martedì 30 dicembre 2014
In nessun luogo si deposita l'amore
domenica 21 dicembre 2014
Raccoglierci il tempo come le more
Inverno
martedì 16 dicembre 2014
Presepio
E osservare -per quanto è possibile essendo così tanto supini, così tanto orizzontali e privi di prospettiva- le orde dei pastori solcare la valle, faticosamente tra palme spazzate dal vento e dal ghiaccio, vederli ingiungere come un plotone nemico, mentre invece disconoscono e dimenticano marciando il tedio meschino che -sino al momento della cometa di carta- ha avvolto il loro cuore.
E senza parole si scrive Betlemme sulla geografia della tua carta e appena intinta è la penna nel calamaio di neve e la scritta è un ricamo bianco sul cielo nero.
A te per quest’eternità appena, che ridesta però le speranze chiuse, la purezza macchiata, la corsa del primo che giunge -così sincronica a quella dell’ultimo che vuol recuperare la distanza- e si tende e si contende e si accorcia la luminosa scia e il Carro del cielo specchiato in Terra, ché Terra e Cielo sembrano ora due palmi di mani schiusi, attaccati per i polsi.
domenica 14 dicembre 2014
Nessuno - è così chiaro - non ti assomiglia nessuno
lunedì 8 dicembre 2014
Lunerîe
L'attimo prima.
Ti vedo così, sembri un soldato al fronte, corazzato. O, forse, un dio bendato che si è perso.
Fluttui in un’oscurità densa, con quella luna inquietante, tutta piena, bordi bianchi e interno nero, che ti sta appena dietro, come una cornice.
E’ così buio che non pare tu abbia i piedi appoggiati su una qualche superficie.
Tu contro la luna, un orizzonte troppo acerbo per chiedere mare, monti, colline, palazzi.
Forse è il primo orizzonte, una scenografia di teatro, tutta nera, un luogo stilizzato, con te che ci cammini sopra, una riga bianca un po' luminescente, le labbra aperte che succhiano i lasciti di luce della luna, forse un neonato alla prima poppata.
O forse un uomo che prega una donna, l'ultima donna rimasta mentre il mondo muore.
Fatto sta che ci sei tu, bianco sul fondo scuro, e la luna, piena, tonda, stranamente vicina, col suo contorno ugualmente bianco sul fondo scuro.
È l'attimo prima.
Io sono nell'attimo dopo, una sola sequenza di tempo più in là - e ti guardo.
La Luna si è impercettibilmente spostata sulla linea del cielo, è qualche minuto più avanti verso il mattino.
A mano a mano che cammina, forse perché si allontana, sembra un po’ meno piena.
E non saprei cosa scegliere tra la luna di prima e la luna di adesso. Stanno una accanto all’altra, sono attimi congelati - e io li guardo.
Si è fermato tutto, coesistono questi due attimi sulla superficie del cielo.
Tra il mio mondo e il tuo, tra l'attimo prima è l'attimo dopo, non c'è che un respiro, un battito di ciglia e una membrana, trasparente e pulsante.
Senti?
La sfioro col palmo della mano, nel tentativo di arrivare sino a te.
Tu, che ti muovi nel riflesso lunare, sembri un ballerino con la sua circonferenza di luce tutto intorno, estendi ad una ad una le gambe, le porti verso il cielo, poi cadi in un giro veloce. Ti chiudi in posizione fetale, poi ancora ti riapri, sembri un fiore adesso, ricadi verso la terra con la tua corolla un po' sgualcita, bussi con una mano sul contorno della luna, poi scalci e trema la superficie dell'astro.
Sono convulsi i tuoi gesti, sei così solo con quella palla piena di crateri e intorno il mondo è sparito o, forse, non c'è ancora.
Ti manca tutto, persino la parola.
E, così, non si sa se balli perché non ti rimane che questo linguaggio ancestrale, perché sei un pazzo che dialoga con la luna o se cerchi di tirar giù da quell'altro pianeta un po' di oggetti perduti.
Chissà, magari son finiti nei crateri; magari a rovistare con le mani, con le braccia che adesso allunghi verso quelle voragini, trovi qualcosa di te -che so-, forse un nome, un cognome, una lunga strada arrotolata come un pezzo di stoffa da stendere verso una casa, la tua casa che è una casa qualunque in un sobborgo della città che ora è perduta, e allora cerchi ancora, cambi cratere, estrai grattacieli fulgenti e grandi palazzi, alberi cittadini, siepi e rose, solletichi ancora quel ventre lunare e quello starnutisce via qualche odore: odore di pane, di caffè, di pesce; odore di urina su un muro; odore di gelsomino estivo; odore di pino invernale; odore di sangue e formalina in un ospedale.
Eppure, eppure tutte queste cose che tu estrai dalla luna finiscono qui, nell'attimo dopo, sotto la Luna che è un po' più vicino alla linea del mattino, si stendono ai miei piedi, mi solleticano le narici, le ciglia, il tatto.
Mi attraversano gli occhi -azzurri, li vedo riflessi in uno specchio denso i miei occhi, così vuoti-, quegli oggetti passano attraverso la membrana come per osmosi, mi popolano il mondo sino a far della Luna un dettaglio tra tanti, un dettaglio dell'attimo dopo.
Non so cosa guardare adesso, se te o il mio mondo -tutto nuovo.
Folata di vento, suono di ninnoli. Primo suono di un'armonica, in lontananza.
Protesto per la tua immensa fatica non seguita da un risultato: il tuo mondo è ancora la Luna e vuoto intorno.
Fluttui, fluttui ancora, ti porti qualcosa alle labbra, potrebbe essere qualsiasi cosa ma io penso male, sento la tua solitudine: no, non farlo, non bere!
E intanto, chissà, forse è un’illusione, ma ti vedo più grande, la tua sagoma sembra quella di un prigioniero dentro la Luna.
Chissà, forse esploderà mentre tu, adesso, sembri metterne in tensione la circonferenza: spingi a più non posso. E pieghi le ginocchia e tendi più in alto le braccia e fai tremare i bordi della Luna.
Sei ebbro, ebbro di oscurità, di pienezza, di Luna.
Questa pressione fa uscire altri dettagli dai crateri, che fluiscono subito nel mondo con la Luna dell’attimo dopo.
Sono gli spiriti che forse avevi sognato, chissà quando, forse quando la solitudine ti ha fatto così tanta paura e la Luna, quella buona Luna che ti tiene, ha nascosto nelle sue voragini per non spaventarti troppo: mostri coi denti aguzzi, lupi e falene notturne. E ancora: streghe e folletti, animali del bosco. Scivolano su questo mondo insieme a uno strato di neve. Che freddo, che freddo fa qua.
La tua paura, adesso, è la mia paura. Il tuo freddo diventa mio, il tuo mondo immaginario è tutto steso ai miei piedi. Ma è così distante, adesso, la mia Luna. Solo un punto nel cielo.
Scopro per la prima volta di avere una voce, è un fiume al contrario che sale dallo stomaco alle labbra e dalle labbra agli occhi. Ma nessuno mi ha insegnato a trasformare i pensieri, le immagini in parole. Ecco perché adesso so solo piangere, dentro questa solitudine popolata di mostri e di neve e la Luna che scivola via verso l'attimo ancora dopo, non riesco a fermarla, a tenerla vicino.
E poi, poi piango per te, che continui a succhiare con foga quel qualche cosa di amaro.
E che usi la Luna per appenderti nel vuoto, lasciare la Luna.
Hai trovato una fune, oscilla giù dalla Luna. No, al collo no, ti prego!
Si macchia di rosso il fondo bianco della Luna, mentre a poco a poco, con movimenti concentrici si dilata, ti fa uscire nel buio e tu la abbandoni.
Sono nell'attimo dopo.
La mia Luna si riprende, a poco a poco ma, come chi ha perso qualcosa da dentro, adesso non è che uno spicchio.
Il rosso scivola sulla membrana, diventa calore per questo mondo, mi gonfia il cuore, mi espande i polmoni.
Qualcuno taglia la fune, me la srotola dal collo. Mi mette in questo mondo.
Mi porto qualcosa alle labbra, ora so che non era una bottiglia, ma solo il mio pollice di pelle tiepida e grinzosa. Come una bottiglia, però, riempie una solitudine.
La Luna si allontana nella sua veste bianca. Mi guarda, mi sorride, dice “mamma”.
Certo, sarà per sempre sul mio orizzonte ma, ora che son nato in questo mondo, morto nell'altro, lo so, non saremo mai più così vicini.
È bello quando ancora non ci sei, quando il Tempo non è che una pellicola stesa ai tuoi piedi, tutti gli attimi affiancati. È bello quando ci sono due Lune, una che cova il mondo e gli nasconde i sogni del futuro nei crateri, e una che lo guarda, gli alza e abbassa le maree, gli cambia gli umori, i tempi, gli amori.
Perciò -dicono- l'uomo ambisce di ritornare sempre alla Luna.
lunedì 1 dicembre 2014
Ché più facilmente si dimentica ciò che bene si ricorda
sabato 22 novembre 2014
RÍGAME MUCHO
Parola del giorno: RIGAME
Ma chi l'ha detto, poi, che le parole debbano avere per forza quel significato lì, spiattellato dal dizionario?
Oggi il dizionario dice "rigame", con l'accento sulla "a".
Ma chissà perché io, invece, lo metto sulla "i" quell'accento, con una nota caliente, e lo trasformo in un sensuale imperativo: "rígame!", dico a gran voce.
Il mio amato sembra un albero secco, mi guarda stranito. Anzi, non mi guarda neppure!
Eh già, è da un po' che siamo in crisi (anche se non ho capito bene perché, devo ammetterlo ma, d'altronde, "te lo sei scelto coi rami contorti!", mi rinfacciano) e io non so più cosa inventarmi per farlo rifiorire.
Ho provato a intenerirlo, con carezze all'olio pregiato, che nutrissero al contempo la corteccia ma -che dire?- ha la scorza dura come un panettone scaduto.
Gli ho confezionato tutto un innaffiatoio di lacrime amare: erano lacrime parlanti, ognuna sussurrava dolci parole d'amor perduto, alcune erano versi grandiosi, "amor ch'a nullo amato", etc etc, ma la sua terra, ahimè, non assorbe più l'acqua.
Gli ho scalfito il tronco con tanti cuoricini con scritto il suo nome -sembravo il furioso Orlando -e li ho anche dipinti, ma la corteccia era così secca che cadeva in pezzi, mi rimanevano i cuoricini -tutti infranti- tra le mani.
Ho allora provato a fare l'altezzosa, devo ammettere che non mi riesce bene, fingevo di averlo dimenticato, ma credo che abbia visto le mie pupille osservarlo dentro un cespuglio di rovi con le spine appuntite. E così, proprio mentre l'ho intravisto che sporgeva un poco allarmato la sua brulla corolla, si è subito ritratto.
Ma non mi sono data per vinta: ho pensato allora di intraprendere una terapia di coppia.
La terapeuta, che abita in un desolato castello su un picco deserto, scuotendo la testa mi ha detto:
"Cara, ma quello è un albero, per giunta secolare, ha messo le radici, dove vuoi andare? E inoltre, così radicato, come faresti a farlo spostare?"
Aveva ragione, eppure ho insistito: le ho pagato per mesi un salato onorario, sottoponendomi a una massacrante analisi doppia. Sì, avete capito bene, mia e dell'albero: l'ho scandagliato tutto, dall'alto al basso, dall'infanzia remota al presente, dall'emozione della prima foglia al trauma del primo autunno, mi sono commossa per gli strati di neve che lo hanno ghiacciato d'inverno, ho sentito il dolore del becco del picchio in primavera e l'arsura della canicola estiva, ho elaborato tutti i suoi lutti e, non contenta, ho provato a curargli l'entomofobia e l'anemofobia; ho anche fatto un'ipnosi regressiva per scoprire chi era stato nelle sue vite precedenti, se ci eravamo già incontrati e se, per caso, il nostro incontro aveva avuto tragiche conseguenze; ho persino sognato in sua vece, mi sono stesa per lui sul lettino; alla fine avevo la schiena a pezzi, gli occhi gonfi di lacrime mie e brine sue, mi stavo trasformando in albero anch'io, ero piena di pollini, muschi e licheni; a tratti sentivo camminarmi insetti sulla superficie corporea, in PS sospettavano la psicosi di Korsakoff, ma "io non bevo, sono solo innamorata di un albero, sto empatizzando, è terapia", ho risposto molto convinta! Poi sono arrivati sintomi psicosomatici, incubi e insonnia. Così ho detto basta, la terapia ibrida donna/albero non ha funzionato.
Hanno chiamato allora un professorone che, tra cerchi di fumo, mi ha diagnosticato una metamorfosi isterica. Fissandomi negli occhi mi ha spiegato, molto lentamente, gustandosi ad una ad una le sue sublimi riflessioni, che mi stavo trasformando nell'oggetto d'amore perduto e, ammiccando tutto gaio, con una fumata bianca, ha aggiunto: "L'identificazione con l'oggetto amato fa sì che il lutto non venga elaborato. Sarebbe anche una soluzione, se non fosse che denuncia che lei non raggiungerà mai la fase genitale del suo sviluppo. Signorina, mi dispiace, lei è malata e molto grave, ha un Edipo molto grosso, non c'è più niente da fare", e, con una pacca sulla spalla, ha concluso: "Non rimane che il ricovero, o viene spontaneamente o dovrò farle un TSO."
Ma che, ma che TSO, io ci andavo volentieri, non sapevano il perché!
Fatto sta che nella Clinica Psichiatrica del Bosco hanno cominciato a sedarmi, ma io ero sempre più su di giri, ero diventata un albero da frutta, di frutti tutti rossi, brulicavo di bacche e susine. Ero la delizia di tutti i ricoverati, i frutti erano buoni ed abbondanti, ma così zuccherosi che ho alzato la glicemia dell'intero reparto.
I medici erano sbigottiti, si riunivano in continuo, non sapevano spiegarsi la reazione, aumentavano le dosi, inserivano stabilizzatori. Sino a che un'infermiera corpulenta e disincantata ha fatto irruzione in riunione:
"Dottori, ma che avete studiato a fare? Le avete dato una camera vista albero, e perciò è maniacale e non si può stabilizzare! Se volete che guarisca (e che non stiamo tutto il giorno a raccogliere i frutti dell'amore), dovete cambiarla di reparto!"
E non potete immaginare la disperazione quando, dopo il trattamento sanitario obbligatorio, mi hanno fatto la dimissione sanitaria obbligatoria. Eh già, non me ne volevo andare più, mi ero autocontenzionata al letto, tutta rossa, innamorata e piena di frutti.
Mi hanno allora trasferito in Chirurgia Ortopedica, mi hanno tagliato tutti i rami, poi hanno chiamato il chirurgo plastico per ridarmi sembianze umane mentre io, fingendomi accanita sostenitrice di dottrine del profondo protestavo: "siete macellai, i rami ricresceranno, i problemi si risolvono alla radice (dell'albero)!"
Pensate sia finita qui?
No! Una volta dimessa, mi sono data alla magia nera!
Ho provato a mettergli una civetta nel tronco: l'aveva ammaestrata per me una strega, esperta di mal d'amore, a carpirne i pensieri e a darmi indicazioni precise per pozioni e intrugli con cui bagnargli le radici.
L'ho pagata un occhio della testa.
Ma, non ci crederete, è venuto fuori solo allora che l'albero era già stregato o forse qualcosa non aveva funzionato: insomma, da quando ho posizionato il gufo in un anfratto di corteccia, puff!, l'albero s'è smaterializzato e chi l'ha visto più!
Eppure c'era chi mi aveva avvisato: dedicati ai giovani arbusti, mi dicevano in coro tutti gli abitanti del bosco!
Ma io, io niente, mi ero innamorata della chioma argentata di quel vecchio albero che, devo dirlo, ai tempi d'oro mi aveva anche un po' ingannata: non era così avvizzito e poi si lasciava sfuggire dalle fronde languide parole d'amore, come mai ne avevo udite; e poi raccontava storie meravigliose, rideva sempre, mi guardava estasiato, era tutto innamorato! Si muoveva un po' sgraziato con le sue grosse radici, ma era così carino quando al mattino mi svegliava, tutto spettinato dal vento notturno, con la colazione tra i rami.
E non solo ora è muto come un tronco senza linfa ma, beffa delle beffe, la Regina del Bosco, gli ha fatto pure potare la chioma... che storia!
Che poi, si sa, una volta che t'innamori l'avvizzimento diventa un tenero struggimento dell'animo da curare e io, io giù ad innaffiare, e intanto invecchiavano i giovani arbusti, arrivavano i tagliaboschi, i mangiafuoco, i lupi mannari. Tutti ad avvertire: "vai via, vai via! Fallo almeno per orgoglio!"
Ma io: niente.
Solo che adesso, mi vedi, non so più che fare.
Cerco risposte dall'oracolo Zanichelli , un pietrone parlante coperto di muschio, messo al centro della foresta, che ogni giorno mi suggerisce una parola.
Rigáme, dice oggi.
No, no, io m'immolo, mi faccio tronco sensuale e, con una rosa tra le labbra ormai di legno, ignorando l'accento, dico: "Rígame! Rígame mucho", all'albero fantasma.
È l'ultima chance.
E pensare che non sono un'anima latina.