissero al contempo la corteccia ma -che dire?- ha la scorza dura come un panettone scaduto. 

Gli ho confezionato tutto un innaffiatoio di lacrime amare: erano lacrime parlanti, ognuna sussurrava dolci parole d'amor perduto, alcune erano versi grandiosi, "amor ch'a nullo amato", etc etc, ma la sua terra, ahimè, non assorbe più l'acqua.

Gli ho scalfito il tronco con tanti cuoricini con scritto il suo nome -sembravo il furioso Orlando -e li ho anche dipinti, ma la corteccia era così secca che cadeva in pezzi, mi rimanevano i cuoricini -tutti infranti- tra le mani.

Ho allora provato a fare l'altezzosa, devo ammettere che non mi riesce bene, fingevo di averlo dimenticato, ma credo che abbia visto le mie pupille osservarlo dentro un cespuglio di rovi con le spine appuntite. E così, proprio mentre l'ho intravisto che sporgeva un poco allarmato la sua brulla corolla, si è subito ritratto.

Ma non mi sono data per vinta: ho pensato allora di intraprendere una terapia di coppia. 

La terapeuta, che abita in un desolato castello su un picco deserto, scuotendo la testa mi ha detto:

 "Cara, ma quello è un albero, per giunta secolare, ha messo le radici, dove vuoi andare? E inoltre, così radicato, come faresti a farlo spostare?"

Aveva ragione, eppure ho insistito: le ho pagato per mesi un salato onorario, sottoponendomi a una massacrante analisi doppia. Sì, avete capito bene, mia e dell'albero: l'ho scandagliato tutto, dall'alto al basso, dall'infanzia remota al presente, dall'emozione della prima foglia al trauma del primo autunno, mi sono commossa per gli strati di neve che lo hanno ghiacciato d'inverno, ho sentito il dolore del becco del picchio in primavera e l'arsura della canicola estiva, ho elaborato tutti i suoi lutti e, non contenta, ho provato a curargli l'entomofobia e l'anemofobia;  ho anche fatto un'ipnosi regressiva per scoprire chi era stato nelle sue vite precedenti, se ci eravamo già incontrati e se, per caso, il nostro incontro aveva avuto tragiche conseguenze; ho persino sognato in sua vece, mi sono stesa per lui sul lettino; alla fine avevo la schiena a pezzi, gli occhi gonfi di lacrime mie e brine sue, mi stavo trasformando in albero anch'io, ero piena di pollini, muschi e licheni; a tratti sentivo camminarmi insetti sulla superficie corporea, in PS sospettavano la psicosi di Korsakoff, ma "io non bevo, sono solo innamorata di un albero, sto empatizzando, è terapia", ho risposto molto convinta! Poi sono arrivati sintomi psicosomatici, incubi e insonnia. Così ho detto basta, la terapia ibrida donna/albero non ha funzionato.

Hanno chiamato allora un professorone che, tra cerchi di fumo, mi ha diagnosticato una metamorfosi isterica. Fissandomi negli occhi mi ha spiegato, molto lentamente, gustandosi ad una ad una le sue sublimi riflessioni, che mi stavo trasformando nell'oggetto d'amore perduto e, ammiccando tutto gaio, con una fumata bianca, ha aggiunto: "L'identificazione con l'oggetto amato fa sì che il lutto non venga elaborato. Sarebbe anche una soluzione, se non fosse che denuncia che lei non raggiungerà mai la fase genitale del suo sviluppo. Signorina, mi dispiace, lei è malata e molto grave, ha un Edipo molto grosso, non c'è più niente da fare", e, con una pacca sulla spalla, ha concluso: "Non rimane che il ricovero, o viene spontaneamente o dovrò farle un TSO."

Ma che, ma che TSO, io ci andavo volentieri, non sapevano il perché! 

Fatto sta che nella Clinica Psichiatrica del Bosco hanno cominciato a sedarmi, ma io ero sempre più su di giri, ero diventata un albero da frutta, di frutti tutti rossi, brulicavo di bacche e susine. Ero la delizia di tutti i ricoverati, i frutti erano buoni ed abbondanti, ma così zuccherosi che ho alzato la glicemia dell'intero reparto. 

I medici erano sbigottiti, si riunivano in continuo, non sapevano spiegarsi la reazione, aumentavano le dosi, inserivano stabilizzatori. Sino a che un'infermiera corpulenta e disincantata ha fatto irruzione in riunione:

"Dottori, ma che avete studiato a fare? Le avete dato una camera vista albero, e perciò è maniacale e non si può stabilizzare! Se volete che guarisca (e che non stiamo tutto il giorno a raccogliere i frutti dell'amore), dovete cambiarla di reparto!"

E non potete immaginare la disperazione quando, dopo il trattamento sanitario obbligatorio, mi hanno fatto la dimissione sanitaria obbligatoria. Eh già, non me ne volevo andare più, mi ero autocontenzionata al letto, tutta rossa, innamorata e piena di frutti.

Mi hanno allora trasferito in Chirurgia Ortopedica, mi hanno tagliato tutti i rami, poi hanno chiamato il chirurgo plastico per ridarmi sembianze umane mentre io, fingendomi accanita sostenitrice di dottrine del profondo protestavo: "siete macellai, i rami ricresceranno, i problemi si risolvono alla radice (dell'albero)!"

Pensate sia finita qui?

No! Una volta dimessa, mi sono data alla magia nera!

Ho provato a mettergli una civetta nel tronco: l'aveva ammaestrata per me una strega, esperta di mal d'amore, a carpirne i pensieri e a darmi indicazioni precise per pozioni e intrugli con cui bagnargli le radici. 

L'ho pagata un occhio della testa. 

Ma, non ci crederete, è venuto fuori solo allora che l'albero era già stregato o forse qualcosa non aveva funzionato: insomma, da quando ho posizionato il gufo in un anfratto di corteccia, puff!, l'albero s'è smaterializzato e chi l'ha visto più! 

Eppure c'era chi mi aveva avvisato: dedicati ai giovani arbusti, mi dicevano in coro tutti gli abitanti del bosco!

Ma io, io niente, mi ero innamorata della chioma argentata di quel vecchio albero che, devo dirlo, ai tempi d'oro mi aveva anche un po' ingannata: non era così avvizzito e poi si lasciava sfuggire dalle fronde languide parole d'amore, come mai ne avevo udite; e poi raccontava storie meravigliose, rideva sempre, mi guardava estasiato, era tutto innamorato! Si muoveva un po' sgraziato con le sue grosse radici, ma era così carino quando al mattino mi svegliava, tutto spettinato dal vento notturno, con la colazione tra i rami. 

E non solo ora è muto come un tronco senza linfa ma, beffa delle beffe, la Regina del Bosco, gli ha fatto pure potare la chioma... che storia! 

Che poi, si sa, una volta che t'innamori l'avvizzimento diventa un tenero struggimento dell'animo da curare e io, io giù ad innaffiare, e intanto invecchiavano i giovani arbusti, arrivavano i tagliaboschi, i mangiafuoco, i lupi mannari. Tutti ad avvertire: "vai via, vai via! Fallo almeno per orgoglio!"

Ma io: niente. 

Solo che adesso, mi vedi, non so più che fare.

Cerco risposte dall'oracolo Zanichelli , un pietrone parlante coperto di muschio, messo al centro della foresta, che ogni giorno mi suggerisce una parola.

Rigáme, dice oggi.

No, no, io m'immolo, mi faccio tronco sensuale e, con una rosa tra le labbra ormai di legno, ignorando l'accento, dico: "Rígame! Rígame mucho",  all'albero fantasma. 

È l'ultima chance.

E pensare che non sono un'anima latina.



http://youtu.be/Iiu7-BGBV2A


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venerdì 21 novembre 2014

Io penso però sia un messaggio che ti sta ad aspettare ("ché l'arte è lunga e, inoltre, non importa")

Era bello quando vedevamo, la mattina, arrivare le navi nel porto. Ci passavano un'onda come una palla, ma il bello era che non sapevamo prenderla, stava lì sul pelo dell'acqua, dentro la risacca.
E chissà da dove arrivava.

Avremmo forse dovuto carezzarla, come il dorso di un gatto, e assorbirne la provenienza nei polpastrelli.
Chissà, avremmo forse trovato la rotondità di una cupola di moschea, i crocicchi labirintici di un suq, molti e molti fumi di narghilè addossati ai muri scrostati; e i sussurri della folla avremmo forse udito, della folla che spintona per passare e un "al ladro, al ladro", gridato in una lingua sconosciuta; le suole in fuga del ladro-bambino, un profilo scuro che sparisce dietro cumuli di verdura e spezie; il suono del flauto dell'incantatore di serpenti che dormicchiano, drogati, dentro un cesto di vimini.
E dall'acqua sarebbe poi arrivato l'odore della menta, quella che mischiano nel caffè denso e nero, nelle tazze da cui non berremmo, noi occidentali schizzinosi.
Ma non l'abbiamo accarezzata.

È rimasta tra il mare e la battigia, quell'onda che era un messaggio e non si è mai increspata in spuma e non ci ha mai bagnato la punta del piede.

Non è bene ignorare i messaggi che vengono da lontano, specie se riguardano i lidi dove s'intrecciano le ombre e le strade, dove cambiano gli dei, ansimano gli asini tra lanterne notturne e le spose si prendono in cambio di venti cammelli.
Avremmo forse dovuto cercare la Mecca, penso adesso, stenderci in quella direzione, giusto così per solidarietà col messaggio che spuntava nell'onda, che sbuffava dalla nave, che diceva altri mondi, mille e una notte, sguardi dal caos.
E noi a ritirarci ordinati, la sabbia era una coperta dell'ordinario, silenzio intorno come sempre fa silenzio il primo mattino, tutti stesi nei pensieri consueti, nelle barche di sempre, col richiamo rozzo del pescatore nel nostro piccolo dialetto.

Se passa una nave, invita a narrare.
Ad andare. A partire.
Chissà a che pro quell'essere amanti come tutti gli amanti, baciare le labbra, guardare per finta gli orizzonti. 
Siamo caduti nella fossa di sabbia.

Che poi magari era un'onda del Nord, vai a sapere. 
Un'onda di freddo, di gelo, di ghiaccio. Di vero silenzio fra fiordi che sembrano mani congiunte, con la palme aperte, una preghiera di monti. 
Uno stridore di gabbiani arrabbiati, col becco intriso di brina, merluzzi essiccati giù da una trave di legno scuro e i ninnoli che aspettano un vento inesistente.
Case rosse in mezzo alla prateria a cingere un mare fermo, dove non c'è notte o è sempre notte.
Ma non sarebbe stato comunque questo freddo banale che spira a novembre, questo freddo umido bagnato di piogge che portano male.
Quello è invece un freddo che sa di Natale. Ad accarezzarlo, ci sarebbe rimasta sul mignolo una chiazza di neve, di quelle con le figure geometriche brillanti al primo sole. 

Ma no, non l'abbiamo raccolta. Abbiamo tirato su i cappucci, ignorato i segnali del tempo atmosferico, che poi è anche un tempo cronologico, bussa dietro le ginocchia.
È sempre un male ignorare i messaggi che portan le navi. 

Stamattina, vedessi, c'è una bassa marea che non si vede mai da queste parti. 
E allora penso che forse quell'onda era un'onda di quelle che pendono dalle labbra della Luna, e si fanno piene e si ritirano e si gonfiano ancora e aprono varchi di terra insperati in mezzo al mare, così si può spiare furtivi il fondale, trattare invece questa volta lo straordinario come ordinario, un'alga blu come un ciuffo d'erba vicino a uno steccato sprofondato. 
Sì, sarebbe bello far così, giocare a palla con le onde che mandano le navi, stare in bilico tra ordinario e straordinario, girarsi alla Mecca e darsi un bacio distratto, poi con la prossima ondata di marea fare il contrario: un bacio diverso, che mai fu dato, dimenticare la Mecca e invece "Padre, Figlio e Spirito Santo", la solita chiesa che ci guarda di spalle.

Così, vedessi, stamattina: tutto è sabbia, anche al largo.
Sparito il mare, si è incagliata la nave.
Non so come interpretare. 
Io penso, però, sia un messaggio che ti sta ad aspettare. 


               Sappi sperare, attendi che cresca la marea
-come a riva una nave- e sia lieve il salpare.
Chiunque attende sa che la vittoria è sua,
perché la vita è lunga ed è l'arte un giocattolo.
E se la vita è breve
ed il mare non giunge al tuo battello,
attendi e non salpare, e sempre spera,
ché l'arte è lunga e, inoltre, non importa.


 




giovedì 20 novembre 2014

Anna è il vento dietro la vela

Parola del giorno: strabordare

Anna non vede i bordi, scrive fuori, cammina fuori, ama fuori.
Succedeva già da piccola, che disallineasse le file di formiche che, facendo un gran lavoro, dividevano in rettangoli il pavimento in terracotta del balcone.

Anna vive fuori dal suo nome, non chiederle come si chiama. 
Lei vive intorno ad Anna. Gira intorno all'A aguzza, inciampandosi nel suo picco, si riposa sulla gobba delle N, poi scende dalla curva della "a" minuscola e cinge allora il lato inferiore delle lettere.
Questo suo movimento intorno alle cose fa il suono delle scarpe dei pastori sul presepio: assomiglia ad un'attesa, l'attesa di chi non sa nominare, perché è tagliato fuori. Così i pastori non sapevano cosa andavano a trovare perché erano macchie in mezzo al muschio, erano un niente intorno a un tutto. Servivano al presepe e servivano a far accadere la nascita, lambivano la grotta come un lenzuolo intorno a un corpo. E non nominavano. E non sapevano.

Così Anna percepisce la fenditura, i contraccolpi, le smorzature che il nome imprime sul vuoto tutt'intorno. 
Diventa lo spazio che accoglie la lama, il tondo etereo che si piega all'orologio, la profondità del bacio, il lascito dell'impronta.
Senza bordi, strabordando, è tutte le ombre insieme, messe a ventaglio. 

La ferisce lo strappo al foglio di carta, ché lei diventa la voragine tra un margine e l'altro. La ferisce il pennino della penna, che separa le parti bianche del foglio.
 E l'onda sulla battigia, che incurva e solletica l'aria, quella la fa ridere con risate grandi e grosse, le spalanca tutta la bocca. 
Certi nomi, anche loro, sembrano mani che giocano con la pelle del vuoto: sono quelli con tante doppie, prova a toccarla con un "hullallà" o un "trallallà", vedrai come chiude gli occhi, vedrai come salta, le "L" sembran molle che increspano di schiuma un cielo tutto azzurro, gli accenti son discese ardite, le t e le h la vetta dello scivolo, la rosa dei venti del nulla.

Ma Anna è poi anche lo spazio intorno a un'ape senz'ala, caduta in due centimetri di terra. È carnefice, allora, un po' digrigna i denti, un po' piange lacrime salate. Ha ucciso, ha imprigionato. È tutta la colpevolezza di un terreno arato, che ha soffocato l'ultimo fiore: si vede, si vede lì, a chiudergli la corolla dal dolore.

Ogni tanto cova amore, è il guscio di un grande uovo: le succede a fare l'"extrabordo" di quei grandi alberi tondi, che tagliano i giardinieri. Allora è lo spazio che gronda la pioggia sulle foglie amputate, sulle forme arrotondate, sugli scarabei luccicanti, le edere soffocanti, sulle cavità del tronco che mettono in letargo i ghiri, sui rami intrecciati dei nidi.

Anna straborda: è il vento dietro la vela. 
Il vento leggero, il vento in burrasca, il vento che, qualche volta, manca. 


mercoledì 19 novembre 2014

Era un trabiccolo, lo ricicliamo?

Parola del giorno: trabiccolo


Che trabiccolo questo albero. Ti ricordi, un po' di tempo fa lo abbiamo abbattuto, perché sembrava troppo avvizzito per rimanere albero. E ne abbiamo fatto una nave. 
Oddio, una nave. Diciamo, una piccola barchetta. Ma per noi è pur sempre una nave, sembran sempre più grandi le cose quando ci metti la mano. Se poi sulla mano metti un'altra mano, diventano gigantesche. 
E così la chiamavamo nave, anche se era buona appena per arrivare alla boa dei bagnanti la sera, quando si chiudevano gli ombrelloni.
Ed era chiaro che non avrebbe retto alla tempesta, eppure -ricordi- ci piaceva pensarla in bilico su grandi flutti, magari dipinta di rosso e di nero, come le navi dei pirati. 
Che stupida io quel giorno che, con le foglie appena cadute, ho costruito la vela. L'ha buttata giù un vento appena. Però -ricordi- com'era bella, tutta gialla e rossa, sembrava un autunno al contrario, con le foglie che salivano al cielo anziché cadere in picchiata.
E -dicevamo- andrà in mare aperto, ma che dico mare, sarà un oceano, di quelli sconfinati, con la nebbia sul pelo dell'acqua, le alghe stese come un pavimento giallo e sotto anche i pescecani, che però non c'inghiottiranno, perché quando nelle cose ci metti le mani, figurati, diventano grandi, diventano immense: così la nostra barchetta era diventata un transatlantico.
Anche se il legno non era buono, sapeva di muschio, assorbiva l'acqua.
Ma -dicevamo- sarà ancora più forte, così, tutto poroso, se ama l'acqua non ne avrà paura, che sia del cielo o del mare.
E intanto il nostro trabiccolo pensava al bosco -ma non lo sapevamo-, ai cespugli di more, ai rovi che cingono il tronco, alle sue foglie tutte appese, con le libellule e le lucciole tra i rami, in quei boschi dove appendi i segreti, incidi le iniziali, taciti i pensieri.
Non era fatta per galleggiare, era un piccolo trabiccolo, al massimo avrebbe fatto nella sua vecchiaia l'altare, di una piccola chiesa nella foresta, dove si sposa in gran segreto chi ritorna, vivo ma tutto spossato, dopo un naufragio.

Era un trabiccolo. Lo ricicliamo?

martedì 18 novembre 2014

(S)trame che stanno ad aspettare

Nota: ringrazio l'amica Mimì Momò (visitate il suo blog:http://dillo-con-lanima.blogspot.it/?m=1)  per avermi invitata a giocare con lei, donandomi ogni giorno una parola per un post.
Oggi mi ha regalato "STRAME"


Strame. Di Natale. Della grotta. 
Strame, non sapevo volesse dire fieno.
Però suggeriva delle trame, messe lì ad aspettare.
Le parole son di fieno, si aprono come un cestino. Han le loro trame e l'ordito, pure.
A guardarle bene sembran mani con le palme aperte, cinque dita e cinque vocali e poi, lì nel mezzo, s'intrecciano alle consonanti, per leggerti la linea della vita.
La tua vita è bella e lunga, dicono all'unisono, la tua vita non è pure soltanto una.
In quella prossima farai diverso, stanne certo, però adesso le vocali si tendon giù così come viene, sembran quelle campanule delle viole, suonano se c'è vento, come dita sulle corde della linea di questa vita.
Le ha raccolte una donna d'altri tempi, le ha raccolte nelle pieghe del vestito, eran parole di fieno ma sembravano un dolce veleno.
Forse perché il fieno era reciso, certe volte è crudele tagliare ciò che nasce in primavera. 
Così è nato il cestino, come un ricamo vicino al vino, la casa era una soffitta vecchia, gli occhi della donna  quelli di chi aspetta e aspetta e aspetta l'è rimasta l'arte di chi intreccia.
Parole giovani e verdi orizzontali, antiche e gialle verticali, veniva bene il suo cestino, sembrava il ventre di chi aspetta un bambino. 
Ogni giorno era un po' più tondo, dentro tante storie da raccontare il mondo. 
Poi imparò a far le righe oblique, scoprendo che non solo si baciano le rime delle parole di fieno.
Possono anche litigare, qualche riga più breve e un'altra normale. 
Eran d'altronde parole di fieno, seccavano presto, affollavan soffitte, lasciavan fragranze ma la loro meta era il camino, se lo sentivano le parole di fieno, mentre alla fine l'autunno bussava, il freddo portava, le foglie staccava e per paura del ghiaccio imminente ancora le rime baciava.
E le mani intrecciavano in fretta lo strame, toglievan la "s", infittivan le trame. Il cestino era ormai un Labirinto, c'era Teseo tra covoni di fieno, parole stracciate, attese murate tra fili appassiti. Teseo che cercava il filo d'Arianna, tra fili di fieno sottili sottili, nascosto l'aveva colei che tesseva, era Penelope e non lo sapeva.
E la soffitta era una grotta, tetto di pietra, nessuna volta. 
E il comignolo una cometa e il campo arato tutta una strada verso la meta.
Lei dal vestito perdeva parole, miti ed eroi, così ingannava l'inverno che, con un anello di neve, la chiedeva in sposa tutte le sere.
Voleva il camino, l'inverno crudele, che gli sciogliesse tutte le pene.
Voleva lo strame lì dentro a bruciare, che fosse fuoco, ardesse le strade.
Ma quel cestino com'era bello, più lo guardava meno accettava, la neve ghiacciava delle dita il contorno, sarebbe bastato di ghiaccio un altro giorno e mai più avrebbe tessuto le parole sul fieno, mai più avrebbe atteso.
Ma appena in tempo portarono i buoi, l'alito caldo il freddo sciolse, dal cestino liberò gli eroi, erano alti come una mano, l'anello di neve tolsero piano.
Dalla veste calaron di fieno parole, dissero "bambino", lei sul cestino lo pose.
Ogni parola aveva inventato, ma "bambino", si accorse, per tutto quel tempo, mai lo aveva pensato.



domenica 16 novembre 2014

Così ce ne stiamo, con le non-mani nelle mani

E adesso servirebbe una notte, tirarla giù come un sipario, però blu. 
Tirarla giù dal soffitto, specie se fuori c'è il sole, specie se fuori ci sono le cose che pensano noi e noi non siamo grandi abbastanza per allungare la mano e riprenderci un po' di quelle cose che ci pensano. 
E così stanno sopra i comignoli e le strade e diventano una fumosa bugiarda verità. 


Perciò ci vorrebbe una notte qualsiasi, di quelle che si adagiano sulle fumose bugiarde verità, riscoprono la bellezza del buio sui tetti, anche senza luna, anche senza stelle.
 Anche con un cielo banale chiuso fra palazzi grigi, però una notte che sia una notte, silenziosa, lunga, musicale. 
Con quelle musiche accennate appena, tanto allegre, tanto note da sospirare un'eternità malinconica, ma sì, un suono di tip-tap, una sagoma con un cilindro in testa, un fiore all'occhiello, un quadretto chiuso di tutte le notti che siano notti, locali illuminati e grandi lampadari a gocce, aragoste, caviale, champagne. 
E un suono di tip-tap, sì, misto a qualche gioco di prestigio, le dame coi lunghi abiti, i mignoli allacciati sotto i tavoli, le occhiate d'intesa, le piccole e le grandi malizie.
 I lampioni, ecco, i lampioni e le rose illuminate sotto i lampioni, le rose rosse regalate sotto i lampioni, che gli spettatori possano vedere, gli spettatori che sono gatti sui tetti, con le code allacciate come negli Aristogatti. 
I finali lieti e i taxi che riportano a casa, le borsette con le pailette, risate di donne all'angolo della strada. Una grande fontana luminosa. Un tavolo da gioco, rumore di carte, disperazioni da poker. 
E poi, e poi calici alzati, sbandamenti alcolici, una notte che non si ricorderà, persone sconosciute che si toccano e non servirà niente al domani essersi toccati. 
Corpi, tanti corpi, tutti in scena. 
Un mondo prima della disperazione della musica rock. Al massimo un notturno, un adagio, un chiaro di luna. 
Note sugli spartiti e corpi in vetrina.
E se vuoi, se vuoi ancor prima: cavalli e carrozze, vialetti lastricati, tu che diventa "voi", poeti alla finestra.
Tutte le notti del mondo, tempi appaiati. Malati d'amore e veleni e Romei che non dovrebbero essere Romei. 
Streghe bruciate sui roghi, matti portati dall'esorcista. 
O un lungo salone con le tende di velluto amaranto.
Notte.

E noi. Noi per favore, fuori. Sui tetti. Coi gatti con le code intrecciate. 
A intrecciarci i non-pensieri, la non-musica, i non-corpi. Noi che penzoliamo giù il sipario blu, che forse siamo solo le nostre ombre, non-me e non-te e a sporgersi meglio ci vedremmo, con la lunga veste io, sagoma con cilindro tu. 
Ma no, non ci guardiamo, non-me e non-te, così ce ne stiamo, con le non-mani nelle mani. 
E senza brindisi diamo alla luce la nostra non-notte.
Piccola felicità non-alcolica trovarsi qui a stendere un sipario blu sul mondo, con te. 
Verresti?



                         M.Chagall

giovedì 6 novembre 2014

Mentre il cielo non è affatto azzurro e lui dice "pioggia"

I due uomini lavorano di spalle, chini su bacinelle rettangolari di metallo.
Il soffitto è a volte, di piccole piastrelle azzurre, sembra un cielo troppo vicino alla testa.
La stanza è vuota, solo una finestra a mezza luna e, sotto, una valle persa, senza memoria.
Lavorano di spalle e impastano una qualche materia organica, grigia come la fuliggine e, in mezzo, cercano l'oro.
Quello di sinistra impasta meccanicamente, lo sguardo assente. Non vorrebbe trovarsi lì, anche se lì è un luogo di silenzio, scosso appena dallo sciabordare dell'acqua resa viscosa dalle mani nella bacinella.
Quello di destra, invece, fissa il lavoro delle sue mani, gli tremano le labbra appena, non ha fretta sui polpastrelli, è esattamente dove vorrebbe essere.
Quello di sinistra si lava via il sudore dalla fronte. Quelli di destra, invece, ha un saio candido come la neve. Nulla sgorga dal suo corpo.
Versa a tratti l'acqua nella bacinella e accarezza ogni cosa, con la lentezza di un gesto d'amore.
E in quella lentezza si accorge - non poteva non accorgersene - che la sua materia assorbe l'acqua, avidamente. E allora si china e scruta in essa il contorno di due labbra assetate.
E scuote il compagno di sinistra e glielo dice a gran voce: "non c'è oro, però beve, guarda!"
Ma il compagno di sinistra non lo segue, fa una smorfia appena.
Non importa, lui versa ancora acqua sulle labbra assetate, sono labbra di una donna, imprigionata dentro il fango.
Non c'è oro, c'è una donna, grida allora e si sporge dalla stanza e cerca qualcuno che lo aiuti a trarla fuori dalla cera. 
Non può più muovere le mani nella materia, adesso che sa, ogni gesto sarebbe grossolano, la potrebbe ferire.
Può solo aspettare che si disseti e che l'acqua le rinvigorisca i lineamenti, che emergano come una maschera dalla creta.
Quello di sinistra non vede e gli mette fretta. Deve andare a casa, deve chiudere il laboratorio.
Ma è quello di destra che non lo sente, adesso, mentre si china sulle labbra sconosciute e soffia e scioglie la sua saliva sul fango, per imprimere qualcosa di umano su quel volto ancora informe. Respiri, saliva, acqua. Acqua, respiri, saliva.
Non è proprio un bacio, è solo alchimia. 
Anche se non verrà fuori l'oro.
Acqua, respiri, saliva. 
La forma vibra, si distacca appena dal suo stampo.
È nata prima la bocca degli occhi, pensa, e questo gli sembra strano, è come dire che nasce prima la gioia del pianto.
Ma poi no, è proprio così che deve accadere, prima quella scintilla del bacio che non è un bacio, nascono tutti così, da un brivido di gioia, sembra poco ma è abbastanza per trarre fuori dalla cera il viso che prima non c'era. E poi gli occhi, quando smettono di baciare le labbra, che servono per cercare con lo sguardo le labbra perdute, che hanno disegnato le forme quando la gola non emetteva fiato, era un polipo senz'aria in una bacinella d'avorio.
E così adesso ci sono, gli occhi, grandi, curvilinei, potrebbe averli disegnati lui, pensa, se non sapesse che non ha disegnato nulla, che ha solo baciato qualche centimetro di fango perché è stato troppo lento, troppo attento, meticoloso nel perdersi come non lo è quello di sinistra. Gli occhi si muovono, a destra e poi a sinistra, fissano il cielo di piastrelle. Non credere, le dice, non credere che sia tutto lì il mondo, adesso. Ma chissà se capisce, chissà se sente. E si avvicina alle orecchie sepolte nel fango, ci saranno da qualche parte, e glielo dice da più vicino, dà un nome a tutte le cose, le insegna ad ascoltare prima di parlare. E le orecchie scavano il fango, quanto coraggio, sembran conchiglie, come le conchiglie echeggiano qualcosa, ora è lui che si riascolta: "non credere, non credere che sia tutto lì il mondo, adesso". 
Sembrano quasi parole vere, scritte sulla creta, invece è solo memoria, la prima che avrà la donna che viene dal fango.
Ora c'è un viso, tutto intero, il fango cambia colore, è quasi bianco, è quasi asciutto, solo parole, lacrime e saliva, hai bisogno di forza per tirarti su e uscire dallo stampo, vorrebbe dirle. Ma ha paura. E si sposta.
E lei lo perde, via dal suo orizzonte, perciò si alza, da sola, è uno sforzo sovrumano lavarsi via migliaia di anni di fango, di radici melmose, di fiumi gelati e sterpaglie; di pesci lividi di blu, alghe verdastre, scheletri portati via dalla corrente; tesori sepolti e mai più ritrovati.
Adesso è lei che vorrebbe dirgli quante cose sono nella sua memoria, e poi un "fermati, fermati", ma non sa parlare la memoria del fango e i nomi lui li ha pronunciati troppo in fretta. E così può solo alzarsi, quanta fatica, e usare gli occhi al posto della bocca muta, inseguirlo con le gambe ancora pesanti, per il sonno, per il peso del fango, per l'incertezza del primo passo, e far dire agli occhi e alle gambe "fermati, fermati!". E magari inciampare, giù per la scala di pietra e farsi male e usare ancora la riserva di lacrime, e poi la gioia di trovarlo, su una collina con un solo albero, la prima immagine dei suoi occhi, la prima saliva della sua bocca, mentre il cielo non è affatto azzurro e scende altra acqua e lui dice "pioggia".

                          P.Delvaux

lunedì 3 novembre 2014

Scalarti la barba e poi migrare


Me lo prendo sempre un po' di tempo per scrivere a te.

Prima di sapere se i pensieri lasceranno la carta e ti verranno a bussare alla porta.

Lo faccio così, lo faccio per me. 

Ognuno allucina un po' e, quando non ci sei, io allucino te.

Mi distendo sul tuo mento, sulle asperità della barba quando non fai in tempo a tagliarla. Lì, non lo sai, c'è tutto lo spazio del mondo. E mi basta. 

Sembra un po' una barca, quel solco curvilineo tra le labbra e la punta del mento. O un'amaca. O una crisalide. 

Comunque sia, un posto dove sto tutta intera, e mi stiracchio, e chiudo gli occhi, e tendo i polpastrelli all'indietro, caso mai per magia ti arrivassi fino all'iride o alla pupilla. E lì sapessi, d'improvviso, la tenerezza di essere guardata in silenzio, quando abbassi gli occhi e osservi e schiudi le labbra appena, incerto se dire o non dire.

Ma non vorrei che dicessi. 

Mi piacerebbe solo farti il solletico alle ciglia e poi addormentarmi nel solco del mento e sapere che mi guardi. 
E taci. E forse, non pensi neanche.

Vorrei trovarti in un attimo senza pensieri, chissà se sei mai così inerme, coi pensieri supini come pollini sui fiori gialli, in balia del vento, e vederli migrare via in un cielo azzurro, così azzurro da sembrar finto.

Allora ti scalerei il volto, tenendomi saldamente alla pelle, usando i peli della barba come pioli di una scala, i capelli come funi di ancoraggio (ma son talmente piccola che non ti farei male, te lo prometto), e verrei a guardarti come sei coi pensieri migrati. 

Coi pensieri migrati -lo vedi?- mi faresti poi strada, tireresti in alto le funi corrugando la fronte, mi offriresti un piano d'appoggio allargando il sorriso e la tua indulgenza scaverebbe quella fossetta in mezzo alle guance, che sarebbe proprio il piolo mancante, il trampolino per il setto nasale, quello scivolo al contrario per i tuoi occhi, che allora sarebbero vuoti abbastanza per essermi specchio.

E mi specchieresti l'ostinato amore per me attraverso l'amore per te. 
Mi specchieresti le dita che scrivono di nuovo, i pensieri che si pensano, le strade che s'instradano, la fatica di scalare che non si affatica, l'attesa che attende me mentre ti attendo. 
Mi specchieresti la quiete sul picco e dalle tue ghiandole lacrimali sgorgherebbero i rivi che sui picchi si trovano sempre, le ciglia sarebbero l'erba in bianco e nero di questa cartolina sbiadita e potrei non aver bisogno del tuo iride azzurro per pensare al cielo, non succede così in un quadro in bianco e nero. 

Potresti avere allora gli occhi di tutti, il naso di tutti, i capelli di tutti. Potresti essere allora un picco fra i tanti e, con fiducia, potrei iniziare a guardare l'orizzonte e cercare altri picchi, altri occhi, altri specchi. 

Potrebbe darsi che a questo punto scenda la neve, la neve che monda e che copre ancora un po', ammansisce le valli e i loro abissi, quieta i colori, sorvola le emozioni. 
La neve sarebbe la nuvola dei tuoi pensieri evaporati che fa ritorno, trascorsa tutta la stagione delle migrazioni. 
E tu non la riconosceresti, e io non la riconoscerei. Ché tanto è cambiata, per me, per te. 

Ma sarebbe quasi una visione, mentre io scalatore, tu montagna, ci scopriremmo intercambiabili tra noi e con tutto il resto al di là di noi: picchi, valli, tetti, abissi; erba, salite, discese; cielo e terra; stagioni; mesi; anni. 

E ci piacebbe scoprire che il nostro amore serviva all'amore e non al nostro amore.
Che il nostro ascendere serviva all'ascesa e non alla nostra ascesa.
Che il nostro incontro serviva a incontrare chi non s'incontrava e non a incontrare noi.

Ci piacebbe scoprire queste cose e io ti abbraccerei gli occhi come un grande petto e loro respirerebbero un grande respiro e mi metterebbero in volo. 

E io migrerei insieme ai tuoi pensieri migranti, come l'aquila in mezzo alla neve.

Già, scalarti la barba e poi... e poi migrare.


domenica 2 novembre 2014

Nel giorno dei morti

Nel giorno dei morti
ciascuno dovrebbe
muovere il passo
su un passo impresso
che lasciò nell'erba un solco
e la penna passare
s'un inchiostro asciutto
sciogliere la lingua
sulla lingua muta
gli occhi aprire 
sugli occhi chiusi
stendere i ricordi
piegati nei cassetti 
corrugati sulle fronti 
riattaccare le foglie
ai rami spogli
e di calce riempire
i muri scrostati.

E poi ancora
telefonare ai telefoni spenti
e alle finestre affacciarsi
piene di spine di edere e rovi
rivedere gli orizzonti
orfani di sguardi
pensare i pensieri dismessi
alle asole ricucire i bottoni
e tra i crisantemi soffiare
la paura di morire
e morire la morte 
già vissuta.

Nel giorno dei morti
ciascuno dovrebbe 
moltiplicare i respiri
coltivare i giardini
rinverdire gli amori
e nella vita impegnarsi 
come fiume ostinato
sotto vie brumose
sotto tempi di ghiaccio.

                         M.Chagall

sabato 1 novembre 2014

Una lettera piena di errori

E così non so adesso 
se tu sei quello che chiamo
coi nomi, che incido coi segni
quelli che decisero
-superata Babilonia-
di dare alle cose che appaiono
e che frettolosi attaccarono
-frivoli stendardi-
a quelle che stanno
dietro l'apparizione.

Se sei quello che scrivo 
facendo combaciare le lettere
con lettere, i paragrafi
coi paragrafi, i suoni
coi suoni.

O se sei quello che taccio
la forma impressa dalle scarpe
lo spazio tra il pollice e l'indice
tra un occhio e l'altro 
là dove non sono parole 
dove costruisco i piccoli anfratti
in cui ti riposo
la distanza tra il frutto 
che sto per mordere 
e le labbra che lo morderanno
la corda tesa tra un salto e l'altro
il vuoto tra il foglio e la penna.

Non so ma sento 
che ora non ti chiamo
non ti suono in rintocchi 
e neppure faccio con gli occhi 
ciò che fa il vasaio con la creta.
Ti voglio senza forma
tutto intorno 
e non questo e non quello
non cosa che già altri nominarono
o neologismo sulle mie parole.

Ché tu sia prima la negazione
l'arco tra felicità e mancanza:
voglio guardarti coi polpastrelli
ascoltarti cogli occhi
parlarti con le orecchie 
e coi sensi disordinati
scriverti una lettera piena di errori


                  Ernesto Morales