giovedì 10 marzo 2011

Con in mano una rosa astratta




Tu dirai che la nebbia può fare molti scherzi. O -peggio- penserai che io chiami in causa il tempo atmosferico, per giustificarmi con te.

No, perché la nebbia non scherza mai.

C'erano appena settecento passi -l'asfalto invernale, coperto di detriti di ghiaccio, ticchetta come un orologio, sai?- tra me e te.
Settecento momenti in sequenza su una pellicola, milleduecento respiri, altrettanti deja vù.

Non sapevo in che direzione, però. La nebbia cancella i punti cardinali esterni, amore mio. Trasuda dai Navigli, scrive trame nel freddo. Non è fluida, questo no, perciò l'occhio non si abitua alla nebbia come al buio. C'è sempre uno spazio vuoto, tra gli strati della nebbia, che l'occhio umano colma con le immagini confuse della sua mente.

Cinquecento passi, poi, ne ero certo. Il mondo era andato avanti. La nebbia avvolgeva i fili del tram, mitigava il grigio del cielo, parlava la lingua del fiume. Era un ponte su un corso d'assenza- fluisce, l'assenza, l'hai mai sentita?-, un vertiginoso ponte aereo e spettrale, che inghiottiva ogni altro interposto fra me e il mio obiettivo: te.

E camminavo più veloce. Le rose, nella nebbia, sono poeti notturni: fioriscono a prescindere dalla possibilità di essere guardate. Ti ho comprato la rosa. Tra le cento rose nel vaso, quella s'incastonava nella nebbia e la dipingeva: un ideogramma di balze, stilizzate e sovrapposte, tratti curvilinei nel cielo bianco. Quella rosa eri tu.

Trecento passi, perché ti sentivo più vicino. Il mio cielo era senza guglie, finalmente (tutte quelle orribili guglie, che dirigono il cammino, levigano in pinnacoli l'ideale, deviano con cocci di vetro la luce). La mia terra era senza semafori, senza aiuole, senza asfalto. Un universo primordiale e sospeso. Io, una sagoma nera, senza sopra e senza sotto, quasi uno scarabocchio su un foglio esistenziale. In mano una rosa astratta.

E camminavo più lento. Per bere la nebbia a fondo, epurare i pensieri. Spogliarmi, spogliarti. Via gli orologi, via gli anelli. Via le stagioni dal volto. Via il padre, via la madre. Via gli alberi e le scale. Via i palcoscenici. Via gli attori.

Cento passi, perché cominciavo a sentirti sulle ciglia e nelle narici. Una galleria, trafitta dalla nebbia, è un buio un po' più bianco. Ma resta pur sempre una galleria, con un prima e un dopo, ai margini di due esteriorità che aspettano di incontrarsi. Nel mezzo, murato da pietre spesse e disegni arancioni e blu, noi.

E non camminavo più. Attendevo al centro, nel mio mondo sospeso tra i suoni del dentro e del fuori. Gocce: tic-tic-tic. Un tempo senza “-tac”, fermo, dentro.
Passi, parole, sibili. Un tempo consueto, tic-tac, fuori.

Mi hai sfilato la rosa dalle mani. Le tue labbra erano lo stesso ideogramma di balze, stilizzate e sovrapposte, tratti curvilinei nel mondo roboante della galleria. Linee di Kandinskij le tue braccia. Punti di Seurat il tuo iride. Abbraccio di Klimt il nostro incontro. Orologi di Dalì il tempo. Tela di Magritte lo spazio.

No, non ti ho tradita, ieri nella nebbia. Tu eri lei, dopo esserti spogliata. Lei era te, senza centinaia d'involucri. Ci sei stata, ieri, contro ogni evidenza.
Perché la nebbia, amore, non scherza mai.