sabato 24 dicembre 2011

Clic (primo capitolo di un romanzo che non verrà mai scritto)

Il giorno che morì mio padre era una splendida giornata.
Le ciminiere mescolavano il loro fiato con la rarefazione delle nubi all'orizzonte e l'oceano sembrava fermo, scosso appena da una melodia di alghe, gialle e mollicce, che danzavano sull'acqua.
Guardavo quello spettacolo, di ceneri e vita, e pensavo che c'era una felicità struggente che colava a picco e non aveva nessun desiderio di essere salvata. Già, la felicità del dolore non vuol mica essere salvata e così scansa le pacche sulle spalle, il compianto, la compagnia.
Quella felicità è assurda come una ciminiera di lastre arancioni, seppellite nella ruggine, su un oceano bianco e grigio lambito di ginepri.

Tu eri un punto sulla spiaggia: avevi il promontorio che guardava dalla parte opposta alle ciminiere perché -come avrei scoperto in seguito- per te la bellezza è soprattutto negazione. Tu fai così, giri le spalle, e già ti basta per essere un altro, lontano dai fumi e dall'odore acre delle cose che bruciano per esistere. No, tu non bruci, tu non ti consumi. Non ti mescoli. Guardi, come farebbe un gatto, sornione, dall'alto e il mondo, semplicemente, ti gravita intorno. Funziona così, in ogni sistema solare. Solo che la tua forza di gravità è il cinismo e i pianeti sono donne incantate che fingono di non voler più sognare e invece usano il tuo nichilismo come una scarpa troppo stretta, giusto per allontanarsi, espandersi, riconquistare le distanze cosmiche che danno ordine all'universo, evitare un BIG BANG al contrario. Passano così, le tue donne, e vanno via senza clamore. E forse alcune, dopo essere passate, non ricordano il tuo nome, perché non c'è niente di concettuale in te, niente di artistico, niente di decadente. Sei così immanente, così corporeo, così materiale che difficilmente si potrebbe immaginarti fra qualche decina d'anni, con le rughe, senza capelli e con il bastone. Sì, talmente immanente da essere irreale: un corpo perfetto ritagliato da una tela, una tela dilettantistica che pensa che il Bello sia senza difetti e lo lascia lì, senza neanche sgualcirlo con un po' di umidità o con qualche lacrima del pennello.
Una tela a cui manca la vecchiaia. Sì, hai capito, la vecchiaia del pittore. E non parlo di anni, di mesi, di giorni, ma di quel tempo che bisogna concedere a un dolore. Il tuo pittore non aveva le mani, quando ti ha dipinto. Perciò non le ha sporcate.

E anche quel giorno, dall'apice della scogliera, ti osservavo perché non avevo mai visto un uomo bello senza colore.
Di uomini brutti, senza colore, se ne trovano qui e là e anche più in là. Sai che non hanno colore perché la loro anima e il loro corpo sono la stessa cosa: c'è stato un ni-ente che li ha spenti. Ma un uomo bello senza un goccio di rosso, una punta di blu, una frangia di viola, uno sprazzo di nero, è una scandalo quasi metafisico.
Vedevo la tua trasparenza, nella quale penetrava il murmure dell'oceano, il becco del gabbiano, il fumo della ciminiera, l'odore dolciastro del mirto, la bestemmia del pescatore con i baffi e anche un po' di quella mia struggente felicità, in bilico sopra la cenere.
Solo chi non ha l'anima può essere così accogliente. L'anima è un sasso che rimbalza sul pelo dell'acqua: provoca delle perturbazioni concentriche in chi gli sta vicino.

Tu, invece, sbiadito nella foschia, sembravi un Cristo che cammina sulle acque. Senza uno straccio di anima. Levitavi, eppure eri solo un uomo bello senza colore che faceva stretching senza piedi e senza anima, con le spalle girate alle esalazioni di un edificio senza bellezza. Avevi soprattutto ciò di cui eri privo.
Ero in vena di francesismi, perciò ti chiamai "Sans", chiamando al contempo una parte di me.
Vedevo queste cose e pensavo a mio padre. È morto in modo buffo, mio padre.
“Non devi dispiacerti, fa ridere”
Sono state le prime parole che ti ho detto, quando ti sei avvicinato, vedendomi vicina al mare, con il volto rigato di lacrime: ero un'icona del suicidio e tu sembravi piuttosto preoccupato.
“Fa ridere. Davvero.”

E in effetti mio padre era morto in maniera davvero assurda: ossessionato che gli rubassero i suoi averi, aveva ottenuto il porto d'armi e dormiva sempre con la pistola sul comodino. La notte della sua morte, era squillato il telefono e anziché impugnare la cornetta, aveva impugnato la pistola. E così, con un solo clic, era uscito dalla vita.
Senza avere il tempo di disperarsi, di recriminare, di salutare.
Clic.
Buffo, non trovi?
Era una vita che faceva clic per uscire.
Lo aveva fatto anche quando mi aveva lasciata, il giorno del mio quinto compleanno.
Aveva fatto clic quando mi aveva chiesto di pregare per la sopravvivenza della mia nuova sorella(stra), nata con un cortocircuito nel cuore. Io avevo giunto le mani e avevo detto, sottovoce, sotto un albero stecchito, in una notte gelida di gennaio “Padre nostro, che sei nei cieli”, e intanto dentro di me pioveva, di quelle piogge che non bagnano, ma sembra ti scalfiscano la pelle, come carta vetrata, mentre dall'altra parte del vetro non pare neanche che quell'acqua esista davvero.
Aveva fatto clic quando era ritornato in casa di soppiatto, una notte, per portarsi via una stanza di mobili e di libri.
Aveva fatto clic quando era scomparso per compiacere una donna che desiderava che nessuno sapesse della sua vita precedente.
Aveva fatto clic quando si era presentato, in un giorno di scuola qualunque, con una nuova donna al suo fianco, a dire che si era pentito.
E aveva fatto clic quando di nuovo era scomparso, per non dare un pugno di soldi.
Era un tipo così: non parlava, non viveva, non amava. Faceva clic.
Perciò non poteva che morire così.
Il clic era la soluzione più semplice: lui era il classico tipo d'uomo per il quale non esiste quella struggente felicità. Niente avrebbe potuto divorare il suo meccanismo di clic. Neanche un cancro. Neanche l'apocalisse. Neanche Dio.
Il grilletto della sua pistola era un grilletto epicureo, in balia di intersezioni casuali dell'asse del tempo con quello dello spazio.

Perciò, ti ho detto, questa è davvero una storia da ridere, uomo senza colore.
Non preoccuparti, lo so che non puoi darmi le mani. Un pittore senza mani non sa disegnare un uomo con le mani, così come un pittore epicureo scambia facilmente una pistola per la cornetta di un telefono. È un equivoco filosofico-ontologico-gnoseologico.
E io? Io non lo so.
Non sono il tipo che cammina su una spiaggia di fuliggine industriale con uno sconosciuto.
Ma ci sono le rondini. Persino loro tornano sui loro passi, quando è una splendida giornata.