mercoledì 13 agosto 2014

La morte come una casa di bambole

Prendeva un pezzo di sé alla volta, lo estraeva dal corpo, come un cencio vecchio. Come un cencio vecchio lo appendeva a un filo del bucato, lasciava che il vento gli soffiasse contro per un po’, che lo gonfiasse, plasmandogli addosso nuove forme.
Rideva quando accadeva.
Poi lo ritirava dal bucato, senza averlo lavato - era solo un’esposizione, solo un compiacimento - e, così com’era, senza tanti cerimoniali, senza neanche un fiore, lo portava a morire.
In realtà i cerimoniali c’erano. 
Sì, lei era una che visitava cimiteri. Per lavoro, s'intende. 
Ma era lì che portava i suoi cenci. Seppelliva in continuo e neanche lo sapeva.
Guardava nella morte e, dopo averlo fatto, ogni volta usciva più leggera.

CIMITERO DI EKLUTNA, Alaska.
Il cimitero è nascosto nella foresta.
Non sembra un cimitero, ma una città di Satiri e Fate.
Chissà com’è con la neve, se fa lo stesso effetto, pensava e intanto continuava a camminare su un tappeto di muschio.
Le tombe, qui, sono case di bambole tutte accatastate, ognuna con il suo colore, la sua forma, i ricordi incastonati dentro che premono per uscire.
Non sceglie una casa rosa: troppa femminilità la fa sentire fragile. 
Odia sentirsi vulnerabile. Infatti è qui per seppellire ogni traccia di vulnerabilità.
Via le donne e via i bambini.
Questo è un cimitero per donne e per bambini.
Guardali, i ninnoli dell’infanzia, attaccati alle case di bambola: tentennano la musica sottile della morte per tutto il bosco di conifere. Troppo sottile, come un lamento non ascoltato. Non si lasciano in giro queste cose: ninnoli, bambole con gli occhi sbarrati, comignoli ricoperti di fiori, biglietti scritti a mano. Non si lascia in giro la proprio calligrafia incerta, bisognosa d’amore.
La morte è silenzio, pensa, mentre la musica dei ninnoli si fa più assordante.
Stride, tutto intorno.
Questa gente non vuole morire. Continua a chiedere attenzione, come fanno i bambini, come fanno le donne.
Così la sua tomba, oggi, sarà una casa azzurra, color carta da zucchero, con le righe bianche, una caramella a forma di ancora attaccata al comignolo.
Estrae da sé un po’ di dolcezza e la stende sul tetto della casa.
La sua dolcezza sembra una medusa sul bagnasciuga: lasciata lì, così, si asciuga a poco a poco, rimane solo lo scheletro.
La sua dolcezza, oggi, si chiama Henry Marcel, chissà qual è il nome, chissà quale il cognome: 1932-1943.
Undici anni sono giusto il tempo che ci si può permettere per la dolcezza, dopo è solo un boomerang, non bisognerebbe mai essere troppo dolci o darlo a vedere, pensa, se ne approfittano subito.
È quella l’età giusta per seppellire le caramelle a forma di ancora. 
Non si ferma mai nessuno, quindi è bene non ancorarsi a propria volta.
Henry Marcel.
Fa mente locale e si cerca.
Come sei finito qua, Henry Marcel?
Soffia contro il bucato non lavato, il vento.
Soffia tra i ninnoli e tra gli alberi d’argento. Scuote tutte le vite prigioniere, i confini tra le persone. Ma che cosa assurda trincerarsi nella propria identità anche da morti, pensa. Almeno da morti, bisognerebbe concedersi il lusso di stare tutti insieme, confondersi un po’ l’uno nell’altro, abolire i sessi, i nomi, i tempi. 
Siamo tutti Henry Marcel, nato a Eklutna, Alaska, ottantadue anni fa, morto undici anni dopo. I capelli una zazzera bionda. Padre canadese, morto in un crepaccio quando Henry Marcel ha cinque anni. Madre americana, vedova che cura le tombe di famiglia in mezzo alla neve, mentre ama un indigeno che suona la cetra e le soffia contro il calore in un bicchiere di vodka. 
Ci danno troppo dentro con l’alcool: lui non ha mai avuto un dispiacere, lei ne ha avuti troppi. 
Hanno freddo. Fa sempre freddo in Alaska, soprattutto ottantadue anni fa quando ancora il riscaldamento globale non faceva sciogliere così in fretta i ghiacciai.
 Non fa bene al loro fegato bere, ma nella loro casa di legno cura le ferite, così lui non pensa ai suoi non-dispiaceri e lei non pensa a Henry Marcel che si mangia le viole di luglio. 
Non si mangiano i fiori, Henry Marcel, è una cosa stupida. 
Ma tant’è. 
Le cose dolci sono anche amare, gli piace questo contrasto. Magari non tutti sanno quanto può essere amara una viola del pensiero. Bisogna provarla, una volta o l’altra. E poi, Henry Marcel è arrabbiato con la vita, con i crepacci, con gli indigeni. Con questo clima ostile. Vorrebbe andare in California, da grande, e coltivare la vite: l’uva non t’inganna, non è come la viola del pensiero. Dolce sembra e dolce è. Non è il ventre di una madre ubriaca che porta le viole del pensiero sulle tombe a forma di casa. 
Quella di suo padre è una casa austera, chissà perché l’hanno fatta così grigia. Bisognerebbe mettere sempre un colore nei ricordi, ci pensa già il tempo a sbiadire tutto. 
Henry Marcel morirebbe per un po’ di dolcezza, di quella buona come l’uva. 
Mangia ogni cosa, Henry Marcel. Già il nome ti dice tutto, sembra fatto per mangiare di nascosto, nei giardini appena sghiacciati. Dura poco l’estate, qui.
Henry Marcel muore di dolcezza, dopo troppe dozzine di bacche velenose spuntate al centro di un fiore amaranto.
Dura poco l’estate, qui.

Il vento soffia sui panni non lavati.
Si può piangere per il proprio Henry Marcel, piantare un cespuglio di fiori velenosi sulla sua casa abbandonata.
Si asciuga gli occhi, questo vento è insopportabile, suona tutto, suona troppo, persino il silenzio. 
Prende qualche appunto sul taccuino. Deve scrivere la sua guida sui cimiteri del mondo, è pagata per questo, per guardare dentro la morte.
S’inciampa nel muschio. 
Ora deve volare.

FLORIDA, CIMITERO DI KEY WEST

Si muore anche dove fa caldo, clima tropicale.
Dove la bellezza è più allegra, meno immobile.
Dove partono gli Shuttle per la Luna.
Qui è tutto movimento, frenesia: l’oceano è un riverbero della vita, si trasmette dappertutto. Alle strade coi loro lumi, alle spiagge bianchissime che diventano paludi, rettili, uccelli, insetti, fruscii dietro le mangrovie. Si muove, si muove tutto. 
Sembra proprio che non ci sia tempo per la morte.
Se la morte è un altrove, qui anche l’altrove rimane collegato con la terra: come le Keys, le isole che non possono stare da sole. 
Avranno fatto uno sforzo immane per staccarsi dal continente, pensa. 
Non è facile staccarsi da un continente, specie se così grande. Ci vuole molta forza di volontà.
Se le immagina in movimento, contro tutto l’oceano. Le ferite dell’oceano gliele curava l’acqua cristallina e calda del Golfo del Messico.
Quel calore dava loro la forza per continuare la separazione.
La separazione, in fondo, è sempre l’unione con qualcosa d’altro.
Diventi stoico per amore. Ti fai venire la schiena una superficie ruvida, schernita dall’oceano. Sempre la stessa storia: Adamo ed Eva; Cronos e Zeus. 
E quindi le Keys andavano per la loro strada.
Non moriva nessuno mentre andavano, ne era sicura.
Non avevano tempo per morire. L’amore non ammette relitti, non li vede. 
Al massimo perdevano qualche anfratto, qualche masso, qualche albero. Ma erano isole pirata, con le vele spiegate salutavano la Florida a pieni polmoni.
Qui la morte è cominciata quando l’uomo ha riacciuffato le Keys, ha portato le pietre e ha fatto i ponti per non lasciarle scappar via.
Il continente si è mangiato il sogno dell’isola, ha riportato la storia sulla terra in viaggio che non era di nessuno. Le ha detto: “Sei mia, non sei del Messico, non sei di Cuba. Non sei del mare, del golfo caldo, della corrente.”
L’ha attaccata con 7 miglia di ponti sospesi, l’ha resa ancora penisola della penisola, sogno abortito di fuga.
E così oggi c’è il cimitero di Key West: la morte sembra capitata una volta per tutte, tra zanzare e pappagalli variopinti ed è un blocco di marmo bianco, diviso tra migliaia di morti, ombreggiato appena da palme consunte dall’arsura, in quel silenzio cadenzato dalla voce dei grilli e dal rumore che fanno le scarpe sui terreni troppo aridi.
Il primo cimitero lo ha distrutto l’uragano, si legge all’ingresso.
Non è un caso, pensa.
Ci si arrabbia se ti riportano indietro, proprio quando eri già un passo avanti.
Ci provi ancora un po’ a non morire.
E, quando ti arrendi, inizi a catalogare le tue morti e a dividere, come succede qui: una sezione per gli ebrei, una per i cattolici, una per i martiri di Cuba, una per i ricchi e una per i poveri.
È un modo per tenere la testa fuori dalla morte, adesa alla vita. O meglio, alla lotta: alla guerra tra chi crede a Cristo e a chi crede che debba ancora venire; tra l’America e la Spagna; tra chi ha troppo e chi troppo poco.
Così, qua dentro, in questo silenzio ovattato, spento dalla caduta di una noce di cocco, tutto intorno si fa una guerra.
Un alito di vento.
Lei stende il solito bucato non lavato.
È quella lapide spaccata in due dal tempo. Nessuna dolcezza, adesso.
Quella fenditura è qualcosa di definitivo. Non si guarisce da una ferita così.

I TOLD YOU I WAS SICK 
Etta Ardy, 1926-1958

La pietra spaccata dice così e dentro c’è ancora un rimprovero, diviso anche quello.
A chi lo hai detto, Etta, che eri malata?
Lui non ti ha salvata. Ma, in fondo, non te lo aveva mai promesso. Gli piacevi così: malata.
Malata mentre facevi la guerra fuori e, in realtà, ti spaccavi dentro. Mentre facevi la guerra per le Keys, per la libertà e anche per lui.
Odiavi quest’isola collegata alla terra. Dicevi che andava bene al massimo per qualche stupido turista.
“Siamo l’estremo sud d’America”, dicevi sempre, pensando che avresti potuto essere l’estremo nord di qualcos’altro, di qualcun altro.
Il nord che è come il cielo, mentre il sud è sempre e solo terra. Terra calda, faticosa, pelle bruciata, violata, volgare. 
“Qui non ci sono le paludi, se fossimo liberi questo sarebbe solo un paradiso in mezzo al mare”
Se fossimo liberi, se fossimo liberi... Quante volte glielo hai detto?
“Ma noi non siamo liberi, se non per qualche attimo”
Qualche attimo notturno in cui il ponte scompare, in cui l’isola è di nuovo isola e se ne va, con noi sopra, silenziosa come una zattera scarlatta sull’acqua piatta, limpida, cristallina.
L’amore è sempre limpido, cristallino, la sua acqua è sempre piatta.
Sono i ponti che rovinano tutto, anche il loro amore. Perché poi lui torna nella penisola.
Etta, Etta, perché non smetti di sognare?
Rimboccati le maniche, coltiva i campi, hai la pelle sporca, guardati allo specchio. E non basta chiudere gli occhi per essere il suo nord.
I TOLD YOU I WAS SICK
Ma lui era sulla penisola, non sentiva niente.
Etta, Etta!
Perché ti fai chiamare Etta? Ricongiungiti al tuo nome, Elisabetta. Alle cose che valgono. Guarisci.
No, perché a lui piaci malata. O forse perché non ci crede: le malattie dell'anima non le vede nessuno, finché non si gettano sul corpo all'improvviso, come vampiri.
Così sia.

Etta Ardy fa la guerra ancora adesso.
La seppellisce con un singulto. 
Seppellisce se stessa con un singulto: a trent'anni o smetti di fare la guerra o la fai per sempre. 
Piove. Come piove.
La pioggia alza la polvere arsa, zittisce i grilli e fa da eco all’isola che è stata riacciuffata e che ora ammonisce piano: “I told you I was sick”.



NEW YORK, TANGENZIALE PER L’AEROPORTO JFK, UN CIMITERO

Un cimitero.
Qualsiasi.
Piccole lapidi grigie su un prato sconfinato.
Dietro qualche ciminiera verdognola che asfissia l’atmosfera.
Davanti una strada a sei corsie, completamente bloccata da un filare variopinto di macchine che suonano il clacson. 
Cosa lo suonano a fare? Ma sì, bisogna pur fingere di poter cambiare le cose, anche quando non puoi farci niente.
Sopra, nel cielo grigio, un viavai di aerei, sospesi tra essere e non-essere.
È solo un luogo di passaggio, niente più.
Le case, intorno, non sembrano fatte per restare. Sembrano casette degli attrezzi un poco allargate. Rispetto al prototipo della casa americana, sono solo un modello sbiadito senza colore, una felicità senza garanzia, perdente in partenza. Anche i loro prati antistanti sono sbiaditi.
Qualcuno deve aver dimenticato di colorare questo pezzo di mondo, che si bea solo dei colori che vengono da altri mondi: quelli delle vetture in transito, anonime, frettolose, nervose.
E, anche chi muore, qui, non deve morire per davvero e per sempre.
È pur sempre qualcosa di solenne, di meritevole, di permanente, la morte.
Quindi qui si fanno solo le prove, come a teatro quando hai poco tempo: così, un po’ di fretta, senza scenografia, senza sfumature emozionali. Solo per vedere se ricordi il copione.
Ne risulta una morte asettica. Tutto è automatico. 
Come questo funerale: i vestiti, i volti, le lacrime, il prete, tutto automatico.
Sei entrato e così sei uscito.
Ci sarà un aereo che ti porterà lontano, vedrai.

Una folata di vento.
Seppellisce la sua parte anonima, oggi.
Non hai tanto sofferto, Eddie.
Sente solo questo nome, mentre si vede sprofondare nella buca. Ricoprirlo è cosa veloce. I becchini vogliono andare a bere, se ne infischiano dei tuoi brutti fiori, Eddie.
Quanti anni hai? Non troppi, non troppo pochi. 
La gente come te muore d’infarto verso i 50.
Colpa del burro di arachidi, della vita sedentaria, dello smog e delle metropolitane.
Una morte inattesa, tanto una brava persona.
Te lo meriti, in fondo, caro Eddie.
Ti meriti questo cimitero sulla collina artificiale. Hai una posizione privilegiata: di qua si vede fino alla pista del JFK.
Si vedono gli aerei.
Tu avevi paura di volare, non ci sei mai salito sull’aereo. Dicevi che preferivi morire dove c’era una possibilità di fuga. Ma tu eri grasso, Eddie, fuori allenamento. Saresti morto anche altrove. Anche dentro la tua adorata metropolitana.
Non si salvano quelli come te.
Ora che ti guardo, tra strati e strati di terra, vedo tua madre: avete lo stesso viso, bianco, paffuto, troppo semplice.
Non so perché finiscono qui quelli come te. Eri davvero una brava persona, Eddie, e al mondo non piacciono le brave persone, non le trova affascinanti. 
Tu credevi in Gesù perchè - dicevi - era una brava persona.
Ma Gesù non era una brava persona. Era conturbante, Eddie, insinuava i dubbi, camminava sulle acque, resuscitava i morti (quanto devi essere anticonformista per fare una cosa del genere?), andava nel deserto a parlare col Diavolo. Ci andava, accidenti. Non era affatto una brava persona. Le brave persone sono quelle come te, non si ricordano, passano e basta.
Che la tua morte sia solo un passaggio, meno serio della tua vita, Eddie.
E prendilo quell’aereo.
AMEN

Dà un calcio a una zolla di terra che hanno lasciato fuori posto.
Questo lenzuolo del suo bucato era rimasto così pulito, immacolato.
Devi ancora nascere, Eddie, ti ci è voluta una vita intera.
Lascia un bacio su quelle labbra che non hanno mai baciato. Anche un bacio, certe volte, è un aereo.


ITALIA, un cimitero di campagna

C’è nel sentore di ogni poesia un cimitero di campagna.
C’è, se pensi a una morte dolce, stemperata nella vita.
Non climi né posti estremi.
Una dolce collina e, intorno, i vigneti.
Qualche papavero rosso in primavera, una manciata di neve d’inverno. D’estate le lucertole, un treno che lambisce la campagna con uno sbuffo appena accennato. D’autunno, le foglie di un albero secolare.
Fuori, una vecchia edicola che vende anche le ciabatte, fa le ricariche del cellulare e ti gioca la schedina.
La campagna è il luogo di quelli che tornano.
Origine, centro. La campagna è feconda, qui vicino passa un fiume azzurro carezzato dai salici.
Le tombe accatastano storie familiari.
I coniugi si guardano negli occhi dalle rispettive fotografie.
Si saranno amati, si saranno odiati? Poco importa, questo è stato.
Qui ritorna anche lei, dopo aver scritto il libro, dopo esser morta al caldo, al freddo, di dolcezza, di passione, di niente.
E quante parti ancora avrebbe avuto da seppellire. 
Ma aveva solo voglia di ritornare e di vedere quanta morte riusciva a contenere e, al contempo, esser viva.
Oh sì, come si sente vecchia, anche se non ha rughe. Vecchia ma leggera, i contrasti sopiti dentro un vaso, all’interno un girasole. Lo porta a tutti i suoi morti. 
Continuerà a girare, anche dopo la morte. 
L’anima è un girasole capovolto, guarda verso il centro della terra, dove il sole è un bambino che deve ancora nascere.