giovedì 8 marzo 2012

SOGNI DEL 101esimo PIANO


STRATO 1

Erano tornate le rondini, uno stormo compatto, sincrono e velato, come una sfumatura sopra l'azzurro. Volteggiavano insieme, virando all'unisono per ogni angolo del cielo.
Lui sognava i luoghi da cui erano venute- lo faceva da quando era bambino -, sentiva quando stavano per arrivare e andava in cima al grattacielo per ascoltare come piegavano l'aria: già, perché l'aria era la loro materia, il vuoto il loro sostegno, la trasparenza il loro tempo.
E lui ascoltava quel suono impercettibile così, le gambe a penzoloni nel vuoto di un centesimo piano, il suo tempo sospeso come un ascensore bloccato tra il 100 e il 101... ma il 101 non c'è... o meglio: c'è, il 101 sono le rondini e il 100 è ancora solo il suo corpo, fisso, legato ai circuiti elettrici della macchina motrice. Il 101 è la sua mente, una rete di neuroni scuri e compatti, sincroni e velati: una sfumatura sopra l'azzurro tutto uguale del cielo. Volteggiano insieme, virando all'unisono e subito sono parole, note, numeri, un rumore sordo che fende l'aria, un peso sopra un pezzo di stoffa lucente.
Le rondini gli hanno rubato la testa, anzi, sono la sua testa, uno stormo di pensieri che torna dal deserto per annunciare che rinasceranno i fiori e si prosciugherà l'ultima neve.
Uno stormo di pensieri che torna dall'alba dei tempi, così, dritto dentro la testa, uno stormo che galleggia su strati e strati di vuoto e rapisce l'uomo seduto su strati e strati di cemento.
Vola giù, l'uomo che ha le rondini per testa.
Chi sta sotto non sa che la sua testa è rimasta al piano 101, e che il suo corpo, caduto dal numero 100, tornerà ad ogni battito d'inverno.


STRATO 2

 Sono solo una manciata di uomini neri, che avanza tra due filari di cipressi per una strada campestre. In fondo in fondo -ma tu non riesci a vederla- c'è una piccola cattedrale di legno, accovacciata tra due salici piangenti. 
Nessuno può dire se gli uomini stiano piangendo né se abbiano un volto.
Sembrano fermi lì, tra l'arsura di una primavera troppo torrida, da almeno un milione di anni.
I funerali li celebrano all'alba, perché il pastore dice che chi muore lo fa solo quando ha negli occhi una luce sufficientemente bianca da essere accecante. E, in questo mondo in bianco e nero, è questo l'unico colore dell'alba. E questo colore assomiglia a una marcia, viene a poco a poco, danza con le ombre, le allunga, allunga il profilo dei cipressi sulla radura, allunga la vita sulla morte. La srotola e la stende, fino all'orizzonte.
Loro continuano ad andare e, se stai bene ad ascoltare, sentirai piano la loro litania: le loro voci sono il tintinnio di un carillon senza chiave, che sussurra piano, senza mai fermarsi. 

STRATO 3

Ricorda, niente le riesce meglio.
Conta i suoi attimi e quelli di lui: sono i petali di un mazzo di rose sgualcite, piovuti a raffica sul pavimento di una casa perfetta che oggi, però, non si è alzata. È rimasta a dormire, accartocciando le coperte, gli asciugamani, la moquette, attorcigliando le lampade alla luce, sparpagliando i ricordi qua e là.
Ricorda e non sa neanche se, in fondo in fondo, questi sono davvero ricordi o attimi che ancora devono venire, un po' come capita nei sogni.
D'altra parte, ve l'ho detto che queste mura, stamattina, non si stanno svegliando.
Non si svegliano da qualche sole. Da quando lui ha perso la testa e l'ha regalata alle rondini. Da quando il suo corpo caduto non è più tornato.
Da quando lei si arrotola nelle sue lenzuola bianche e segue il corteo degli uomini neri: ogni notte, piano, senza lasciare impronte, insegue l'alba di lui e passa nel suo sogno a scattare quella foto in bianco e nero. Ripete la cerimonia e, di nascosto, gira la chiave del carillon (ma non era senza chiave? No, la tiene lei, dentro le palpebre e scivola via ogni volta che le chiude) mettendo in moto la litania. Non le serve altro, per cullare i muri nel loro sonno eterno, che un funerale da celebrare, la marcia eterna dei suoi uomini neri e una chiesa incastonata tra due salici piangenti.
Ma stanotte gli uomini, d'improvviso, non erano più neri: uno aveva una giacca rossa, uno verde, uno blu, non un corteo indistinto, ma passi di uomini biondi, castani, mori, rossi.
Siede sul letto e ricorda: ricorda il tempo che ha immobilizzato nella pellicola in bianco e nero dei suoi occhi e va alla ricerca dell'ultimo colore che le ha lasciato lui, un mazzo di rose rosse appassite. 


STRATO 4

L'aldilà ha un'anticamera azzurra dove dormono i bambini che sognano.
Già, ti sembra strano, ma ti assicuro che è così.
Sognano quelli che devono venire. Iniziano a sognarli qualche eternità prima che arrivino, perché il loro tempo scorre molto più veloce del nostro. E i loro sogni si trasformano nei pensieri degli uomini. Ma non sono quei pensieri che si pensano, quelli per cui servono i numeri e le date e i filosofi. Sono quei pensieri che vengono, così, mentre bevi un caffè, o te ne stai dietro una fila di macchine su una tangenziale, o ancora quando sei all'università e prendi appunti e... puff... vengono quei pensieri che non sapresti collocare in nessun luogo della tua coscienza. Spesso hanno forme strane, strani colori; altre volte sono qualcosa che scivola oltre la vita, come un filo d'acqua tra le dita. 
Sono quelle visioni per cui i neuroni diventano uno stormo di rondini, le stesse per cui imbratti la tela o riempi di parole un po' di carta bianca.
Mescolano gli elementi, in questo modo, un po' alla rinfusa e colorano i sogni in bianco e nero.
Sussurrano, dietro tutto il tempo, che c'è un altro luogo.
I sogni dei bambini che sognano sono proprio così, talmente ridicoli che ti toccherà stenderti sul lettino di uno psicoanalista per convincerti che quei pesci rossi che volavano nella tua stanza, uscivano dai tuoi cassetti, bussavano ai tuoi occhi, simboleggiavano l'acquario ristretto in cui eri imprigionato.
Ti rassicurerai, sì, ma qualche volta, mentre prenderai il caffè, ti tornerà il dubbio che forse, qualche parte di te che sembra così legata all'acqua, al contrario, può nuotare tra strati di cielo.


STRATO 5 

Quelli che devono venire trascorrono un po' di tempo nella camera dei bambini che sognano, abbastanza da riordinare tutti i loro sogni dell'aldilà.
Passati un po' di attimi -molti, pochi, troppi, chissà-, giungono in un'ampia radura, la morte di una strada posta tra due filari di cipressi, dove marcia un gruppo di uomini neri
.Su quella radura, dalla bocca di tre gigantesche macchine da scrivere, fuoriescono incessantemente papiri e papiri di fogli dattiloscritti che volgono al cielo.
La prima macchina trascrive i nomi di quelli che vengono, la seconda di quelli che vanno, la terza è la macchina che trascrive l'anima su carta e forgia i contorni della sua chiave.
La sua anima passa dal corpo alla carta: si dissolve in una goccia d'inchiostro, volteggia per le suadenti curve delle o, serpeggia per i segmenti anfrattuosi delle e, scopre la dolcezza delle Ψ, il suono scivoloso di un ك, le dicotomie del ﮝ.
L'inchiostro si allunga sul foglio, le rondini s'incastonano per sempre nella carta, il tempo si stende sul cielo.
Lei è per l'anima di lui un carattere sul foglio che si ripete, ma che non corrisponde a lingua alcuna.
bambini che sognano la svegliano da questo nuovo, insolito sogno.
Raccoglie i petali dalla moquette.


STRATO 6

L'anima è un segno da intagliare nel metallo.
La carta penetra nel terreno, forma mille diramazioni, si tinge di terra, diviene radici, dà vita a un tronco di metallo, mentre la chioma è una chiave, stagliata verso il cielo.
Gli uomini che non sono più vistiti di nero abbandonano la strada e si sparpagliano qua e là.
Riesce a seguirne solo uno, girato di schiena, vestito di grigio. Visto così, da lontano, non è molto dissimile da lui.
Lui dondola su un tappeto di muschio in una foresta di chiavi.
Sta cercando la sua chiave. Non sa chi glielo ha detto, ma è così che fanno quelli che vanno.
Quelli che vanno sono coloro che stanno per tornare alla vita. Avviluppati nel loro ultimo corpo, cercano la loro anima. 
Questo è il cimitero delle anime che lasciano l'aldilà per tornare sulla Terra.
Camminano giorni, mesi, anni nel cimitero delle chiavi. Ascoltano il brusio delle storie che salgono nel cielo e cercano di trovare la loro voce, la voce che hanno perso quando sono diventati un segno sull'inchiostro.
Mentre camminano, pensano e i loro pensieri si mescolano ai sogni dei bambini che sognano e vanno a turbare le pause caffè di quelli che sono sulla terra.
Quando, tra quelle mille voci, trovano la loro, poggiano l'orecchio alla chiave e estraggano dalla tasca della giacca la serratura: q, a, 1, 4, d, 9, ﮖ, Ꞌ, ▼, ῶ. Fanno click e la serratura si apre.
Fluiscono dall'apice nella chiave giù in picchiata lungo le radici e poi, ancora, dentro la carta. Piovono in inchiostro, tra le lettere di questa vita, di un'altra e un'altra ancora.
L'anima di lui è un segno, che non corrisponde a nessuna lingua conosciuta. Se parlasse, suonerebbe i fili dei capelli ramati di lei, molti e molti petali rossi, un carillon su una strada campestre.


STRATO 7

Ultimo sogno.
Lei sorride a occhi chiusi.
Sono buffi, in effetti, seduti lì su due sgabelli sproporzionatamente alti, fuori dal mondo ma chiusi tra quattro mura spesse. Due lampadine hanno rubato loro la testa e pendono giù dal soffitto, in perfetto allineamento con il loro baricentro.

“Ti pare il posto per prendere un caffè?”, le sussurra.
“Lascia girare il mondo un po' più forte e non se ne accorgerà nessuno...”
“Ma quanti sogni hai fotografato, durante la mia assenza?”

Lei sospira e tira fuori un grande lenzuolo.

“Non sono mica Penelope, io, e non so tessere con ago e filo...”
Gliela porge.
“È per me?”
“Sì, perché non ti dimentichi... quando tornerai...”
“E i Proci?”
“Magari sarai uno di loro, chissà?”
“Mi sa che hai già perso la testa...”, dice indicando la lampadina.


Due sagome sorridono, attraverso labbra di luce artificiale.
Sino alle prossime rondini.