giovedì 14 aprile 2011

La meta è non pesare sull'esistenza più di una coccinella su un petalo, in un cielo di primavera

Ti sciogli in un pianto impercettibile sotto il peso della mia mano.
Non so come tu ricordi, ma so per certo che ti stai muovendo, già un po' più in là di questo tuo corpo, con le movenze flessuose che ti sono appartenute, tra colline di nebbia e neve e poi, d'improvviso, verdissime, disseminate di punteggiature gialle e viola.

Ti sfioro le orecchie, dunque la schiena. Piangi un po' più forte. La tensione si allenta sui tuoi muscoli rigidi, scaldati appena da una coperta termica e una borsa dell'acqua calda, nel buio silenzioso e insopportabile di questa stanza.
Noi siamo amici, anche questo lo ricordi tra i ricordi di un campo di punteggiature gialle e viola. Lo siamo sempre stati e non c'era un motivo perché dovesse essere così. Tu eri in me ed io ero in te. Ci correvamo incontro, su un linea retta immaginaria, tra un filare di alberi e il tuo essere un punto, tra i punti gialli e viola. Ti nascondevi dietro la violacciocca, quella più alta, attendevi che ti fossi vicino e fingevi di sorprendermi, con un balzo a quattro zampe. Allora io ridevo e a te piaceva che io ridessi, infatti mi pareva che, nel tuo linguaggio di suoni acuti, subito lo facessi anche tu, mentre mi sfioravi con un colpo di coda e uno di baffi e ti posizionavi composto davanti alla ciotola.
Mi ricordo che non concedevi al mio tatto nient'altro che la coda.
Eppure mi accompagnavi per tutto il lungo tratto di strada sterrata, alla base della collina rotonda abitata di larici e ogni giorno la tua coda mi pareva sempre un po' più lunga.

Piangi, rompi il silenzio, perché noi siamo amici, questo te lo prometto, da qui all'eternità.
Te lo sussurro e, memore del nostro codice, allento la presa sulla testa. Non voglio varcare i tuoi spazi, tu mi hai concesso solo la coda. E... sì, mi pare che tu stia di nuovo ridendo.
Non sei molto cresciuto, in questi sette mesi. Staresti bene dentro le mie due mani. Piangi più piano, perché la tua voce si ferma, in un punto della tua gola.
Sarà questa la tua ultima carezza, lo sa una parte di me, mentre chiude la gabbia e ti promette il prato giallo e viola, una cascata di croccantini verdi e rossi, ancora un'altra passeggiata sulla strada sterrata che costeggia la collina rotonda dei larici. Perché c'è il sole, adesso, e in fin dei conti, tu sei solo un bambino. Perché hai vissuto troppi mesi tra sentieri di nebbia e di neve. Perché la tua andatura ridicola è un punto di rottura con il mondo là fuori, il mondo del gelo, il mondo del buio e del silenzio. Perché è giusto così e, dunque, mi convinco, sarà così. Sparisci sotto la coperta termica e, senza la mia mano, torna il silenzio.

Esistiamo solo al cospetto di qualcuno.

Ecco perché, stamattina, sotto un sole poco lucente e molto abbagliante, tra lussureggianti foglie di bouganville, non so rassegnarmi al pensiero che il tuo corpo rigido ancora si rianimerebbe al tocco della mia mano.
Protesto: c'è stato un malinteso. Non ho mai smesso di pensarti qui, lungo la strada sterrata, nascosto dietro la violacciocca. Guardala, è ancora qui, bianca, candida, deformata a tua immagine. Aspettate! Lui non è morto, mi sta solo attendendo, composto, inerme, su una borsa dell'acqua calda.

No, non dovevo addormentarmi. Non dovevo staccare il mio pensiero da te. Questo dev'essere stato l'errore. Perciò non ti muovi più al tocco della mia mano.

Una stanza buia occupata solo da un silenzio insopportabile. Odore di disinfettante. Se muori tu, muore la ripetizione stereotipata dei gesti, muore l'eternità. Muore la felicità. Se muori tu, muoio infinite volte, tante quanti sono i giorni lunghi sotto una collina rotonda. Muoio centinaia di primavere, migliaia di sagome di violacciocche identiche.

Guardo il tuo pelo, grigio e bianco. Un naso rosa come un archetipo infantile. Eravamo amici, di un patto sacro e inviolabile.

Si deforma, adesso, il tuo corpo, come al tocco di uno scultore che modella l'argilla: il tuo naso si allunga, il pelo si dirada, le zampe diventano gambe e braccia. Una strada sotto un arco di rose, gialle, bianche, rosa, quasi viola. Tu sei una bambina, con un vestito bianco.
Ero amica di quella bambina, di un patto viscerale e inviolabile. Si nascondeva dietro le rose, mi pregava di portarla sempre con me.
Io protestavo: "io devo andare, tu rimani sempre qui, chiusa tra le rose!".
Lei mi guardava, nascosta dietro i petali, sbiadita nel lucore di una vecchia foto opaca. Allora sorridevo e così mi pareva che, pur nell'immobilità dello scatto, qualcosa di affine al mio sorriso si muovesse sulle sue labbra.
Non è cresciuta tanto, quella bambina, in questi ventiquattro anni.
Mi faceva segno di andare, prima o poi sarebbe tornata. Chiudevo la foto dentro il cassetto, non senza averle carezzato i capelli e il lungo vestito bianco, non senza aver respirato le rose nel suo respiro. La chiudevo dentro una gabbia fredda e buio e, di colpo, cessava di parlare.

Esistiamo solo al cospetto di qualcuno.

Andavo avanti, sempre avanti.
Gli amici, quelli veri, non si perdono mai. Ti lasciano qualcosa negli occhi, un sapore tra le labbra, una brezza nelle narici, un sesto senso per vedere chi si nasconde dietro i fiori.

I miei amici hanno tutti lo stesso nome: si chiamano After, perché non hanno un prima. Non c'è un prima nella ritualità di un'amicizia: c'è solo una movenza eterna, uno spazio inviolato che, nel tempo, si conserva. Una strada di fiori che, anche vuota, è colma di venti che prendono forma e plasmano l'assenza in un ricordo che diventa materia, spessa, ontologica, possente.

Si chiamano After perché, per contemplare l'eternità, bisogna trovarsi necessariamente in un "dopo".

I miei amici si lasciano accarezzare e, poi, mi prendono per mano. Mi portano sull'apice della collina rotonda abitata dai larici.
Sotto, scorre l'eternità: la bambina che sono stata in un tunnel di rose, con un vestito lungo di balze; un gattino grigio e bianco che non voleva saperne di crescere e rimaneva sempre piccolo come due mani accostate; un filare di alberi verdi come centinaia di promesse di non-oblio, tante, tantissime impronte su una strada sterrata; un uomo bello, che ho sentito raccontare nelle parole di mia madre, un sogno vivido di romanticismo, che rimane laggiù, al termine della strada, come una promessa rossa d'amore, cui consegno quotidianamente l'ultimo fiore.

Che strano, non aver mai pensato di salire all'apice di una collina rotonda.

Gli amici, quelli veri, non si perdono mai.
Ti lasciano qualcosa negli occhi, un sapore tra le labbra, una brezza nelle narici, un sesto senso per vedere chi si nasconde dietro i fiori. Una coccinella pesa poco, After, sulla tua violacciocca. È bella. È rossa. Vola nella rarefazione dell'aria e si posa sulla mia mano.

Perché, a dispetto dell'evoluzione, After, desideriamo essere sempre più piccoli.
Perché, After, la meta è non pesare sull'esistenza più di una coccinella su un petalo in un cielo di primavera. Per questo, After, da oggi sento che mi porterai fortuna.

Ad After, Nostalgia e Last, morti avvelenati.
Ad ogni bambino interno che avveleniamo con il nostro cinismo.
Ai segni, che non voglio mai smettere di "cogliere".
A Survy, che è sopravvissuta e che porta in sè un pezzo di tutti loro.