sabato 28 gennaio 2012

Una costellazione sopra il morire


Sento il vento. Se è freddo io sono una corazza di metallo gelido, colato qua da qualche vulcano rovesciato nel cielo, solidificato per sbaglio o per inerzia.


Il vento, non rumore, non tempo. È solo un'oscillazione d'aria nella trama del buio.
E non so se c'è uno spazio, oltre queste pareti. O se queste pareti anguste, rigide, spigolose, sono tutto lo spazio possibile. O se, ancora, esse non esistono e sono ancora un altro corpo, un altro guscio inerte sopra l'anima. Che non vola via.


Vento. Ma a ben vedere non può nascere alcuna brezza in un luogo chiuso. Un tempo sentivo il mio cuore pulsare ritmico, rapido, tonico. Forse il vento è il residuo del cuore, un impercettibile residuo rantolante, un sottofondo costante e intollerabile. Non caldo, non freddo, non luogo, non tempo.


E poi miliardi di fili tesi e intrecciati: neri, bianchi, rossi, rosa. Ragnatele? O forse: neuroni, assoni, dendriti. Muscoli, tendini. Lunghe aste d'avorio, luccicanti, terse, in mezzo al buio. O forse: ossa. E ancora tunnel impervi, bluastri. O forse:arterie, vene. E poi, forme geometriche. O forse: organi. Mollicci, pulsanti.

In fondo, più in fondo, una distesa d'acqua che non s'asciuga e non macera. S'increspa, silenziosa e nera, e rispecchia deformi quelle immagini di fili intrecciati, tunnel, aste d'avorio e tunnel bluastri. S'increspa senza affanni, come uno specchio malleabile, costante, senza importanza. Acqua, dunque. O forse: un superficie di coscienza, sprofondata in questa struttura fatiscente.

Onde. Onde senza spiaggia, senza sabbia. O forse: ricordi. Gettati su una superficie piatta, senza una riva. Conchiglie che non arrivano alla battigia.

E adesso, io ricordo in quei riflessi. Ricordo ombre, fili, corolle. Steli, prati, alberi. Nasi, bocche, occhi. Mani, piedi. Uomini in marcia. Neri, con qualcosa sulle spalle. Uomini e donne che si amano. Anime in scatola che non volano via e che aspettano di volare sull'orlo di un precipizio.

Aspettano di morire. Di volare. Di morire. Di volare. Non so.

Tratteggiare il proprio contorno sull'orizzonte e affondarlo con le mani, che la Terra ci giri intorno, per rimanere fermi, ecco, essere eterni, così, sagome sprofondate nel cielo, ma anche muoversi, vorticosamente, perché c'è l'inerzia, ti dicono, e il moto costante. E forse, Dio. E credere, credere sempre. Sentire, sotto tunnel, fili, aste, forme geometriche, oltre tutto, un vento cadenzato che bussa. E crea.

Sembra così: che crei alberi, steli, prati, uomini neri con qualcosa sulle spalle, uomini e donne che si amano.

E intanto guardare e credere ancora: ci sono gli astri, altri uomini che si sono affondati nella trama del cielo. Stelle fisse, mobili, che ne sappiamo. Cambiano idea, gli uomini. C'è la relatività. C'è tuo padre. Tua madre. Una costellazione oltre il morire.


Tutti lì, sprofondati nel cielo terso.

Così ci immaginiamo che sia la morte. Così l'ho immaginata anch'io, malinconico di fronte a un cielo ocra e rosso che sembra sempre dirti, come il sussurro di un gigante a una formica, che stai passando. Lentamente, solitamente, con cura.

....

Così immaginiamo, così immaginano tutti quando formulano tesi sull'essere e sul non essere. Anche i più illustri, cinici uomini di scienza. E pensano che morire sia come fare un passo sopra la vita.

E più credono nel corpo più, impercettibilmente, credono nell'anima. Perché chi conosce il corpo, sa delle sue imperfezioni. E sapendolo, crede di dominarle con la sua mente.

Così pensavo io, nel viaggio di ritorno alla mia anima. Mi guardavo riflesso nel vetro del treno.

Fuori era primavera: i campi erano punteggiati a raffica dalle teste rotonde di mille fiori gialli. Il vento li scuoteva e la malattia scuoteva me, in infinitesime fascicolazioni dei muscoli. E l'attrito scuoteva il treno, sul bordo del precipizio, mentre valicava la montagna.

Mi sentivo al centro di una grande sinfonia universale, dove la singolarità perdeva il suo senso.

Proprio io, che avevo maledetto la mia malattia, per avermi deformato, nei miei ricordi e in quelli degli altri. Per avermi fagocitato e aver reso me stesso "la malattia", in lento avanzamento, come un archetipo primigenio e angosciante. Proprio io, in quel momento, sentivo che la malattia faceva parte di quel grande, incessante moto che, dalle distese verdi e gialli si trasmetteva alle rocce, ai picchi, agli abissi, al vento. Che muoveva il tempo nello spazio.

Io, che da anni avevo il volto irretito nella spasticità dei miei muscoli, che ero vittima di una "degenerazione neuronale progressiva", destinato a rimanere soffocato in me stesso, alla paralisi dell'ultimo muscolo, scoprivo che non avevo bisogno di parlare con la voce, di muovermi con il corpo, di respirare con il diaframma.

Potevo sprofondare nell'immobilità e viverci per sempre, dietro quel grande schermo di vetro, in una campana in moto, un treno sospeso sul precipizio.

La mia gola era squarciata da alcuni mesi da una tracheostomia che mi connetteva a un respiratore artificiale. Le mie corde vocali avevano smesso di vibrare, in troppi si erano scordati il suono della mia voce.

I miei occhi soltanto, incastonati in un viso senza espressione, avevano conservato la loro vivezza, e guizzavano a destra e a sinistra, fedeli ai loro movimenti saccadici e al riflesso di accomodazione.
Prima di perdere del tutto il movimento volontario e la fonazione, avevo steso il mio testamento spirituale: chiedevo formalmente il suicidio assistito in Svizzera.

Il treno si era fermato. Quel moto esterno, con cui mi ero sintonizzato, sfumava per sempre.

E avrei voluto gridare, sprofondato nel mio silenzio obbligato, di lasciarmi dentro quella vetrina, di tenermi attaccato al mio respiratore, a quel vento impercettibile che alzava e abbassava la mia gabbia toracica e la muoveva lentamente, come si muovono i ricordi in uno stato ipnagogico.
Ma i medici mi prelevarono, così come avevamo stabilito, con un sorriso sulle labbra, medici come lo ero stato anch'io. Dunque distanti, troppo distanti dalle mie palpebre, che ancora si voltavano indietro, trascinando tutto il mio corpo, e vedevano che ogni cosa si muoveva e continuava a muoversi, come una giostra che mi rendeva a tutti gli effetti parte del suo paradossale vorticare. Il loro sorriso soltanto era fermo: di quella fermezza che ha la ragione, quando deve coordinare troppi muscoli, troppe parole, troppi pensieri. Mentre io, rarefatto da una muscolatura flaccida e inerte, quasi spettro, già arbusto, pianta, albero, ero al di là di tutta quella tensione, di quell'immane sforzo per intrecciare gli impulsi nervosi, dalla corteccia al talamo, dal talamo ai cordoni del midollo spinale, da questi ai muscoli. E vivevo.

La siringa era pronta. Si stagliava nell'aria ed era l'ultimo dei ricordi.

Li vidi staccare il respiratore, coprire il mio viso con il lenzuolo bianco.

Da allora, fui prigioniero per sempre.


.......

Ora sono qui, non astro intelaiato nel cielo. Ma riflesso di un'anima, prigioniera di un corpo che vedo da sotto, come volta di una chiesa gotica. Un'anima che non vola via.


In apnea nella sua distesa d'acqua inerte, dove si specchiano confusi i ricordi. E sopra, più sopra, tendini, ossa, muscoli, vene e arterie, organi, neuroni. Intrecciati con trame roteanti, spazi geometrici perfetti, unità frattali di una struttura che resta e che chiude, simile a una tela astratta che imprigiona la mente e la tiene avvinta, così simile all'amore che ti prende e non ti restituisce.

Sopra, più sopra, pareti massicce di legno scuro, murate nel buio di un anfratto di cemento. Una bara silenziosa, rivestita di silicio. E poi, niente.

E poi, solo il vento, che a tratti increspa le onde, muta per un istante il paesaggio dei ricordi, come potesse davvero questo presente eterno modellare il passato, viaggiare nel tempo, ritornare vivo.

Morto e caduto nel corpo. Murato vivo.

Rimangono queste finestre. O forse: occhi. Tesi sull'orizzonte nero e mellifluo di un tempo che non c'e più.

domenica 8 gennaio 2012

Tra-miti





Guarda fuori dalla finestra, Manar.
Le fa da abito solo la pelle.
Si potrebbe pensare che se ne stia così, provocante nelle sue forme di giovane donna, schermata da una lastra di vetro, solo per il piacere di farsi guardare.
Ma, nel suo mondo, nessuno guarda l'altro.

La città è ai suoi piedi e ai piedi dei tetti e di tutti coloro che, come lei, lentamente muoiono dietro un vetro. Nudi, come a sottolineare la loro solitudine. Nudi, come un neonato, davanti alla vita.

Tangeri non ha una fisionomia precisa, al calar della sera. I fumi del porto, i sapori delle spezie, le urla dei mercanti sembrano contaminarsi del blu serotino e, vestiti del suo mormorio luccicante, divengono un'unica creatura che incede, al ritmo allucinato di una litania.

Allah-AkBar

La preghiera s'insinua nella visuale di Manar: è un urlo diaframmatico, stridulo, spezzato. Lo vede, non lo sente. Lo vede mentre fluisce, tra le trame oscure della Medina: è un flusso perlaceo, sospeso a mezz'aria. Cammina adeguandosi al passo di ogni essere vivente: corre insieme a un ragazzo, che fugge con un paio di scarpe rubate, ondeggia insieme alla vecchia con la brocca in testa (passa ogni sera a quest'ora), raccoglie i panni stesi che ha abbattuto il vento, trotta col mulo che scalpita, tra file di uomini vestiti di chiaro. Va, dalle mura alla spiaggia, dalla spiaggia al molo, dal molo alle Colonne d'Ercole e poi verso quei mondi “al di là” che Manar non vuole immaginare.

Allah-AkBar

Da quando il teatro Cervantes ha chiuso i battenti, non si dà pace, Manar.
Se tendi bene gli occhi (sì, hai capito bene, gli occhi, non le orecchie!), puoi vedere il rumore che fanno i calcinacci, mentre si staccano dalla sua facciata stremata.
Lei lo fa, sempre. Guarda quel rumore e subito ricorda. Ricorda l'interno del teatro: sette piani concentrici di legno scuro, affacciati sul palcoscenico. Ricorda l'odore di chiuso, il lucore dei granuli di polvere, in rapida ascesa verso l'alto, quando si apriva il sipario; ricorda il battito del suo cuore quando, seduta sulle poltrone in stoffa, vedeva entrare le maschere, una dopo l'altra: Pierrot, Messalina, il lenone, la dama, il signore, i giocatori di carte.
Le maschere fanno un rumore che non si sente, si vede.

Allah-AkBar

La terrazza, affacciata sul mare, nella serata blu di mezza estate, è solo a un isolato di distanza dal grande Teatro Cervantes.
Dalla sua finestra, Manar può vedere i due edifici in perfetta simmetria, come Zenith e Nadir.
Si dice che ogni anima del teatro sia migrata per sempre su quel terrazzo e che il suo pubblico si sia ritirato nelle mansarde e sui tetti, per poter continuare a guardare.
Su quella terrazza si sono trasferiti tutti loro: Pierrot, Messalina, il lenone, la dama, il signore, i giocatori di carte.

Allah-AkBar

Da tanto tempo non parla, Manar. Da troppo non vive.
Guarda le gote di Messalina, il suo caschetto di capelli neri, sorride indovinandone le lussurie.
Sente il fruscio che emette mentre sta controvento a prendersi la sera. Sembra richiamare dalla fissità l'occhio di Pierrot. Un movimento labile, silente, appena illuminato dal lampione rossastro che pende sulle loro teste. L'abile mossa di un regista lontano.
Le due maschere si scambiano cauti messaggi.
Non si sentono, si vedono.



-Ti sei vestito così per portarmi via, sussurra Messalina.
-Balle, tu rimani tu, io rimango io.
-Ti sei vestito così, per non esser riconosciuto.
-Mi sono vestito così per assicurarmi la parte.
-Chi vuoi che abbia bisogno di un Pierrot, al giorno d'oggi?
-Tutti vogliono credere di essere felici.
-Ci guardano tutti.
-Ci guardano sempre.
-Siamo due pesci fuor d'acqua.
-Una puttana e un pagliaccio sono sempre due pesci fuor d'acqua..
-Perché non ci mandano via?
-Per poter sparlare della puttana e del pagliaccio.
-Scommetteranno su di noi, i giocatori di carte?
-Cosa dovrebbero scommettere?
-Che mi porterai via.
-Le maschere non si evolvono, lo sai.
-Perché?
-Perché non si evolve l'umanità.
-Allah-AkBar.
-Sì, lo so, Dio è grande.
-No, mi sono dimenticata la battuta.
-Non c'è un qualche suggeritore?
-Tanto dai tetti non ci sentono.
-E quindi?
-Tu ripeti, ripeti sempre.
-Ma cosa?
-Muovi le labbra, piano. Così. Come un pesce davanti a un acquario.
-Parla più forte, non ti sento!
-Muovo-le-labbra, nient'altro.
-Ridono. Ridono i nostri spettatori!
-Ridono, sì. Ridono sempre.
-Perché?
-Perché siamo due maschere che, muovendo le labbra, permettono alle loro di fare altrettanto.
-Allah-Akbar.
-È grande Dio, lo so.

Non ride, Manar.
Manar che non sa che suono abbiano le parole. Né che esse esistano.
Ridono molti degli uomini assiepati sui tetti.
Ridono mentre Pierrot e Messalina muovono le labbra.
Il signore e la dama, invece, li guardano con biasimo.
Scuotono la testa alcuni degli uomini assiepati sui tetti.
Nella linea d'aria interposta tra loro e le maschere, scorre la vita.

Il lampione di destra si illumina sul lenone.
Con un gesto impercettibile conta i suoi soldi.

Fa paura il lenone, dice la sua maschera senza aprire la bocca, ha sempre un'aria equivoca. Le sue sigarette emanano un fumo sinistro. Lo odiano perché ha venduto Messalina. Ma odiano anche Messalina. Sono indecisi su chi odiare di più. Se Messalina fosse meno bella, meno seducente, meno truccata, farebbe certamente meno pena.
Conta i soldi, maschera, continua a contarli. Non fermarti.

Non si sdegna Manar, al contrario degli altri uomini dietro i vetri e sui tetti.
Non le piace il lenone, ma non farebbe a meno di lui, per il suo spettacolo serale.

-Non respirare, rimani altera, suggerisce Pierrot.
-Questo dramma è estremamente statico.
-Se tu potessi vedere, fuori, al di là della terrazza... ora...
-Cosa? Cosa?
-Le vie della medina si sono svuotate, Messalina.
-Si sente solo Allah-Akbar...
-La gente vive di meno, da quando hanno chiuso il Teatro.
-Dove sono?
-Sono lassù, che ci guardano dai tetti.
-Immobili?
-Anche loro, sì.
-Perché?
-Fanno ciò che facciamo noi.
-Perché non mi porti via?
-Non scontenteremo il nostro pubblico.
-Chi c'è?
-C'è lei, Manar. Le fa da abito solo la pelle. Non conosce le parole. Conosce solo le immagini. E infatti...
-Infatti cosa?
-Impugna piano il pennello. Il pennello è la sua lingua e i colori le sue corde vocali. Tende il braccio a sinistra, senza mai smettere di guardarci. Non ha bisogno di controllare la tela.
-E cosa dipinge?
-Non lo immagini?
-Dipinge noi.
-Sempre?
-Sempre.
-Perché?
-Perché dentro di noi ci sono tutte le parole e tutte le storie.
-E cosa raccontiamo?

Raccontano tra le mani di Manar.
Manar beve il cielo e i chioschi lontani. Beve il mare invisibile di sera e il vago fruscio delle colonne d'Ercole. Non ha mai sentito scrosciare le onde, ridere gli uomini, sbuffare i vaporetti sul pelo dell'acqua. Non ha mai sentito urlare Allah-Akbar sul calar della sera e non sa come una voce sciolga i muri, i frutti, i narghilè degli uomini seduti, il cammino dei muli per i vicoli in salita.
Quel mondo muto, insonorizzato, ai suoi piedi, minaccia di inghiottirla.
È strano ma, anche se i suoi circuiti uditivi mai sono entrati in funzione, Manar sa cos'è il silenzio. Ha un colore un po' più scuro delle parole. Allunga le ombre sino a renderle taglienti, come lame d'acciaio.
Ha il volto bluastro di sua madre seppellita sotto le macerie, quel giorno che il mondo è crollato tra scosse fortissime e ogni cosa, le porte, le mura, ma soprattutto il teatro, si è sgretolata, divenendo d'improvviso silenziosa. Più silenziosa.
A Manar sembrava di sapere qual era il suono del sorriso di sua madre. S'immaginava che le sue labbra appena schiuse aspirassero via tutto il male del mondo di fuori e al contempo le restituissero immagini per ogni rumore che non riusciva a sentire.
Sua madre muoveva le labbra e guidava le sue dita sulla tela. Le insegnava che a ogni suono non percepito corrispondeva un colore.
Il mondo iniziava a parlare, d'improvviso.
Quando veniva la sera, pressappoco alla medesima ora di questa sera, quando il grande gatto persiano sbadigliava sul suo cumulo di tappeti, la prendeva per mano, muoveva le labbra e le faceva disegnare Pierrot e Messalina sulla tela bianca.
Era il segno che sarebbero andate a teatro a vedere le maschere.
Manar era felice. Felice perché le maschere non hanno mai colori diversi. Parlano una lingua chiara, di poche parole, ben scandite dalle loro labbra di cera. Ma al contempo, non sono banali. Insegnano cos'è la tristezza, anche dietro un sorriso. Insegnano quante sono le sfumature di uno stesso colore. E Manar aveva imparato, tra sguardi dipinti, a sentire moltitudini di suoni, migliaia di storie.

-Non mi dirai che è una storia vera, Pierrot?
-Più vera di noi, Messalina.
-Allora è una storia molto triste.
-No, perché Dio è grande.
-E cosa ha fatto per lei?
-Le ha regalato noi, che siamo a suo modo le parole di cui si può fidare.
-Perché?
-Perché siamo Maschere. E le maschere sono come quelle parole universali, che non sono né buone né cattive. Non troppe, ma abbastanza per dipingere tutta una vita.
-Ed è per questo che lei non ride di noi?
-Già, non ride di noi.

Non ride, Manar, del suo Pierrot e della sua Messalina.
Sono manichini mascherati, una scenografia abbandonata nel tempo e nelle stagioni uguali sulla terrazza di fronte. Girati a tre quarti, si specchiano in ogni evoluzione del sole sulla linea dell'orizzonte. Le loro ombre, proiettate sulle finestre, sono i loro spettatori immaginari e gli immaginari compagni di Manar, in quella città che lei ha trasformato in teatro. Anche loro, forse, irretiti nei loro abiti e nelle loro facce di cera, s'illudono di poter continuare a far ridere e piangere una moltitudine di ombre.
Ma non ride Manar, del suo Pierrot e della sua Messalina.
Guardandoli le pare di vedere, davanti a lei, il suono che fa Allah-Akbar.
Alle sue spalle, una moltitudine di tele bluastre, moribonde nella sera e illuminate a stento da cinque lampioni giallognoli, su una parete bianca di silenzio.

(… ma prende vita la sera, sulle tele di Manar. Le sue dita disegnano nuovi scenari: Pierrot porta via Messalina. Una nave si allontana e attraversa lo Stretto di Gibilterra. Gli uomini si amano, nonostante tutto, senza alcuna parola...)