giovedì 10 febbraio 2011

REGRESSIONE AUTOPTICA (sconsiglio la lettura ai minori di diciassette anni, ai benpensanti, ai facilmente scandalizzabili, ai "romantici convenzionali")

L'obitorio è una struttura grigia, in fondo ad un grande viale alberato e anonimo che, d'inverno, si tinge dei miasmi densi della nebbia.
I carri funebri passano con indifferenza, scaricando salme come merce ordinaria e fiori come arti decapitati per far compagnia alla morte.
Un vecchio giornalaio decrepito osserva la cronaca mortuaria con gli occhi vuoti.
Le tombe vengono fatte entrare in tutta fretta.
Il cadavere, freddo, penetra in un'altra freddezza, a forma di cassetto.

Lui osserva sempre, avvolto in un cappotto verdastro, il bieco rituale.
Pare un conversatore sbiadito della Morte.
Il suo sguardo sembra penetrare il mogano, aprire le celle mortuarie, rianimare i cadaveri.
Non è né giovane né vecchio e forse non esiste davvero.

Passi che echeggiano sull'asfalto. Cigolare di porta che sembra rompere il ritmo consunto di una bobina. Scale in discesa, verso gli Inferi. Provette allineate sugli scaffali. Freddo.
Non sa più chi sia l'oggetto del suo amore.

Dunque la vede, solo quando è fuori è buio abbastanza, il silenzio assoluto, la luce del neon crea un rumore metallico di corrente tra gli elettrodi.
È avvolta nel suo abito verde, dietro il vetro, china sul tavolo operatorio. Una chioma fluente di capelli biondi, raccolti in una crocchia che, sensuale, lascia intravvedere il collo bianchissimo, due labbra carnose e leggermente schiuse, che sussurrano impercettibilmente qualcosa all'uomo nudo, inerme, bluastro, che giace sul metallo freddo,

Si sporge sino al lobo dell'orecchio destro, per un'altra parola sottovoce, dunque inarca indietro la schiena e con un click lascia che sia la nona sinfonia a coprire il suo dialogo muto con quell'uomo che è stato e che, sotto il tocco cadenzato delle sue mani, sembra sciogliere, a poco a poco, le rigidità mortuarie, riassorbire le ipostasi rossastre che gli affollano il petto e il dorso, ricomporre i lineamenti, sfigurati da un soffocamento improvviso, inatteso, terrorizzante.

Sta in piedi dietro il vetro e la osserva passare carezzevole il dito guantato sul segno circolare, profondo, a cadenze cromatiche tra il verde, il giallo e il blu che circoscrive il suo collo perlaceo e deforme.
E già cresce la sua eccitazione: un battito febbrile si sintonizza col crescendo della musica dietro il vetro, il suo viso si imperlina di una lucentezza vivida, gli occhi si fissano sull'oggetto dell'osservazione, disegnando trame di ossessione e abnegazione.

Lei ripassa le fasi della morte: esplora la sclera bianca e traslucida, gli inumidisce le labbra con un batuffolo di cotone intriso di formalina, gli rasa il cranio con una movenza languida, circolare, carezzevole, dunque gli cinge i fianchi, tastandogli il membro flaccido, per tornare infine al torace e alle mammelle. Impugna la sega, con un sorriso che sono tanti sorrisi messi insieme: il sorriso astratto di un pittore davanti al suo dipinto, quello di una madre che cinge il figlio per la prima volta, imbrattato ancora di vita fetale dopo il parto, quello di un'amante dopo una scena d'amore consumata con la mente, accanto a un partner dormiente. Un sorriso che infligge una vita artificiale a un soggetto inerme. Un sorriso che pare elevarsi nella stanza, inserirsi nell'odore di formalina e cadavere, scioglierli nel sapore di un amplesso eterno, che esclude la decomposizione.

Quel sorriso incrocia il sorriso di lui, che dietro il vetro porta avanti il suo godimento solitario, mentre vivifica in sé il ricordo stantio del sacrificio. Ogni incisione sul corpo del suo alter-ego sul tavolo è una scossa di dolore e piacere sul suo corpo. La sega emette un rumore meccanico, che sembra sconquassare il battito residuo di quel cuore.
Un cuore estratto, tenuto fra le mani, osservato, vivificato da un alito di respiro, massaggiato in tutto il suo essere cereo, sollevato in aria, come un'ostia sull'altare, dunque precipitato in un contenitore ovalare, chiuso ermeticamente da un coperchio di plastica e sistemato sullo scaffale più alto.

Lei scopre ogni ultimo attimo di quel cuore. Ne intuisce le fibrillazioni, sonda i cortocircuiti tra le fibre non più contrattili, le trasforma in sensazioni: obnubilamento, senso di morte imminente, mentre la corda gli cingeva il collo, fame d'aria, convulsioni, spasmi involontari.
Spia nel corpo un rigor terrorizzato, immobilizzato in una smorfia che sa di rabbia, per esser stato, incredulo, beffato. Si protende verso quel rigor, con tutta la sensualità delle sue forme, gli spinge le palpebre sugli occhi sbarrati.

Lui conosce ogni ultimo attimo di quel cuore: una benda calata sugli occhi, perché morire al buio è come cancellare il ricordo, portare la vittima nelle tenebre, ad un prima intenso e vuoto. È come privarla del controllo sulla propria morte e, di conseguenza, sulla propria vita.
Una benda calata sugli occhi e un uomo è già morto.
Implora supplichevole che gli venga restituita la vista, ancora prima della vita.
Una benda calata sugli occhi e un corpo che si dimena, sotto la stretta di due guanti freddi di pelle. Agita le braccia e le gambe, si strozza nel pianto.
Sa che morirà e non si è preparato a questo.
Pensa a come aveva immaginato la sua morte: un attimo sublime di esistenza, avvolto di un bianco luminoso, quasi accecante. Una mano stretta nella sua. Molte rughe sul viso. Una regressione estrema, un ritorno all'utero.
Invece la sua sarà una morte cieca. La sua nascita nella Morte non sarà consolata da nessuna immagine materna.
Una corda spessa che gli cinge la gola.
E un maledetto silenzio.
Vorrebbe che il suo aguzzino parlasse, ma sente solo fibrillazioni, e non sa se siano del suo cuore o una strana energia che fluisce dal suo esecutore.
Il buio diventa trasparente, mentre l'osso ioide si spezza con un suono sordo, il volto si scompone nella cianosi, il respiro si fa irregolare. Lui e l'assassino sono un'unica cosa: respirano la stessa angoscia, un ultimo barlume di eccitazione, dunque si afflosciano in un requiem senza fine.

Donarle quella morte è come renderla continuamente madre dei loro figli che ha partorito morti.
Nove mesi di convulsa attesa.
Uno, due, tre feti immobili, con gli occhi sbarrati, asfissiati.
Una madre che osserva un volto idropico, gonfio di liquido amniotico che lo ha soffocato, anziché esercitare la sua funzione ammortizzante, che deve forzatamente amare la morte, di un amore viscerale, per non uccidere quel bambino; che deve accoppiarsi con la Morte, per generare un bambino vivo.

Le sue mani spariscono negli anfratti del corpo di lui. Estraggono parti, organi, membra.
Avvince a sé pezzi del suo amante occasionale e li inscatola accanto ad altre parti, ad altri amanti. Mano a mano che la musica raggiunge il suo acme, il suo scavare si fa sempre più accelerato, la sua mente meno lucida, la sua sensualità più violenta, i suoi occhi emanano liquidità dense, che si commistionano a quegli organi fermi, e paiono instillare una vitalità momentanea, esalata a caduta come da una sacca di fleboclisi.

Talora i loro sguardi si incrociano: quel sorriso astratto, silenzioso e maliziosamente ambiguo è scomparso. Sono due amanti troppo vicini per sorridersi. Attingono il loro piacere da una stessa fonte.

Quel corpo è sempre più piccolo: taglia, dunque cuce le estremità tagliate, le assembla, come una donna che fa l'uncinetto.
Il cadavere muore ancora e ancora, mentre gli vengono portate via le espressioni sul volto, i muscoli dalle inserzioni ossee, mentre svaniscono le sue connessioni neuronali, sotto lame fredde e appuntite.

Anche lui, dietro il vetro, muore ancora e ancora. Muore di nuovo in tutte le sue vittime. Muore di nuovo in tutti gli amplessi con lei. Muore di quel piacere estremo che lei porta: seziona il piacere, parte per parte. Fa l'amore con ogni organo. Lo estrae, lo rende amante, dunque lo uccide nell'attimo del sussulto, annegandolo nel liquido.
Il suo amante deve regredire, rimpicciolirsi, spogliarsi dei suoi tratti, per penetrare dentro di lei. E rimanerci per sempre.

Una massa rotonda. Un cranio malleabile. Arti che sono ossa sottili.
Impugna il bisturi per l'ultimo tocco.
Trancia il membro di netto, da parte a parte.

La musica sfuma.

Un piccolo essere asessuato residua sul tavolo.
Potrà essere ancora.

Gli amanti, sfiniti, si congedano ai due lati del vetro, osservando il riflesso del loro concepimento, come ad una prima ecografia

6 commenti:

  1. Inquietante introspezione sulla vita e sulla morte e i suoi labili confini. La tua scrittura allucinata è sempre una spina nel fianco. Lo leggerei altre mille volte.

    Vi

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  2. Lo sgomento, quello vero, quello che ti fa stare bene perchè la nostra vita è solo una goccia nel mare dell'avanzare della natura. Meravigliosa questa urgenza di scrivere. Grazie!
    Ivan

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  3. magnolia e ivan, vi ringrazio profondamente per la lettura!

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  4. !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !!! !

    SENZA PAROLE.

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