lunedì 30 dicembre 2013

L'uomo che fotografa i sogni

Premessa
Questo racconto è dedicato a Evgen Bevcar che, rimasto cieco all'età di 12 anni, ha dedicato la sua vita a fotografare ciò che vedeva nel suo “spazio buio”. In altre parole, a fotografare i suoi sogni.
Leggendo, ascolta: http://www.jamendo.com/it/track/966030/black-mirrors


Io sono la camera oscura del mondo.
Le immagini le pizzico tra le dita, le assaggio con le labbra. Non hanno contorni. Solo luce e poi buio.
Evadono come rondini, rondini bianche.
Le hai mai viste?

Per me il mondo è un negativo, dove il bianco diventa nero e il nero bianco.
Sono rondini che non possono volare. Si attaccano alle inferriate di un cancello nero.
Quel cancello è il mio occhio che non vede.
Quelle rondini sono gli occhi che mi metto sul cuore: la mia macchina fotografica che vede nel fuori quello che io sogno dentro.

La macchina acchiappa i sogni e io li trasformo in carta, ché siano qualcosa che si tocca, visto che non posso vederli, qualcosa che resta fuori da questo spazio buio.
Poco importa che non veda, poi, quella carta. Io so cosa c'è sopra.

Un attimo, te lo dico.
Il sogno comincia così:




cento bucaneve cadono su un'oscurità palpabile. Intonsi, adesso. Saranno steli, poi.
Il sogno comincia così: un corpo. Intonso. Con i suoi organi che sono il sogno di qualcun altro. Sarà uno stelo, poi.
Mille occhi, bianchi. Contro tutto un cielo, pennellate di nero. Mille occhi, affacciati come un bucaneve sulla primavera. Sulla prima-vera-vista. Candida, spumosa, ondeggiante.
Mille primi occhi che vedono se stessi allo specchio: corolle che scuote il vento.
Mille bambini dentro mille mamme che li sognano al di dà della pancia, come la neve il suo bucaneve e, in mezzo, barriere di ghiaccio.

In questo sogno, ne arriva un altro.


La Senna non è un fiume.
Perché i fiumi scorrono, mentre lei non porta via niente.
Basta affacciarsi, a gauche o a droite, poco importa. Basta affacciarsi, ti dico, meglio se d'inverno, meglio quando è... quando è buio, hai indovinato.
Lasciati entrare i lampioni nell'anima, quelli gialli, quelli che la loro luce scricchiola, quelli che ci vorrebbe un po' d'olio, perché la loro anima fa rumore. Cigola sulle strade, sotto le scarpe, in mezzo alle foglie. Cigola nel nero e crea qualche sagoma di luce.
Mettiti lì, lasciati illuminare. Senti la notte, prendila tra le labbra. Non c'è nessuno. A parte le strade che credi di conoscere, ma sono tutte scure e tu sei sotto l'unico lampione che ti fa luce dentro le pupille. A parte il tuo corpo, che però ha un'ombra più lunga, più vacillante, più viva di te.
Sei solo, con la tua piccola luce e la tua imponente oscurità che ti fascia la testa, i capelli, le ciglia.
Ora, ora affacciati.
La Senna non è un fiume. Lo vedi, adesso?
È un ricettacolo di ombre che si buttano giù all'unisono. E non passano. Restano lì, sul pelo dell'acqua, fanno un po' di schiuma, levigano le molecole e le spezzano. E l'acqua non è più acqua. Ti mette le sue ombre in superficie e te le restituisce.
Sono le ombre di tutti quelli che, tempo per tempo, si sono specchiati.
E non dire che non ti riguardano.
Quegli occhi sono tutti i tuoi occhi.
Come tutti i bucaneve, ricordi?
Ora mettiti lì, con il tuo lampione nell'anima e pesca. Pesca su tutti quelli che sei stato prima di questo istante. Te stesso bambino. Donna. Uomo. Vecchio. Vivo. Morto. Felice. Ubriaco. Innamorato. Muto. Cieco. Genio. Te stesso quando volevi ammazzarti. Ma poi è arrivata un'ombra che ti ha salvato. E poi non è arrivata e sei andato giù. E subito sei tornato su, nell'uomo dopo che è venuto a pescare un po' di ombre con un lampione dentro l'anima.

Dai, non dirmi che non ti è mai capitato.
Di essere solo. Di non vedere niente. E, d'istante, vedere tutto.
Lo fai ogni notte, quando ti sogni che vedi e hai gli occhi chiusi.

Quando vedi che ciò che non vedi è più importante di quello che vedi.
Lo so, sembra un giro di parole. Ma non è così.





Ché un tavolino di cristallo con una brocca sopra e due sedie intorno non è una cosa di grande importanza. Ce ne sono mille fatti così. E se andassi proprio a vedere, a vedere bene, magari quel vetro che riempe la circonferenza del tavolo non è nemmeno di cristallo.
Banalità. Roba da ogni salotto.
Macché, ti potrei ribattere. Sai qual è il tuo problema? Che quella banalità non l'hai mai vista ridotta all'osso, sospesa nel nulla, così com'è, piena di luce che assorbe e tramuta in forme.
Fallo adesso.
Questa volta non sei nel cuore della notte.
Non sei in un luogo.
Sei nel prima del prima. Prima dei bucaneve. Prima delle mamme. Prima dei fiumi. Dei ricordi. Del tuo naso. Delle cose che ti fanno sentire te, quelle solide: come il pavimento, il tempo, il tetto, la logica.
C'è stato un tornado. Ha soffiato via tutto. Si è mangiato ogni cosa, anche l'interno della luna. Di ogni cosa ha lasciato solo la sagoma.
Puoi chiamarla essenza. O forse idea.
Io lo chiamo: il primo sogno di Dio. Quando era ancora tutto rannicchiato su se stesso e l'universo era un occhio di materia densa e scura. Quando Dio doveva ancora scoppiare. Fare BIG. E poi fare BANG. E si limitava a sognare, tante sagome senza interno.
Un tavolo che non aveva il piano in cristallo. Ma neanche in vetro o in plexiglass. E non stava nei salotti, sui tappeti. Ci potevi passare la mano attraverso.
Era IL tavolo.
E le sedie erano una decina di linee intersecate e luminose.
Erano LE sedie.
Potevi anche buttarti giù nel vuoto dalla testa di quel tavolo o dallo schienale di quelle sedie. Poteva passarci in mezzo anche tutto l'universo.
Lo scrittore poteva ancora scriverci su delle storie. Il pittore poteva farli di mille colori. Chiunque poteva passare e sedersi a prendere un tè. O meglio: a immaginarsi il gusto del tè.
Tu, forse tu avresti sistemato tutto sotto un anfratto roccioso. O su una balaustra piena di fiori (rosa).
Qualcuno avrebbe visto un uomo e una donna invisibili, scambiarsi parole invisibili ai due lati del sé (cioè, volevo dire: del tè).
Altri avrebbero lasciato andare tutta la punteggiatura, , , , tanto ogni cosa passa attraverso le sagome;;;;;;;; e-torna-al-té (cioè, volevo dire: al sé).

Io le avrei lasciate così com'erano, quattro linee intersecate sopra un sogno.
Lì poi arrivano Adamo ed Eva. Arrivano sempre, a questo punto del sogno. È inevitabile. Sono due sagome vuote, pure loro, e non so chi ti ha detto che aspettavano un serpente per cadere giù, nel mondo dove le sagome sono piene. Il serpente vero è quando non puoi più immaginare il gusto del tè. Quando perdi il sé.
Quando sei fuori di te, in tutte quelle cose che limano i particolari sulla carta, che accendono i contorni sulle pellicole, che segnano i posti sulle mappe, che ticchettano il tempo sull'orologio.

Chiudi gli occhi, mangia uno spicchio di buio.
Sali su. Su queste note. Sono una scala, ma non di violino.
Tu non preoccuparti: sogna.

Suona il tuo clavicembalo.



Più forte. Fai dondolare le dita sul tuo tempo. Le tue dita sono le note.
Ora le senti: suonano
e suonano i nervi e suona le testa e suonano gli occhi e quello che c'è sopra gli occhi, il corpo, sopra la successione dei suoni.
Ti dirige soltanto la sagoma di una sveglia grande quanto una stanza.
Se aprissi gli occhi, vedresti che non ha lancette e non ha ore. È solo una porta aperta sui tuoi occhi chiusi.

Se aprissi gli occhi, se li avessi bianchi come i miei, lo diresti anche tu con una macchina fotografica sopra il cuore.
Diresti, come un pazzo, a tutti quelli che passano:
                             Sogna. Svegliati. Suona. Guarda.
                                            CORRI



domenica 8 dicembre 2013

Dicono che gli errori, soprattutto, sono particolari degni di una foto

Possono esserci tante periferie.
Anche la nostra storia lo è.
Periferica, caotica, poliglotta. La peggiore periferia del mondo.
Però, chissà perché, ci finisco sempre.
Con un brivido di incoscienza, con lo spirito del fotografo alla ricerca di qualcosa: un particolare sacrilego, un pezzo di umanità tra muri sgretolati, un’anonima intimità tra filari di alberi identici e angoscianti, una vecchio, cadente negozio di dischi, una scala azzurra in mezzo al cemento, una cartolina in volo sopra i comignoli neri, un fiume in secca con un fiore tra gli argini.
Ecco, quando torno nella nostra periferia, cerco proprio cose di questo tipo.
Qualcosa da salvare, che faccia effetto, che resti.
E, incredibilmente, lo trovo sempre.
Nella mia periferia trovo sempre qualcosa di te: occhi, mani, capelli, bocca.
Tutto a pezzi, come in un Picasso.
E così succede, che bacio una bocca, guardo degli occhi -come i tuoi-, stringo delle mani, scompiglio dei capelli -un po’ lunghi, un po’ ribelli, come i tuoi- e, intanto -mentre tu sei un’idea, oltre lo smog, il grigio, lo squallore- io bacio te (in mezzo a un cortile), stringo le tue mani (dentro un ascensore), scompiglio i tuoi capelli (controvento), guardo i tuoi occhi (e abbasso i miei).
E ti bacio di più, così, tutto a pezzi, che posso dedicarmi a un particolare alla volta, un secondo alla volta, un pensiero alla volta.
Clic-clic-clic. Scatto, scatto, scatto.
E non ti dico, anche se sai già. Ché una bocca, da sola, non capisce. Non capisce una ciocca di capelli. Non capiscono le mani. Gli occhi, forse quelli capiscono, ma da soli non sanno rispondere.
E così conserviamo il segreto e, senza che nessuno lo sappia, riempiamo la nostra squallida periferia: era solo un marchingegno arrugginito, un vecchio carillon, polveroso, immobile, angosciante; con tutti gli omini chiusi nei loro archetipi -cilindro in testa e panciotto- e le donne, immobili tra balze dorate, ingrigite dal tempo.
Mentre bacio te, invece, riprende a girare questo carillon sgangherato, gli omini escono dalle loro posizioni preassegnate e cadono, cadono giù dal carillon, come uomini di Magritte. E le donne, invece, salgono, tutto al contrario, e si tengono con le mani le sottovesti. E il campo è libero, la polvere vola.
Clic-clic-clic. Scatto, scatto, scatto.
E ti dico: che era da tanto che non fotografavo più, che non trovavo più un rivolo d’acqua sopra l’asfalto a riflettere uno straccio di nuvola; che non vedevo un ombrello appeso a un arcobaleno scolorito; che non mi fermavo davanti a un vecchio carillon.
Sei la mia periferia, vortichi intorno al centro.
Stai confinato lì, eppure mi espandi.
C’eri già, come ogni periferia. E, come ogni periferia, sei buio, spaventoso, “altro”. Sei già di qualcun altro, ma sei un po’ anche mio.
Sei quello sbagliato, il più sbagliato di tutti.

Dicono che gli errori, soprattutto, sono particolari degni di una foto.
Clic-clic-clic.