venerdì 28 febbraio 2014

Ogni tanto mi dimentico che ti amo

Ogni tanto, ma solo
ogni tanto
mi dimentico che ti amo.

Come il bucaneve
quando si sparge nel cielo
dimentico del freddo e del ghiaccio
che gli ha gelato le radici
tenendosele giovani e ingenue
ma ha sussurrato al bocciolo:
"Ora apriti e guarda
nell'aria azzurra
-tersa di resti d'inverno
che si arrampicano alle nuvole-
guarda le città incantate
-fumo di mille camini,
 esalazione di mille freddi-
le vette che si mettono a nudo
- grigie come un'offesa,
alte come una promessa-
guarda gli scintillii della neve 
-argentea-
prima di sciogliersi."

Tu come il ghiaccio
Mi tieni fuori e dentro
E sempre ti raccomandi
Di dimenticarmi che ti amo
Di ricordarmi che amo


lunedì 3 febbraio 2014

Due persone sole


E.Munch "Due persone sole"

http://www.youtube.com/watch?v=hW93CV6m-JU

Due persone sole.
Disegnale.
Le disegno nella notte.
Scontato.
Non tanto, sai? è solo una scelta di comodo.
Perché?
Perché risaltano di più, nella notte.
Solo se sono vestite di bianco.
Ancora di più se una è vestita di bianco e l’altra è vestita di scuro.
Sembrano quasi l’uno l’ombra dell’altra.
Oh, potrebbe essere proprio così.
...
Sì, nessuno dei due sa della presenza dell’altro.
Eppure sono così vicini.
Capita così ad ogni uomo e alla sua ombra.
Ad ogni uomo e alla sua donna?
No, no, ad ogni uomo e alla sua ombra.
...
Poco importa se lei è vestita di bianco e calca il cielo scuro come un palco. Poco importa se lui è una sagoma nera, quasi geometrica, e accanto a lei è solo un soldato di cera.
C’era?
Cera: solidità di ciò che c’era.
Non c’è neanche uno straccio di Luna.
Non sarebbero così sole se ci fosse la Luna.
E già, una Luna in comune è un buon modo per avviare una conversazione, soprattutto tra due persone sole.
Ma non stavi disegnando?
Il disegno è finito.
Così, senza speranza?
È che a volte mi dimentico di lasciarmi una speranza.
Scusa, permetti?
Prego, ci mancherebbe.
La speranza è qualche punto bianco sul terreno scuro.
Ma come, cos’è?
Sassi, riflessi stellari, una spolverata di neve. O forse parole che cadono dalle scarpe di quei due che non si parlano. Sono come semi in mezzo al silenzio. Si affollano, si embricano come ponti, sussultano, bussano. Alla terra nera, agli steccati silenziosi, ai passi che non lasciano impronte. Alla sua veste bianca, che si allunga appena ai piedi di lui.
Lei è un passo più avanti.
Fa questi scherzi la prospettiva.
Preferiresti vivere in un mondo piatto?
....
L’hai detto tu che lui, accanto a lei, è un soldato di cera. Combatteva così, come uno stupido guerriero notturno, di quelli che animano i sogni, le fiabe, i miti. Un Don Chisciotte tutto schierato contro la notte. Solcava con la sua spada invisibile strati e strati di oscurità. Pensava che da tutti quegli strati sarebbe emerso un contorno di luce.
Faceva come i pittori?
Come i pittori, gli scrittori, i matti. Come tutta quella gente che si affanna per lasciare una traccia.
E lui come faceva?
Lui... lui rideva. Di una risata che faceva eco nelle valli scure.
Anche tu stai ridendo.
Scusa, hai ragione, ma mi scappa da ridere. Perché questo quadro sta uscendo davvero strampalato.
Va beh, sorvoliamo... e poi?
E poi, poi cosa succede...? che a furia di fendere questa oscurità con tutto quel ridere - che poi era anche un piangere, ma quando ridi a crepapelle non lo sai più, non lo sai proprio più se sei molto felice o molto triste o nessuno dei due - i suoi occhi si sono allagati.
E così?
E così quando hai gli occhi allagati, vedi tutto appannato. E vedi un po’ meno bene i contorni e magari ne vedi di nuovi.
E così, continuo io, allora ha visto lei, proprio lì davanti. Sola come lui. Magari c’era sempre stata.
Ma per forza che c’era sempre stata. Era tutto il tripudio di colori nelle sue risate.
Sì, bianco purezza, rosso ambiguità, giallo gelosia.
Non puoi schematizzare così. Non si fa.
Ah, non si fa...
Sarebbe troppo scolastico.
Giusto. Allora, fammi pensare.

Stiamo a pensare. Siamo due persone sole. Due pezzi di ceramica nella notte scura, girati di spalle alla Luna. Che forse non c’è.
Poco importa se lui è una sagoma nera, quasi geometrica, che mentre cerca colori mi dipinge. E non è vero che sono un’essenza femminea, dalle vesti bianche imperlate di giallo, con ambigui capelli rossi.
Dice così perché ha gli occhi allagati.

È strano quando si è a tal punto soli in mezzo all’oscurità, da non poter chiedere neanche a chi ti sta un passo, un solo passo più avanti, se sei sveglio o stai sognando.
Come sei strana, tu, che sembri sgorgare dalla Luna - che non c’è -, che ti metti un passo avanti e fai l’Orfeo dei miei Inferi. Potrei dire che sento la tua cetra, fendente e silenziosa, come un filo eterno che scorre in un filatoio rotto. Ma tu non hai amore, così non cedi all’impulso di girarti. Varrebbe bene il risprofondare negli Inferi che tu ti voltassi, anche solo per un istante.

Orfeo, una donna, la Luna, una matita invisibile.
E le parole che cadono dalle scarpe. Devo sempre andare avanti, in questo quadro che avanza, tra metri e metri di profondità. Spingo lo sfondo con tutta la mia forza, testa, mani, petto. M’incuneo tra le pennellate. Lui mi spinge, mentre ancora ride. Mentre ancora nasce e poi si ritrae, spaventato. L’anima va sempre avanti, per questo la vede sempre girata di spalle.

Che forse, se ti girassi, finirebbe tutto, in un solo istante. Se ti girassi e venisse una banalissima luce. Se scoprissi che abbiamo la stessa testa, gli stessi occhi, la stessa bocca. Che siamo come due lati di un nastro di Moebius che scavano l’oscurità. Che io sono un matto e tu sei il mio camice bianco. Ma solo per un puro caso e scherzo del destino.

Ne è passato di tempo. Quante cose abbiamo fatto insieme, senza guardarci, neanche un istante. Rispondendoci muti, come due pesci dentro un acquario.

Quanto è strana la felicità. Ti allaga gli occhi. Ride forte.

Forse è ora di raccogliere le parole che sono uscite dalle scarpe.
Vorrei metterle lassù, sul cielo.

Di qua non si esce.

Almeno concediamoci uno straccio di Luna.

Un mosaico di parole bianche, con in mezzo qualche cratere.

Ci dev’essere sempre uno spazio per il silenzio.

Una voragine di tempo, affacciata sul nastro di Moebius, da cui, appesi, ci possiamo guardare.

È uscito davvero strampalato il nostro quadro