martedì 17 maggio 2011

S'una barca di carta a quadretti in un oceano di pioggia

Da leggersi in abbinamento a questa coreografia
http://www.youtube.com/watch?v=fvGceaFTne8

Il nostro regista ha oscurato il sole.
L'ha sostituito con un pulviscolo cinereo, che ora fa cerchi nell'aria, su un terriccio melmoso, liquefatto da un calore denso, dove lasciamo le impronte. Dove, come su un vecchio stampo di cera, ritroviamo le sagome di ciò che siamo stati.

Ti sorreggo sotto le ascelle, donna senza volto. E potresti essere ciascuna donna che ho incontrato o nessuna. Ecco perché visceralmente mi lego a te e ai tuoi movimenti convulsi. Perché temo che potrei essere l'unico e l'ultimo. L'unico e ultimo sopravvissuto alla catastrofe, tra spettri di alberi bianchi, esalazioni di fabbriche lontane, torridi rivi bluastri, cenere e ancora cenere.

Ancora un'impronta, a farmi compagnia. Dai, ancora una. Cammina! Muoviti! Anche se è solo una corea indefinita, un automatismo senza anima, un vorticare dopo l'esplosione l'incedere del tuo passo. Io ti sorreggerò, perché la morte è una danza incosciente verso l'infinito.

Hai gli occhi azzurri, donna senza volto. Un rimasuglio di esistenza che specchia il mondo vuoto. Ti chini sul terreno melmoso. Accarezzi ciò che è seppellito e io ti vedo, pur tra fumi accecanti: sei la prima bambina che ho amato e i contorni delle cose tra le tue dita sono formine sulla sabbia... una rana, un vaso greco, una mano, sottile, che, pur nel colore ocra della rena, non potrebbe che essere bianca; una città intera: finestre che sono occhi, tegole che son capelli, fondamenta che sono scarpe dell'unico grande essere meditabondo e scomparso sotto nuclei densi di pianeti; roseti che ricordi, profumi che si mischiano e ci cullano, passo dopo passo, salto dopo salto, nell'ebbrezza di essere qui, soli, in seno al "non più" e al "non ancora", ai lati del tempo. Ti chini, cerchi e ti trovi, tra milioni di occhi spenti, tra miliardi di capelli sepolti. A ogni cosa sembri dare silenziosamente e impercettibilmente un nome.

Non lasciarti seppellire. Noi ce la possiamo fare, anche se i muri sono sgretolati, se il giorno non è più altro dalla notte, anche se le nostre scarpe sono appigli per i morti, lapidi di un cimitero immenso. Perché io sono un uomo e tu sei ogni donna possibile.

Non chiudere gli occhi, non smettere di camminare, dammi la mano.
Il nostro regista ha scritto che dobbiamo cercare, per ogni formina, per ogni essere, per ogni nome, un altro nome, un altro essere, un'altra formina.
Padre-madre; maschio-femmina; stame-polline; uovo-seme.
Bene-male; luce-buio; vita-morte; spazio-tempo.

Non ci serve altro, per fare ordine.
Scaviamo, scaviamo più forte!
Ora che non sei più bambina, ora che sei già un po' più donna e non ti accontenti più dei contorni delle cose, ora tu sei madre. Ora che non ti basta conoscere i lineamenti dei tuoi figli con interposto uno strato spesso di pelle, ora che li hai immaginati, li hai cresciuti dentro di te, hai dato loro un nome, adesso tu vuoi estrarli dal tuo ventre, dai tuoi occhi, dalla polvere e dall'oscurità. Perché ora tu sei madre, e non puoi accettare che rimangano sotto strati e strati di buio.

Hai un volto, donna senza volto.
Cammina sul mio cammino, non desistere.
Questo mondo, in fondo, è sempre lo stesso mondo.
I nostri ricordi sono sempre i nostri ricordi.
E noi dovremo essere i ricordi di tutti. Perché noi siamo gli ultimi e saremo i primi.

Costruirò una barca, per portarti lontano.
Non dire che non c'è più acqua, perché, vedi, dopo ogni catastrofe cade sempre la pioggia.
La pioggia è il premio, per chi rimane.
La senti? Ti lava via piano la fuliggine dal volto, donna senza volto. Squarcia il cielo, apre un varco tra la polvere.
Queste nuvole sono sempre le stesse nuvole. Bianche, bianchissime. Un tatuaggio perlaceo sul cielo nero.
Noi siamo sempre noi, e forse qualcosa in più.

Io ti sorreggerò, perché la vita è una danza incosciente verso l'infinito.

È pronta la nostra barca. Una barca di carta su un oceano di pioggia.

Siamo due sagome di carta a quadretti.

Ci voltiamo verso la riva e aspettiamo a gettare l'ancora.
Un esercito di esseri avanza verso di noi: una coppia d'asini, due uccelli variopinti, due gatti sornioni, due cani dagli occhi buoni, una coppia di scimmie impaurite con in mano una pianta con tutte le radici, un nugolo d'api, due serpenti. Vengono in fila, alteri, silenziosi, non preda, non predatori. Si sanno indispensabili gli uni agli altri. Si guardano negli occhi. Si accalcano a bordo, si acquietano nello sciabordio delle onde.

Siamo un esercito di esseri complementari che viaggia su una barca di carta in un oceano di pioggia.

Ancora non sappiamo dove andremo.

Il nostro regista taglia e ritaglia con cura meticolosa tutti i fogli del suo quaderno. Ha un volto paffuto, gli occhi azzurri, quasi come i tuoi. Dice che da grande vuol fare l'ingegnere biblico oppure lo scultore oppure l'astronauta.

Gli ho chiesto cosa abbiano in comune queste tre professioni e lui mi ha risposto:
“L'arca di Noè”.