venerdì 27 giugno 2014

Les Herbes Folles - Recensione

“Les herbes folles” (Alain Resnais, 2004)

"Se si sceglie il simbolo è come se si spalancasse una porta che conduce in una nuova stanza di cui prima non si sospettava neanche l'esistenza. Se invece non si accoglie il simbolo è come se si passasse davanti a quella porta senza badarci, e poiché quella era l'unica porta che conduceva alle stanze interne, allora bisogna ritornare sulla strada e nella mera esteriorità."Jung, C., G., Liber secundus, p. 331


La traduzione, “Gli amori folli”, è come ammettere di non aver compreso questo film, nel quale non si celebrano amori folli, ma si sussurra il pericolo e la seduzione di spegnere la falciatrice sui propri campi interni, sino a farsi divorare da loro: le erbe incolte, le erbe folli che, alla fine, diventano una lapide morbida e quasi accogliente, come un ventre materno.

In quest’erba rimangono sepolti - e lo si intuisce già dal principio, contaminato d’inquietudine - Marguerite e Georges. Ma non solo loro.
La pellicola tratteggia e fa muovere altri personaggi, simili a burattini, un concerto di doppi e simboli che non riescono a svolgere la loro funzione separante e che, alla fine, vengono risucchiati, senza neanche più chiamarli in causa, nello stesso manto erbaceo.

Cosa succede, dunque, o meglio: cosa non succede in questa pellicola?

Marguerite è un chirurgo dentista. La conosciamo mentre va a comprarsi un paio di scarpe in una costosa boutique e, per farsi restituire quel brivido di piacere della mano della commessa quando le sfila la scarpa, prova tutti i modelli del negozio.
La voce narrante non omette di dirci che Marguerite parla poco ed è timida, tanto timida da non riuscire neanche a gridare “al ladro!”, quando un ragazzo sui pattini le scippa via la borsa all’uscita dal negozio, lasciandola senza documenti d’identità, sola col suo paio di scarpe. 
Quando torna a casa, Marguerite tarda a sporgere la denuncia. Vuole rimanere sola col suo paio di scarpe, che sembrano alludere a una dimensione di desideri che trascende la sua vita ordinaria, il suo lavoro metodico che sublima così bene tutta l’aggressività, con le parole che non dice, che non urla? Vuole rimanere ancora un po’ insieme al ladro - o meglio, con la parte di sé che non le è stata rubata?

Questo ancora non se lo chiede lo spettatore, che ora fissa sulla pellicola un inquietante Georges Palet, un uomo sui cinquant’anni, non bello, non brutto, di cui sappiamo subito che non può mai cambiare orologio: è lo stesso da molti, innumerevoli anni. Lo lascia solo per cambiare la batteria, ne conosce tutti gli ingranaggi, quasi fosse una sorta di segnatempo interno, una forma d’eternità contro lo scorrere del tempo stesso.

Georges potrebbe essere uscito da poco da un ospedale psichiatrico, magari anche da un OPG. Il più insignificante particolare anima in lui intensi desideri di annientamento dell’altro: basta uno slip nero sotto il pantalone bianco di una passante a scatenare in lui una rabbia esplosiva. Lo sguardo, prima gelido, si fa fatuo, allucinato, scisso. Il garage dove va a riprendere la sua auto sembra essere lo scenario di un troppo prossimo, scontato, omicidio seriale. Georges potrebbe essere il solito maniaco che odia le donne e le fa fuori, nel modo più freddo e brutale. 

Invece no. Non accade nulla di reale. A partire da adesso.

I personaggi sono risucchiati completamente nella dimensione interiore dell’immaginazione, anzi, sembrano diventare essi stessi una magistrale reverie.

Georges trova per terra, a fianco della sua vettura, un portafoglio: è quello di Marguerite.
La carta d’identità di Marguerite ci restituisce di lei un’immagine scipita, poco affascinante, troppo adesa alla concretezza della vita; ma oltre alla carta d’identità, Georges trova un altro documento: la sua patente di volo. La foto su questa patente è così diversa che Georges stesso esclama: “Non può essere la stessa persona”.
Marguerite, dunque, continua a rivelarsi. L’abbiamo lasciata sola, languidamente abbandonata nella sua vasca da bagno, mentre qualcuno, impercettibilmente, a distanza, scava nel suo segreto: scopre che vuole volare.

Tentennano “le erbe folli” sotto il peso del vento.

Marguerite è andata alla polizia a riappropriarsi della sua identità ufficiale: contro i ladri, per quanto desiderati, bisogna sporgere denuncia. Bisogna rivolgersi al super-Io, che dovrebbe allearsi con i desideri razionalizzanti dell’Io. Ma l’ufficiale di polizia, in questo film, è un super-Io poco censore, che balla neanche tanto di nascosto con l’inconscio.
“Chiuda la porta, per favore!”, chiede più volte Marguerite, infastidita dal suono assordante della musica, al funzionario, emerso da un festino che si consuma nella stanza accanto e che rende così ulteriormente difficoltoso e quasi ridicolo il bisogno di denunciare il furto.

Nel frattempo Georges si lascia ossessionare dalla Marguerite aviatrice.
Sua moglie è un altro censore che non fa il censore: accoglie le fantasie deliranti del marito, le insegue e si alletta al pensiero che Georges incontri l’aviatrice. Vuole volare anche lei? O, semplicemente, è solo una presenza fantasmatica, uno specchio che riflette e amplifica un desiderio folle che, forse - nella sua paradossale, quasi angosciante passività - nemmeno esiste?
Il mondo esterno, dunque, fa da spettatore e, in modo impercettibile, lascia che l’erba folle continui a scavare il terreno.

Per Georges Marguerite è sempre esistita, è una parte di lui.
Superficialmente si potrebbe pensare che corrisponda a quella parte di lui che sa tutto di aviazione. Ma non basta.  Più profondamente, Marguerite ha in sé la stessa doppiezza di Georges, riflessa così bene dalla diversità delle foto sui documenti di identità.

Il solito poliziotto accoglie Georges quando si reca a restituire il portafoglio rosso ed è lo stesso poliziotto che, allusivamente, richiama indietro l’uomo chiedendogli se, per caso, non voglia lasciare un suo recapito per farsi ringraziare da Marguerite.

L’erba folle, dunque, non è solo dei due protagonisti. Tutti, intorno, vogliono spiare l'intimità paradossale dei due sconosciuti.

La telefonata non tarda ad arrivare ma, quando Marguerite si mostra fredda e stupita di fronte all’inattesa familiarità e alle assurde pretese di Georges di dare un seguito al loro dialogo, l’uomo alza la voce, si dispera e, per la prima di numerose altre volte, ripete a quella parte di sé: “mi hai profondamente deluso”.

Seguono i sensi di colpa, le lettere e i messaggi alla segreteria telefonica di Marguerite. Lettere e messaggi sempre più frequenti, sempre più lunghi, sempre più intimi. Cosa dica, Georges, con le sue parole, non ci è lecito saperlo. Sappiamo solo che non può fare a meno di parlare al suo fantasma Marguerite, mentre la moglie lo osserva benevola e, come lui, attende l’evoluzione delle cose.
Dall’altra parte, anche Marguerite attende qualcosa: non risponde, ma continua a leggere e ad ascoltare.

Sino a che una mattina, uscendo di casa, la donna scopre le gomme della sua auto forate. Georges le ha lasciato scritto che questo è il suo modo di fermarla.

Come di fronte al furto della borsa, Marguerite non osa immediatamente denunciare e, di fatto, non lo fa neanche a posteriori.
Il solito agente di polizia, che immediatamente ricorda la signora Marguerite e il suo stalker, viene incaricato di andare “amichevolmente” da Georges e di pregarlo di lasciarla in pace. Non denuncia perché “in fondo le dispiace”. In fondo, cioè, ammette che esiste un segreto patto, un insolito legame tra di loro. Disconosce la pericolosità dello stalker, si allea con quel lui che cerca la parte nascosta di lei.

L’agente e il suo collega, quindi, continuano implicitamente a lasciar accadere le cose. Privi di qualunque autorevolezza, di qualsiasi capacità di giudizio sulle anomalie comportamentali di Georges, ancora una volta poco alleati della loro divisa, sono solo un prolungamento della voce e dei desideri inconsci di Marguerite. Georges li guarda incredulo, poi nuovamente manifesta la sua ira irrazionale, ripetendo che Marguerite non può avergli fatto questo.

A questo punto il film disvela meglio le sue dinamiche: ciò che in Marguerite era vagamente intuibile come un’ombra inquietante diventa palese.
Georges smette di cercarla e la stalker diventa la stessa Marguerite che, in un crescendo irrazionale, chiama Georges nel cuore della notte, trovando all’altro capo della cornetta la lasciva figura della moglie, che le rivela subito di essere una parte del puzzle, una complice seducente e inattesa: “Sei Marguerite, vero?”. È la moglie a indicarle che il marito si trova al cinema e a generare l’occasione per l’incontro.

Lo spettatore aspetta sempre di scivolare da un momento all’altro nel cliché: da una storia di omicidi seriali, a un film sul fenomeno dello stalking, per arrivare a una fotografia, banale e scontata, di una perversione a tre. Ma Resnais è un maestro e non cade mai nella concretezza. 

Ci sorprende con un surreale, quasi grottesco romanticismo mentre sembra pennellare, come un Hopper in movimento, lo sguardo di Marguerite dietro la vetrata del cinema, mentre attende l’uomo che non ha mai visto e che, pure, subito riconosce. Lo insegue per le vie oscure, gli si para davanti. 
“Ma dunque lei mi ama?”, le dice Georges, che tutto sembra adesso tranne che un uomo che odia le donne. Sembra piuttosto un sognatore invecchiato, imprigionato in una tagliente dolcezza, a sua volta bisognosa d’amore.
Il “no” imbarazzato di Marguerite è il no esitante che dicono le donne quando in realtà vogliono dire sì.

I doppi, da questo momento in avanti, entrano in scena ancor più insistentemente e si moltiplicano. L’amica e collega di Marguerite assiste alla progressiva perdita di lucidità della donna che, assente ingiustificata sul lavoro nonostante decine di pazienti inferociti e col mal di denti, ritrova abbandonata e sognante su una sedia, mentre ripete: “È sconvolgente”...

Che cosa è sconvolgente?
Molte potrebbero essere le interpretazioni. Ma, forse, ciò che più sconvolge Marguerite è il ritrovare un’immagine di sé al di fuori di sé e, soprattutto, al di fuori della cronologia fattuale. Il che, alla fine, vuol dire trovarsi al di fuori dell’esistenza e della certezza implicita della morte.

Il messaggio, silenzioso, si trasmette e contamina. D’improvviso anche l’amica di Marguerite vuole Georges, così come sua moglie vuole Marguerite.
L’identità è persa, ognuno si confonde e si specchia nell’altro. Ora si può davvero cominciare a morire e, nell’indifferenziato, a vivere in eterno.
Il che, nella metafora del film, equivale a tornare a volare.

Marguerite ora opera i suoi pazienti senza anestesia, la professione non sublima più l’aggressività, che ora è libera come ogni parte più sotterranea della protagonista, della quale i pazienti, doloranti e increduli, non possono che dire: “è completamente matta”.

Così, completamente matta, Marguerite invita Georges (e ovviamente la moglie) a volare.
Il primo bacio di Georges e Marguerite è - e lo spettatore ne ha il sentore - anche l’ultimo bacio. Niente di passionale, ancora tutto grottesco: Georges è andato a far pipì e, uscendo, ha rotto la cerniera dei pantaloni. Lei lo trova sulla scala dell’edificio affacciato sulla pista di decollo: si guardano, si baciano su un sottofondo musicale da bizzarro happy ending. 
Dunque vanno a volare.
Il gioco delle simmetrie si rompe: l’amica non vuole salire. 
Si muore in tre: due più uno. Si muore quando un occhio di troppo, rompendo il legame simbiotico, coglie un particolare di troppo: la cerniera rotta dei pantaloni. 
Si muore quando l’immagine diventa carne? Quando il desiderio ideale diventa volgare? O quando, più semplicemente e, forse, più profondamente, il particolare diventa simbolo e ancora una volta eternità, indifferenziato, trascendimento della banalità?

Fatto sta che, questa volta, l’aereo cade dopo vorticosi giri acrobatici, mentre uno spettatore enfatizza: “Non è un aereo adatto per le acrobazie”. Le erbe folli ne sono appena scosse, risucchiano ogni cosa come ogni buona - e cattiva - Madre Terra.









mercoledì 11 giugno 2014

Incontri

Di tutte le cose
vorrei essere una cetra
la pelle una corteccia
secolare
portare dentro, inciso da una chiave,
ogni amore dentro ai cuori storti
che gli amanti disegnano
quando credono all'amore

Di tutte le cose
una cetra di legno
le corde steli di fiori 
lasciati appassire
tra due pagine scritte.
I fiori del lavavetri al semaforo
I fiori che non mi hai portato
I fiori di un bouquet di laurea
I fiori della mia età 
e quelli della tua
che non s'incontrano mai.

Di tutti i luoghi
s'una cetra vorrei incontrarti
che da due delle nostre mezze parole
rimbalzasse una melodia qualunque
non importa se di quelle stonate
di quelle scordate
la canzone di un matto
felice di quattro mura 
di disperazione

Vorrei incontrarti s'una cetra.
Lì sopra, su quella corteccia 
decapitata,
son certa, ti direi tutto.


Coraggio è una parola più bella
dall'antro siderale di una cetra.


M.Chagall, Lucciola