domenica 8 dicembre 2013

Dicono che gli errori, soprattutto, sono particolari degni di una foto

Possono esserci tante periferie.
Anche la nostra storia lo è.
Periferica, caotica, poliglotta. La peggiore periferia del mondo.
Però, chissà perché, ci finisco sempre.
Con un brivido di incoscienza, con lo spirito del fotografo alla ricerca di qualcosa: un particolare sacrilego, un pezzo di umanità tra muri sgretolati, un’anonima intimità tra filari di alberi identici e angoscianti, una vecchio, cadente negozio di dischi, una scala azzurra in mezzo al cemento, una cartolina in volo sopra i comignoli neri, un fiume in secca con un fiore tra gli argini.
Ecco, quando torno nella nostra periferia, cerco proprio cose di questo tipo.
Qualcosa da salvare, che faccia effetto, che resti.
E, incredibilmente, lo trovo sempre.
Nella mia periferia trovo sempre qualcosa di te: occhi, mani, capelli, bocca.
Tutto a pezzi, come in un Picasso.
E così succede, che bacio una bocca, guardo degli occhi -come i tuoi-, stringo delle mani, scompiglio dei capelli -un po’ lunghi, un po’ ribelli, come i tuoi- e, intanto -mentre tu sei un’idea, oltre lo smog, il grigio, lo squallore- io bacio te (in mezzo a un cortile), stringo le tue mani (dentro un ascensore), scompiglio i tuoi capelli (controvento), guardo i tuoi occhi (e abbasso i miei).
E ti bacio di più, così, tutto a pezzi, che posso dedicarmi a un particolare alla volta, un secondo alla volta, un pensiero alla volta.
Clic-clic-clic. Scatto, scatto, scatto.
E non ti dico, anche se sai già. Ché una bocca, da sola, non capisce. Non capisce una ciocca di capelli. Non capiscono le mani. Gli occhi, forse quelli capiscono, ma da soli non sanno rispondere.
E così conserviamo il segreto e, senza che nessuno lo sappia, riempiamo la nostra squallida periferia: era solo un marchingegno arrugginito, un vecchio carillon, polveroso, immobile, angosciante; con tutti gli omini chiusi nei loro archetipi -cilindro in testa e panciotto- e le donne, immobili tra balze dorate, ingrigite dal tempo.
Mentre bacio te, invece, riprende a girare questo carillon sgangherato, gli omini escono dalle loro posizioni preassegnate e cadono, cadono giù dal carillon, come uomini di Magritte. E le donne, invece, salgono, tutto al contrario, e si tengono con le mani le sottovesti. E il campo è libero, la polvere vola.
Clic-clic-clic. Scatto, scatto, scatto.
E ti dico: che era da tanto che non fotografavo più, che non trovavo più un rivolo d’acqua sopra l’asfalto a riflettere uno straccio di nuvola; che non vedevo un ombrello appeso a un arcobaleno scolorito; che non mi fermavo davanti a un vecchio carillon.
Sei la mia periferia, vortichi intorno al centro.
Stai confinato lì, eppure mi espandi.
C’eri già, come ogni periferia. E, come ogni periferia, sei buio, spaventoso, “altro”. Sei già di qualcun altro, ma sei un po’ anche mio.
Sei quello sbagliato, il più sbagliato di tutti.

Dicono che gli errori, soprattutto, sono particolari degni di una foto.
Clic-clic-clic.

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