sabato 24 dicembre 2011

Clic (primo capitolo di un romanzo che non verrà mai scritto)

Il giorno che morì mio padre era una splendida giornata.
Le ciminiere mescolavano il loro fiato con la rarefazione delle nubi all'orizzonte e l'oceano sembrava fermo, scosso appena da una melodia di alghe, gialle e mollicce, che danzavano sull'acqua.
Guardavo quello spettacolo, di ceneri e vita, e pensavo che c'era una felicità struggente che colava a picco e non aveva nessun desiderio di essere salvata. Già, la felicità del dolore non vuol mica essere salvata e così scansa le pacche sulle spalle, il compianto, la compagnia.
Quella felicità è assurda come una ciminiera di lastre arancioni, seppellite nella ruggine, su un oceano bianco e grigio lambito di ginepri.

Tu eri un punto sulla spiaggia: avevi il promontorio che guardava dalla parte opposta alle ciminiere perché -come avrei scoperto in seguito- per te la bellezza è soprattutto negazione. Tu fai così, giri le spalle, e già ti basta per essere un altro, lontano dai fumi e dall'odore acre delle cose che bruciano per esistere. No, tu non bruci, tu non ti consumi. Non ti mescoli. Guardi, come farebbe un gatto, sornione, dall'alto e il mondo, semplicemente, ti gravita intorno. Funziona così, in ogni sistema solare. Solo che la tua forza di gravità è il cinismo e i pianeti sono donne incantate che fingono di non voler più sognare e invece usano il tuo nichilismo come una scarpa troppo stretta, giusto per allontanarsi, espandersi, riconquistare le distanze cosmiche che danno ordine all'universo, evitare un BIG BANG al contrario. Passano così, le tue donne, e vanno via senza clamore. E forse alcune, dopo essere passate, non ricordano il tuo nome, perché non c'è niente di concettuale in te, niente di artistico, niente di decadente. Sei così immanente, così corporeo, così materiale che difficilmente si potrebbe immaginarti fra qualche decina d'anni, con le rughe, senza capelli e con il bastone. Sì, talmente immanente da essere irreale: un corpo perfetto ritagliato da una tela, una tela dilettantistica che pensa che il Bello sia senza difetti e lo lascia lì, senza neanche sgualcirlo con un po' di umidità o con qualche lacrima del pennello.
Una tela a cui manca la vecchiaia. Sì, hai capito, la vecchiaia del pittore. E non parlo di anni, di mesi, di giorni, ma di quel tempo che bisogna concedere a un dolore. Il tuo pittore non aveva le mani, quando ti ha dipinto. Perciò non le ha sporcate.

E anche quel giorno, dall'apice della scogliera, ti osservavo perché non avevo mai visto un uomo bello senza colore.
Di uomini brutti, senza colore, se ne trovano qui e là e anche più in là. Sai che non hanno colore perché la loro anima e il loro corpo sono la stessa cosa: c'è stato un ni-ente che li ha spenti. Ma un uomo bello senza un goccio di rosso, una punta di blu, una frangia di viola, uno sprazzo di nero, è una scandalo quasi metafisico.
Vedevo la tua trasparenza, nella quale penetrava il murmure dell'oceano, il becco del gabbiano, il fumo della ciminiera, l'odore dolciastro del mirto, la bestemmia del pescatore con i baffi e anche un po' di quella mia struggente felicità, in bilico sopra la cenere.
Solo chi non ha l'anima può essere così accogliente. L'anima è un sasso che rimbalza sul pelo dell'acqua: provoca delle perturbazioni concentriche in chi gli sta vicino.

Tu, invece, sbiadito nella foschia, sembravi un Cristo che cammina sulle acque. Senza uno straccio di anima. Levitavi, eppure eri solo un uomo bello senza colore che faceva stretching senza piedi e senza anima, con le spalle girate alle esalazioni di un edificio senza bellezza. Avevi soprattutto ciò di cui eri privo.
Ero in vena di francesismi, perciò ti chiamai "Sans", chiamando al contempo una parte di me.
Vedevo queste cose e pensavo a mio padre. È morto in modo buffo, mio padre.
“Non devi dispiacerti, fa ridere”
Sono state le prime parole che ti ho detto, quando ti sei avvicinato, vedendomi vicina al mare, con il volto rigato di lacrime: ero un'icona del suicidio e tu sembravi piuttosto preoccupato.
“Fa ridere. Davvero.”

E in effetti mio padre era morto in maniera davvero assurda: ossessionato che gli rubassero i suoi averi, aveva ottenuto il porto d'armi e dormiva sempre con la pistola sul comodino. La notte della sua morte, era squillato il telefono e anziché impugnare la cornetta, aveva impugnato la pistola. E così, con un solo clic, era uscito dalla vita.
Senza avere il tempo di disperarsi, di recriminare, di salutare.
Clic.
Buffo, non trovi?
Era una vita che faceva clic per uscire.
Lo aveva fatto anche quando mi aveva lasciata, il giorno del mio quinto compleanno.
Aveva fatto clic quando mi aveva chiesto di pregare per la sopravvivenza della mia nuova sorella(stra), nata con un cortocircuito nel cuore. Io avevo giunto le mani e avevo detto, sottovoce, sotto un albero stecchito, in una notte gelida di gennaio “Padre nostro, che sei nei cieli”, e intanto dentro di me pioveva, di quelle piogge che non bagnano, ma sembra ti scalfiscano la pelle, come carta vetrata, mentre dall'altra parte del vetro non pare neanche che quell'acqua esista davvero.
Aveva fatto clic quando era ritornato in casa di soppiatto, una notte, per portarsi via una stanza di mobili e di libri.
Aveva fatto clic quando era scomparso per compiacere una donna che desiderava che nessuno sapesse della sua vita precedente.
Aveva fatto clic quando si era presentato, in un giorno di scuola qualunque, con una nuova donna al suo fianco, a dire che si era pentito.
E aveva fatto clic quando di nuovo era scomparso, per non dare un pugno di soldi.
Era un tipo così: non parlava, non viveva, non amava. Faceva clic.
Perciò non poteva che morire così.
Il clic era la soluzione più semplice: lui era il classico tipo d'uomo per il quale non esiste quella struggente felicità. Niente avrebbe potuto divorare il suo meccanismo di clic. Neanche un cancro. Neanche l'apocalisse. Neanche Dio.
Il grilletto della sua pistola era un grilletto epicureo, in balia di intersezioni casuali dell'asse del tempo con quello dello spazio.

Perciò, ti ho detto, questa è davvero una storia da ridere, uomo senza colore.
Non preoccuparti, lo so che non puoi darmi le mani. Un pittore senza mani non sa disegnare un uomo con le mani, così come un pittore epicureo scambia facilmente una pistola per la cornetta di un telefono. È un equivoco filosofico-ontologico-gnoseologico.
E io? Io non lo so.
Non sono il tipo che cammina su una spiaggia di fuliggine industriale con uno sconosciuto.
Ma ci sono le rondini. Persino loro tornano sui loro passi, quando è una splendida giornata.

martedì 17 maggio 2011

S'una barca di carta a quadretti in un oceano di pioggia

Da leggersi in abbinamento a questa coreografia
http://www.youtube.com/watch?v=fvGceaFTne8

Il nostro regista ha oscurato il sole.
L'ha sostituito con un pulviscolo cinereo, che ora fa cerchi nell'aria, su un terriccio melmoso, liquefatto da un calore denso, dove lasciamo le impronte. Dove, come su un vecchio stampo di cera, ritroviamo le sagome di ciò che siamo stati.

Ti sorreggo sotto le ascelle, donna senza volto. E potresti essere ciascuna donna che ho incontrato o nessuna. Ecco perché visceralmente mi lego a te e ai tuoi movimenti convulsi. Perché temo che potrei essere l'unico e l'ultimo. L'unico e ultimo sopravvissuto alla catastrofe, tra spettri di alberi bianchi, esalazioni di fabbriche lontane, torridi rivi bluastri, cenere e ancora cenere.

Ancora un'impronta, a farmi compagnia. Dai, ancora una. Cammina! Muoviti! Anche se è solo una corea indefinita, un automatismo senza anima, un vorticare dopo l'esplosione l'incedere del tuo passo. Io ti sorreggerò, perché la morte è una danza incosciente verso l'infinito.

Hai gli occhi azzurri, donna senza volto. Un rimasuglio di esistenza che specchia il mondo vuoto. Ti chini sul terreno melmoso. Accarezzi ciò che è seppellito e io ti vedo, pur tra fumi accecanti: sei la prima bambina che ho amato e i contorni delle cose tra le tue dita sono formine sulla sabbia... una rana, un vaso greco, una mano, sottile, che, pur nel colore ocra della rena, non potrebbe che essere bianca; una città intera: finestre che sono occhi, tegole che son capelli, fondamenta che sono scarpe dell'unico grande essere meditabondo e scomparso sotto nuclei densi di pianeti; roseti che ricordi, profumi che si mischiano e ci cullano, passo dopo passo, salto dopo salto, nell'ebbrezza di essere qui, soli, in seno al "non più" e al "non ancora", ai lati del tempo. Ti chini, cerchi e ti trovi, tra milioni di occhi spenti, tra miliardi di capelli sepolti. A ogni cosa sembri dare silenziosamente e impercettibilmente un nome.

Non lasciarti seppellire. Noi ce la possiamo fare, anche se i muri sono sgretolati, se il giorno non è più altro dalla notte, anche se le nostre scarpe sono appigli per i morti, lapidi di un cimitero immenso. Perché io sono un uomo e tu sei ogni donna possibile.

Non chiudere gli occhi, non smettere di camminare, dammi la mano.
Il nostro regista ha scritto che dobbiamo cercare, per ogni formina, per ogni essere, per ogni nome, un altro nome, un altro essere, un'altra formina.
Padre-madre; maschio-femmina; stame-polline; uovo-seme.
Bene-male; luce-buio; vita-morte; spazio-tempo.

Non ci serve altro, per fare ordine.
Scaviamo, scaviamo più forte!
Ora che non sei più bambina, ora che sei già un po' più donna e non ti accontenti più dei contorni delle cose, ora tu sei madre. Ora che non ti basta conoscere i lineamenti dei tuoi figli con interposto uno strato spesso di pelle, ora che li hai immaginati, li hai cresciuti dentro di te, hai dato loro un nome, adesso tu vuoi estrarli dal tuo ventre, dai tuoi occhi, dalla polvere e dall'oscurità. Perché ora tu sei madre, e non puoi accettare che rimangano sotto strati e strati di buio.

Hai un volto, donna senza volto.
Cammina sul mio cammino, non desistere.
Questo mondo, in fondo, è sempre lo stesso mondo.
I nostri ricordi sono sempre i nostri ricordi.
E noi dovremo essere i ricordi di tutti. Perché noi siamo gli ultimi e saremo i primi.

Costruirò una barca, per portarti lontano.
Non dire che non c'è più acqua, perché, vedi, dopo ogni catastrofe cade sempre la pioggia.
La pioggia è il premio, per chi rimane.
La senti? Ti lava via piano la fuliggine dal volto, donna senza volto. Squarcia il cielo, apre un varco tra la polvere.
Queste nuvole sono sempre le stesse nuvole. Bianche, bianchissime. Un tatuaggio perlaceo sul cielo nero.
Noi siamo sempre noi, e forse qualcosa in più.

Io ti sorreggerò, perché la vita è una danza incosciente verso l'infinito.

È pronta la nostra barca. Una barca di carta su un oceano di pioggia.

Siamo due sagome di carta a quadretti.

Ci voltiamo verso la riva e aspettiamo a gettare l'ancora.
Un esercito di esseri avanza verso di noi: una coppia d'asini, due uccelli variopinti, due gatti sornioni, due cani dagli occhi buoni, una coppia di scimmie impaurite con in mano una pianta con tutte le radici, un nugolo d'api, due serpenti. Vengono in fila, alteri, silenziosi, non preda, non predatori. Si sanno indispensabili gli uni agli altri. Si guardano negli occhi. Si accalcano a bordo, si acquietano nello sciabordio delle onde.

Siamo un esercito di esseri complementari che viaggia su una barca di carta in un oceano di pioggia.

Ancora non sappiamo dove andremo.

Il nostro regista taglia e ritaglia con cura meticolosa tutti i fogli del suo quaderno. Ha un volto paffuto, gli occhi azzurri, quasi come i tuoi. Dice che da grande vuol fare l'ingegnere biblico oppure lo scultore oppure l'astronauta.

Gli ho chiesto cosa abbiano in comune queste tre professioni e lui mi ha risposto:
“L'arca di Noè”.

giovedì 14 aprile 2011

La meta è non pesare sull'esistenza più di una coccinella su un petalo, in un cielo di primavera

Ti sciogli in un pianto impercettibile sotto il peso della mia mano.
Non so come tu ricordi, ma so per certo che ti stai muovendo, già un po' più in là di questo tuo corpo, con le movenze flessuose che ti sono appartenute, tra colline di nebbia e neve e poi, d'improvviso, verdissime, disseminate di punteggiature gialle e viola.

Ti sfioro le orecchie, dunque la schiena. Piangi un po' più forte. La tensione si allenta sui tuoi muscoli rigidi, scaldati appena da una coperta termica e una borsa dell'acqua calda, nel buio silenzioso e insopportabile di questa stanza.
Noi siamo amici, anche questo lo ricordi tra i ricordi di un campo di punteggiature gialle e viola. Lo siamo sempre stati e non c'era un motivo perché dovesse essere così. Tu eri in me ed io ero in te. Ci correvamo incontro, su un linea retta immaginaria, tra un filare di alberi e il tuo essere un punto, tra i punti gialli e viola. Ti nascondevi dietro la violacciocca, quella più alta, attendevi che ti fossi vicino e fingevi di sorprendermi, con un balzo a quattro zampe. Allora io ridevo e a te piaceva che io ridessi, infatti mi pareva che, nel tuo linguaggio di suoni acuti, subito lo facessi anche tu, mentre mi sfioravi con un colpo di coda e uno di baffi e ti posizionavi composto davanti alla ciotola.
Mi ricordo che non concedevi al mio tatto nient'altro che la coda.
Eppure mi accompagnavi per tutto il lungo tratto di strada sterrata, alla base della collina rotonda abitata di larici e ogni giorno la tua coda mi pareva sempre un po' più lunga.

Piangi, rompi il silenzio, perché noi siamo amici, questo te lo prometto, da qui all'eternità.
Te lo sussurro e, memore del nostro codice, allento la presa sulla testa. Non voglio varcare i tuoi spazi, tu mi hai concesso solo la coda. E... sì, mi pare che tu stia di nuovo ridendo.
Non sei molto cresciuto, in questi sette mesi. Staresti bene dentro le mie due mani. Piangi più piano, perché la tua voce si ferma, in un punto della tua gola.
Sarà questa la tua ultima carezza, lo sa una parte di me, mentre chiude la gabbia e ti promette il prato giallo e viola, una cascata di croccantini verdi e rossi, ancora un'altra passeggiata sulla strada sterrata che costeggia la collina rotonda dei larici. Perché c'è il sole, adesso, e in fin dei conti, tu sei solo un bambino. Perché hai vissuto troppi mesi tra sentieri di nebbia e di neve. Perché la tua andatura ridicola è un punto di rottura con il mondo là fuori, il mondo del gelo, il mondo del buio e del silenzio. Perché è giusto così e, dunque, mi convinco, sarà così. Sparisci sotto la coperta termica e, senza la mia mano, torna il silenzio.

Esistiamo solo al cospetto di qualcuno.

Ecco perché, stamattina, sotto un sole poco lucente e molto abbagliante, tra lussureggianti foglie di bouganville, non so rassegnarmi al pensiero che il tuo corpo rigido ancora si rianimerebbe al tocco della mia mano.
Protesto: c'è stato un malinteso. Non ho mai smesso di pensarti qui, lungo la strada sterrata, nascosto dietro la violacciocca. Guardala, è ancora qui, bianca, candida, deformata a tua immagine. Aspettate! Lui non è morto, mi sta solo attendendo, composto, inerme, su una borsa dell'acqua calda.

No, non dovevo addormentarmi. Non dovevo staccare il mio pensiero da te. Questo dev'essere stato l'errore. Perciò non ti muovi più al tocco della mia mano.

Una stanza buia occupata solo da un silenzio insopportabile. Odore di disinfettante. Se muori tu, muore la ripetizione stereotipata dei gesti, muore l'eternità. Muore la felicità. Se muori tu, muoio infinite volte, tante quanti sono i giorni lunghi sotto una collina rotonda. Muoio centinaia di primavere, migliaia di sagome di violacciocche identiche.

Guardo il tuo pelo, grigio e bianco. Un naso rosa come un archetipo infantile. Eravamo amici, di un patto sacro e inviolabile.

Si deforma, adesso, il tuo corpo, come al tocco di uno scultore che modella l'argilla: il tuo naso si allunga, il pelo si dirada, le zampe diventano gambe e braccia. Una strada sotto un arco di rose, gialle, bianche, rosa, quasi viola. Tu sei una bambina, con un vestito bianco.
Ero amica di quella bambina, di un patto viscerale e inviolabile. Si nascondeva dietro le rose, mi pregava di portarla sempre con me.
Io protestavo: "io devo andare, tu rimani sempre qui, chiusa tra le rose!".
Lei mi guardava, nascosta dietro i petali, sbiadita nel lucore di una vecchia foto opaca. Allora sorridevo e così mi pareva che, pur nell'immobilità dello scatto, qualcosa di affine al mio sorriso si muovesse sulle sue labbra.
Non è cresciuta tanto, quella bambina, in questi ventiquattro anni.
Mi faceva segno di andare, prima o poi sarebbe tornata. Chiudevo la foto dentro il cassetto, non senza averle carezzato i capelli e il lungo vestito bianco, non senza aver respirato le rose nel suo respiro. La chiudevo dentro una gabbia fredda e buio e, di colpo, cessava di parlare.

Esistiamo solo al cospetto di qualcuno.

Andavo avanti, sempre avanti.
Gli amici, quelli veri, non si perdono mai. Ti lasciano qualcosa negli occhi, un sapore tra le labbra, una brezza nelle narici, un sesto senso per vedere chi si nasconde dietro i fiori.

I miei amici hanno tutti lo stesso nome: si chiamano After, perché non hanno un prima. Non c'è un prima nella ritualità di un'amicizia: c'è solo una movenza eterna, uno spazio inviolato che, nel tempo, si conserva. Una strada di fiori che, anche vuota, è colma di venti che prendono forma e plasmano l'assenza in un ricordo che diventa materia, spessa, ontologica, possente.

Si chiamano After perché, per contemplare l'eternità, bisogna trovarsi necessariamente in un "dopo".

I miei amici si lasciano accarezzare e, poi, mi prendono per mano. Mi portano sull'apice della collina rotonda abitata dai larici.
Sotto, scorre l'eternità: la bambina che sono stata in un tunnel di rose, con un vestito lungo di balze; un gattino grigio e bianco che non voleva saperne di crescere e rimaneva sempre piccolo come due mani accostate; un filare di alberi verdi come centinaia di promesse di non-oblio, tante, tantissime impronte su una strada sterrata; un uomo bello, che ho sentito raccontare nelle parole di mia madre, un sogno vivido di romanticismo, che rimane laggiù, al termine della strada, come una promessa rossa d'amore, cui consegno quotidianamente l'ultimo fiore.

Che strano, non aver mai pensato di salire all'apice di una collina rotonda.

Gli amici, quelli veri, non si perdono mai.
Ti lasciano qualcosa negli occhi, un sapore tra le labbra, una brezza nelle narici, un sesto senso per vedere chi si nasconde dietro i fiori. Una coccinella pesa poco, After, sulla tua violacciocca. È bella. È rossa. Vola nella rarefazione dell'aria e si posa sulla mia mano.

Perché, a dispetto dell'evoluzione, After, desideriamo essere sempre più piccoli.
Perché, After, la meta è non pesare sull'esistenza più di una coccinella su un petalo in un cielo di primavera. Per questo, After, da oggi sento che mi porterai fortuna.

Ad After, Nostalgia e Last, morti avvelenati.
Ad ogni bambino interno che avveleniamo con il nostro cinismo.
Ai segni, che non voglio mai smettere di "cogliere".
A Survy, che è sopravvissuta e che porta in sè un pezzo di tutti loro.


giovedì 10 marzo 2011

Con in mano una rosa astratta




Tu dirai che la nebbia può fare molti scherzi. O -peggio- penserai che io chiami in causa il tempo atmosferico, per giustificarmi con te.

No, perché la nebbia non scherza mai.

C'erano appena settecento passi -l'asfalto invernale, coperto di detriti di ghiaccio, ticchetta come un orologio, sai?- tra me e te.
Settecento momenti in sequenza su una pellicola, milleduecento respiri, altrettanti deja vù.

Non sapevo in che direzione, però. La nebbia cancella i punti cardinali esterni, amore mio. Trasuda dai Navigli, scrive trame nel freddo. Non è fluida, questo no, perciò l'occhio non si abitua alla nebbia come al buio. C'è sempre uno spazio vuoto, tra gli strati della nebbia, che l'occhio umano colma con le immagini confuse della sua mente.

Cinquecento passi, poi, ne ero certo. Il mondo era andato avanti. La nebbia avvolgeva i fili del tram, mitigava il grigio del cielo, parlava la lingua del fiume. Era un ponte su un corso d'assenza- fluisce, l'assenza, l'hai mai sentita?-, un vertiginoso ponte aereo e spettrale, che inghiottiva ogni altro interposto fra me e il mio obiettivo: te.

E camminavo più veloce. Le rose, nella nebbia, sono poeti notturni: fioriscono a prescindere dalla possibilità di essere guardate. Ti ho comprato la rosa. Tra le cento rose nel vaso, quella s'incastonava nella nebbia e la dipingeva: un ideogramma di balze, stilizzate e sovrapposte, tratti curvilinei nel cielo bianco. Quella rosa eri tu.

Trecento passi, perché ti sentivo più vicino. Il mio cielo era senza guglie, finalmente (tutte quelle orribili guglie, che dirigono il cammino, levigano in pinnacoli l'ideale, deviano con cocci di vetro la luce). La mia terra era senza semafori, senza aiuole, senza asfalto. Un universo primordiale e sospeso. Io, una sagoma nera, senza sopra e senza sotto, quasi uno scarabocchio su un foglio esistenziale. In mano una rosa astratta.

E camminavo più lento. Per bere la nebbia a fondo, epurare i pensieri. Spogliarmi, spogliarti. Via gli orologi, via gli anelli. Via le stagioni dal volto. Via il padre, via la madre. Via gli alberi e le scale. Via i palcoscenici. Via gli attori.

Cento passi, perché cominciavo a sentirti sulle ciglia e nelle narici. Una galleria, trafitta dalla nebbia, è un buio un po' più bianco. Ma resta pur sempre una galleria, con un prima e un dopo, ai margini di due esteriorità che aspettano di incontrarsi. Nel mezzo, murato da pietre spesse e disegni arancioni e blu, noi.

E non camminavo più. Attendevo al centro, nel mio mondo sospeso tra i suoni del dentro e del fuori. Gocce: tic-tic-tic. Un tempo senza “-tac”, fermo, dentro.
Passi, parole, sibili. Un tempo consueto, tic-tac, fuori.

Mi hai sfilato la rosa dalle mani. Le tue labbra erano lo stesso ideogramma di balze, stilizzate e sovrapposte, tratti curvilinei nel mondo roboante della galleria. Linee di Kandinskij le tue braccia. Punti di Seurat il tuo iride. Abbraccio di Klimt il nostro incontro. Orologi di Dalì il tempo. Tela di Magritte lo spazio.

No, non ti ho tradita, ieri nella nebbia. Tu eri lei, dopo esserti spogliata. Lei era te, senza centinaia d'involucri. Ci sei stata, ieri, contro ogni evidenza.
Perché la nebbia, amore, non scherza mai.

venerdì 25 febbraio 2011

Ghost flower





È una signora bianca, tutta d'un pezzo. Parla con la sicurezza di chi, in realtà, deve nascondere un segreto.

La sua casa è una macchia bianca, tra il verde rancido delle paludi e, oltre il tetto, il cielo pare dover rimanere per sempre azzurro.
È quel tipo di donna che dà l'idea di non guardare davvero il suo interlocutore negli occhi, nonostante li tenga sgranati, azzurri e perfetti, dietro gli occhiali.

Una bella giornata!, dice.

Le chiedo se senta sola, in quella grande casa, da che è morto il marito.

Fa una smorfia di diniego e sussurra: "Ho i miei piccoli fantasmi"

Conosco i tuoi fantasmi
, vorrei dirle, ma riesco solo a rigirarmi una ciocca di capelli tra le dita, mentre osservo sul suo volto gli spettri di una giovinezza incantata dalle fughe.

Ci siamo viste solo poche volte, prima di questa, dal giorno del mio arrivo in città, abbastanza da salutarci cortesemente e abbastanza per dirle che voglio comprare la sua casa.
Ma non mi nega una tazza di tè e un po' di cortesia.

"Com'era N.?", le chiedo, senza troppi indugi.

Lei si alza, scompare dietro la tenda a fiori che divide il soggiorno dalla cucina, la sento armeggiare con qualcosa, dunque il tonfo di un oggetto caduto dall'alto.

Ritorna con un grande album fotografico, di quelli con la copertina in pelle, che alzano nubi di povere quando li si fa riemergere dal loro antro d'oblio.

Eccola, N., la bambina bionda, avvolta da un vestito in tulle. Me la presenta ora nascosta in un castello variopinto, ora coperta di coriandoli, su un lungomare d'oltremondo, ora con una smorfia capricciosa in un regno di bambole rosa.

Eccola N., la figlia legittima dell'uomo giusto, dell'uomo bianco, dell'uomo sul quale nessuno avrebbe mai potuto alzare alcun monito. L'uomo che ti ha regalato la tua vita perfetta, raccolta in un mazzo di foto, dove ognuno è sempre irrimediabilmente felice, in modo non troppo convincente.

Ho anch'io i miei album fotografici, lo sai?
Hanno le pagine bianchissime, pure ed intonse. Quando le guardi al buio, sembrano fantasmi archetipici o puro illusionismo dell'intelletto.


Lo estraggo dalla borsa, glielo porgo.
Sgrana gli occhi, non capisce.

"Non vuole vedere il resto della casa?", mi chiede.
"Vorrei che prima sfogliasse il mio album.", rispondo, incrociando appena i suoi occhi neri e vividi.

Forse non sei mai invecchiata, perché non hai vissuto tutte le epoche della tua vita.

Sfoglia le pagine fatte di assenza.
Mi specchio nel suo iride: sono una macchia caffellatte tra pareti color panna.
Cerco tra gli oggetti un segno di lui, del mio papà nero, dimenticato e affogato tra strati di vernice chiara: un antico ferro da stiro -no, una bambola giapponese -no, una palma intrecciata a forma di cappello -no, un dipinto futurista -no, una collezione di conchiglie -no, un crocefisso in legno -no.

Ti piace pregare, per credere che qualcun altro abbia avuto occhi per me.

"Tutti questi spazi bianchi: sono angoscianti."
"Ma d'altra parte mi accingo a comprare una casa che dicono popolata dai fantasmi..."
"È solo una stupida leggenda."
"Dicono che i fantasmi siano le cose dimenticate."

Silenzio.

"Perché vuole questa casa?"
"Per trovare i fantasmi."
"Cosa ha dimenticato?"
"Di dimenticare."

La macchia caffellatte, nei suoi occhi, sembra ricomporsi: forse sono un viso, ora, una pelle mulatta che le muove gli angoli della bocca, a tradire un'emozione sulla fissità del suo viso. Scruta il mio chignon di capelli neri, non perfetto e l'insieme casuale dei miei abiti, che tradisce una certa paura di farsi guardare.
Ma è troppo abituata a vedere e poi a sfocare ciò che ha appena visto.

Sono ancora un fagotto anonimo, dimenticato.

E voglio dirtelo.
Che voglio questa casa, per non doverti chiedere di raccontarmela, per non rendere artefatti i tuoi ricordi, nel tentativo maldestro di amarmi ad ogni costo, alla fine dei tuoi giorni; sarebbero troppo piccole le stanze che ti sono sembrate enormi, finora, per te e i tuoi legittimi figli.
Voglio la casa dei fantasmi, per vedere se mi posso incontrare, con qualche calcinaccio legato alla caviglia, figura spettrale di tutti i giorni in cui non sono stata o in cui sono stata niente più che una macchia di caffellatte, da nascondere tra i tuoi muri color panna, da soffocare tra lenzuola immacolate, da negare in una vita come la tua, senza viraggi cromatici, senza arcobaleno.
Voglio questa casa perché, oltre l'apparenza- nelle crepe, nei mattoni, nelle fondamenta- devo sapere se hai coltivato i tuoi fantasmi, e se da essi posso aspirare a qualche radice.


"Non sbaglia a volere una casa in Florida, signorina. Questa casetta, fantasmi o no, è un affare. Abbraccia tutta la laguna."

Osservo al di là del vetro: la palude e suoi vapori. Canne scosse dal vento, ai margini di una strada non asfaltata. Ancora più in là, dove si deprime questa terra verdognola di acquitrini e alligatori, c'è l'oceano col suo fragore. L'oceano non conosce differenze: emette sempre lo stesso boato di disperazione, quale che sia la costa che lambisce, il colore che assorbe. Dicono che, un uomo che muore va sempre in direzione dell'oceano, a ricomporre i suoi contrasti nella lungimiranza trasparente delle onde.

"E lei? Dove andrà?"
"Per i miei polmoni, molto più consigliabile l'aria di mare."

Chiude il mio album senza foto con un gesto secco, quasi stizzito. Dunque si alza, fa tintinnare le chiavi. Le consegno l'assegno -tutta la lauta somma maturata dall'assicurazione che mi è stata devoluta da un donatore "fantasma", al compimento del diciottesimo anno di età- e lei mi consegna il mazzo.

Chi l'avrebbe detto che avrei usato tutti i tuoi soldi per comprarmi la casa dalla quale mi hai esclusa? Per stare, nonostante tutto, sempre e comunque con la tua assenza?

"Questa è quella del giardino."
"Una chiave per il giardino?"
"C'è un giardino, dietro le bouganville. È cintato. Prenditene cura. Mi è costato anni di lavoro. Dicono che lì nascano i fantasmi."

La osservo mentre saluta i suoi oggetti.

"Non mi serviranno", dice, prevenendo la mia domanda.

Parlo, non parlo, parlo, non parlo?

Prima di scomparire, una lacrima fa irruzione sul suo viso.
È una donna alta, bianca, con gli occhi azzurri. Una donna d'altri tempi, tutta d'un pezzo. Proprio come N., la sua legittima figlia.
Una donna da cui non escono parole, abituata a immagazzinare i sentimenti in pile di fotografie senza vita. E, a suo modo, non deve aver trovato del tutto illogica la mia collezione fatta di niente.

No, non parlo. Se parlo, i muri sapranno. I fantasmi, addormentati da qualche parte, a sognare la loro nascita, tra strati di amnios scarlatto, si vedranno- trasparenti, sottili, alienati- allo specchio.

Avrà, non avrà capito, chi sono?


Ma lei va sempre avanti, senza indugi.

Un saluto di cortesia. Capelli che spariscono nell'arsura di un clima tropicale. Anche se è San Valentino e io sono venuta a celebrare il senso della mia nascita.

Cerco ancora, tra le scartoffie, qualche cenno di lui, qualche cenno di me: -no.

Scendo le scale della veranda della casa bianca. Strappo i petali alle margherite. Dicono che si faccia per sapere se un uomo ti ama, ma io credo che possa valere anche per una madre.

Un muro di bouganville, arancioni e viola. La porta è quasi un fantasma, un altro, tra le spine.
La apro. Questo è il giardino segreto: un tappeto di papaveri neri, quasi caffellatte, si estende all'orizzonte. Forse sono tanti quanti i miei giorni non vissuti.
Un cartello infitto nel terreno, dice: papaver hibridus - ghost flower.

Mi sdraio tra i fiori.
Nel sole, ombre chiare di papaveri neri.
Sì, mio padre doveva amare coltivare i fiori.

Piango. Respiro. Nasco. Sono.


giovedì 17 febbraio 2011

LAKOTA PEYOTE SONG (sceneggiatura tratta dal mio racconto: "Centottanta battiti al minuto")

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LAKOTA PEYOTE SONG
Storia di una Scala verso il Mondo Capovolto.

ATTO I


Una tenda in pelle di capra in mezzo alla tundra, illuminata dal flebile sole di una notte bianca negli eremi del mondo.
Janet ha i capelli ramati, legati in una coda di cavallo, il viso d'un lucore biancastro, il collo lungo ed esile su  un corpo che pare essersi legato indissolubilmente all'infanzia.
Entra che la cerimonia sta per iniziare: un cerchio di uomini siede attorno a un fuoco ancestrale, che arde un alto totem a simboli sovrapposti: l'orso, il pesce, l'uomo, l'aquila.
Lo sciamano capo intona la canzone "Lakota Peyote Song". Indossa tutti i colori della terra, in forma di spesse linee pastello sul volto: ocra, opale, senape, nocciola, amaranto. Intorno alla circonferenza della testa, indossa un criniera di pagliuzze dorate, che é il sole nascente.
Gli altri sciamani la invitano a sedersi davanti al fuoco ancestrale e a specchiarsi nella brocca sacra dell'acqua.
Il ritmo dei tamburi è incessante e pare avvolgere ogni elemento in un'unica incalzante melodia, che sussume in sé il lamento della canzone sciamanica, pare sciogliere nella brocca dell'acqua i volti e i colori degli sciamani, ammansire il sole.

SCIAMANO
Com'era il tempo passato?

VOCE
Non so se ricordare.

SCIAMANO
Ricordare fa male?

VOCE
Come tra rosai a picco sul mare, orbitanti di bellezza ocra e bianca, sapere che ci sono le spine.

Una voce irrompe sulla scena. Janet viene percorsa da un brivido, dunque chiude gli occhi, si stende su un drappo purpureo, si lascia guidare dal ritmo dei tamburi.

VOCE (sempre al ritmo dei tamburi)
Cosa ci fai, qui, Janet? Sei sempre la solita. Ti hanno detto di altri mondi e che lì mi avresti trovato. Ma io sono finito là, sotto il ramo del ciliegio secolare, sulla nostra collina. Vattene, Janet, non devi più ricordare. Porta gli anemoni alla mia pietra e pensa che è fatta di nulla. Vattene, Janet, non è questo il tuo posto.

Janet si scioglie i capelli e comincia a respirare, incitata dalla voce sciamanica, sempre più celermente.

VOCE
Ti diranno di inspirare ed espirare più forte e ancora di più. Ti diranno che così accederai alle facoltà superiori della tua coscienza e che, in possesso di quelle, saprai ritrovarmi.
Ma queste cose accadranno nel tuo cervello, non nella realtà, Janet. E così, così mi fai male.

Janet s'aggomitola in posizione fetale e sorride, avvinta nel ricordo.

VOCE
Ti piace ricordarmi sempre nello stesso modo. O forse sono io, che mai sono stato differente quando ero in vita...

Dalla sinistra della scena emerge l'ombra di un uomo, non più di una sagoma stilizzata su uno sfondo bianco. Su di essa e su Janet vengono proiettate le luci, mentre il resto della scenografia si rabbuia. Il ritmo dei tamburi si sfuma, a poco a poco.

VOCE
Tu non sai com'è emergere di là. Se lo sapessi, non mi chiameresti con questa insistenza.

JANET (sussurrando)
Charlie Weston, nato il 2 Dicembre 1937, professore in Neuroscienze alla Yale University, quinto piano del grande edificio bianco, sulla quarta strada, terzo ufficio a sinistra, mio compagno.

L'ombra trasmuta a poco a poco nella figura di un uomo, del quale appare, illuminato, dapprima il volto: un uomo di circa sessant'anni, due occhi azzurri e una capigliatura brizzolata; dunque il busto, avvolto in una giacca grigia su camicia bianca; infine le gambe e i piedi.
La voce appartiene ora alla figura di quest'uomo che, richiamati dal ricordo di Janet, risulta Charlie Weston.

CHARLIE (avanzando lentamente sulla scena, in direzione di Janet)
Dal giorno della mia morte, non mi lasci tregua. Mi custodisci come un feto, dentro di te. E allo stesso tempo, non sai a cosa sia destinata la tua cura.

JANET (sorridendo e allungando le mani verso l'alto, dalla sua posizione sdraiata)
Sei sempre l'Uomo Grigio...

CHARLIE (mesto)
Mi fasci in questo involucro... Sì, sono stato l'Uomo Grigio. E tu amavi, nonostante tutto, la mia cupezza e i miei abiti sbiaditi! Mentre tu hai sempre gli zigomi pallidi...

JANET
Per lasciar intravvedere quando arrossisco... Come dicevi tu...

CHARLIE (ridendo lievemente)
Lo hai fatto...

L'Uomo Grigio avanza più deciso sulla scena, sino a porsi alle spalle di Janet. Disegna con la mano il contorno del suo capo, senza mai toccarla. Una brezza le scompiglia i capelli, mentre lei ride.

JANET
Fai sempre così....

CHARLIE
Così come?

JANET
Come facevi quando...

CHARLIE
Quando ero vivo? Non devi tremare nel dirlo, Janet. Questa è la verità.

JANET (ignorando quanto Charlie le ha detto)
Facevi le cose in modo impercettibile, come le fa un soffio di vento. Sempre lasciando il dubbio che qualsiasi gesto d'amore potesse essere anche frutto del caso... senza mai sbilanciarti in qualcosa di così grandioso da poter essere amato subito... senza mai far nulla degno di essere ricordato.

Janet si alza in piedi. Lei e Charlie si guardano negli occhi, ora. Lei disegna con un dito il suo profilo nell'aria.

JANET
A tal punto impercettibile che la mia vita con te potrebbe essere stata un sogno nebuloso.

CHARLIE
Ma tu comunque ricordi... e mi cerchi...

JANET
... ti cerco nel profumo di lavanda della signora Roth, che profumava sempre le tue camicie, a tua insaputa, come le dicevo io...

CHARLIE
Perché?

JANET
Perché volevo che mi lasciassi dei segni, se te ne fossi andato.

Silenzio.

JANET
… e nel caffè all'angolo tra la quarta e Broadway: il tuo tavolino è quello che dà sul parco, sotto l'albero di pesco, il posto più appartato e più tranquillo. Lì mi faccio portare ogni mattina un frappé banana e fragola e una brioche allo zenzero.

CHARLIE
Avevo un colore? Un profumo?

JANET
Incidevi le date sulla scultura in legno sulla tua scrivania inglese, affacciata alla grande finestra del tuo studio...
Continuo a farlo io, per te, Charlie.

CHARLIE
Non era un gesto poetico. Era solo per cinismo, solo per sarcasmo. Incidevo i giorni uguali, forse aspettando quel gesto grandioso che non arrivava mai. Giorni che cancellavano gli altri, inesorabilmente.

JANET
Hai passato la vita a cancellare, Charlie.

CHARLIE
Ricordare è la pena dell'uomo.

JANET
Fa male ricordare?

CHARLIE
Come tra rosai a picco sul mare, orbitanti di bellezza ocra e bianca, sapere che ci sono le spine...

JANET
Ricordare sarebbe stato il tuo gesto grandioso.

CHARLIE
Per assurdo il gesto più grandioso di un uomo è quello che non ha compiuto. Il tuo sarebbe: dimenticare, Janet, lasciar svanire le cose, metterle a dormire.
È così dolce l'oblio. Parla una lingua scarlatta, fa fluttuare in un'aspra confusione. Come un liquido amniotico, ammortizza i colpi, prepara il nuovo, traccia solchi che diventano strade aperte sul precipizio.

JANET (ignorandolo)
… e nella città piovosa, sulla collina dei nontiscordardimé, dove andavi tu, quando c'era la nebbia, tra le esalazioni dell'oceano, anche lì ti cerco.

CHARLIE
Quel rituale non c'è più.

JANET
Il ricordo è nelle cose. Cambiano per sempre, dopo averci incontrato. Si modellano con le nostre impronte, parlano il nostro linguaggio, conservano i nostri segni. Che felicità c'è in un foglio bianco?

CHARLIE
Di non trovar tracce essiccate del proprio passaggio. Sono come cicatrici: bruciano.

JANET
Non mi hai portato via la memoria. Non a me.

CHARLIE
Infatti non ti ho resa felice.

JANET
Ho incontrato uno dei fantasmi che hai creato. Uno degli uomini che sono sottoposti al tuo esperimento...

CHARLIE
Soffrivano tutti, come te, Janet. Venivano da me con i tuoi stessi occhi, pieni di illusione. Andavano cercando il loro passato, volevano vivificare le lapidi, leggevano nel cielo segni rivolti a loro da parte di chi se n'è andato per sempre. I loro passi percorrevano le tracce di chi li aveva lasciati. Io... li ho liberati. Ho mostrato loro dove si trovavano quei ricordi...

Indica la testa.

CHARLIE
Dove si trovava il loro passato. Una valvola, un circuito, dentro il cervello.

JANET
Anche loro, a modo loro, sono qualcosa che hai lasciato. Ricordi di te e del tuo bisogno di non ricordare. Compaiono davanti a me, e non ricordano che ci siamo incontrati il giorno prima e quello prima ancora.

CHARLIE
L'operazione chirurgica, con cui ho interrotto i loro circuiti mnestici, era solo l'estrema opzione, Janet, lo sai.
Ho elaborato migliaia di metodi incruenti per indurre una perdita di memoria selettiva.

JANET
Ciò che loro non sanno dimenticare è che non possono ricordare. E soffrono ugualmente, per quella voragine nella loro testa.

CHARLIE
Non è così. Chi non ha le strutture, non percepisce la mancanza. Ogni attimo, ogni tempo, è un'illusione. Ogni data che ho scritto sulla scultura in legno. Se ne va, con passo cadenzato, non porta niente di noi, Janet. Chi anche avesse lasciato sulla terra un grattacielo, quello non è suo, ma solo dell'attimo presente e, dopo, dell'attimo in cui sarà reso al suolo. Sono la nostra vita, l'invecchiamento delle cellule, le rughe, che richiedono un tempo, che si aggrappano al ricordo.
Ma anche questa nostra conversazione è un'illusione, Janet... Io non ci sono quando tu non mi pensi. Roteo nel mondo scarlatto, nell'amnios. E tu mi fai male, Janet, quando mi chiami dietro al vetro.

JANET
Io sono felice di vederti, Charlie.

CHARLIE
Tu, qui, mi rendi un essere imperfetto col tuo ricordo! Evochi di continuo la mia immagine e mi strappi alla mia natura trasparente di adesso. Mi strappi dall'oblio.
Dio, l'hai sempre fatto!
Quanto fa male il ricordo a chi viene ricordato? Te lo sei mai chiesta? Essere trascinati davanti a quel vetro....

JANET
Di quale vetro continui a parlare?

CHARLIE
Credi davvero che io sia l'Uomo Grigio che vedi davanti a te?
Non lo sono. Lui è il tuo ricordo. Me lo materializzi davanti.
Io sono murato dietro una torre di specchi.
Basterebbe tu parlassi più piano, ricordassi con meno forza. Basterebbe che facessi meno rumore. Che credessi di meno.
Io rimarrei a fluttuare nel mezzo scarlatto, senza identità, senza storia, senza volto.
Ma tu no, Janet, tu sei così cocciuta. Il tuo richiamo è come un cordone ombelicale anarchico, che mi porta verso il vetro. Lui appare, e io sento tutta la pesantezza del suo corpo. Sento i movimenti della gabbia toracica. La sua paura, la sua esclusione. Vedo in te tutta questa pacata bellezza, appannata da un lutto cronico, caparbio, insensato.
Riesco a muovere le sue mani, vicino al tuo viso. Eppure non può toccarti. Io... non posso toccare nulla.

JANET
Tu ancora parli come lui, come l'Uomo Grigio.

CHARLIE
Non è lui che cerchi?

JANET
Lui è già sempre nelle cose e io sono felice. Tu non lo riesci a capire, ma io sono felice dei miei ricordi. Una lacrima non è sempre male. Non lo è un fiore o una passeggiata sulla collina dei nontiscordardimé.

CHARLIE
E allora che ci sei venuta a fare, qui, Janet?

Gli indica la ripida scala a chiocciola in argilla ai suoi piedi, che le luci illuminano.

CHARLIE
Non andare nel Mondo di Sotto!

JANET
Devo andare, per rincontrarti.

CHARLIE
Non potrai rincontrarmi.

JANET
Io non parlo di memoria, Charlie. Non di quella memoria così piccola, come la intendi tu. Io devo sapere che sarai tu...

CHARLIE
Non capisco...

JANET
Vieni con me!

CHARLIE
Non verrò con te. Scendere di là è pericoloso. Non hai visto com'è viscida la scala? Com'è ripida?

JANET (con decisione)
Arrivederci, Charlie.

Janet lo osserva, dunque se ne va.
Suonano "Le onde", di Ludovico Einaudi.

Cala il sipario.


ATTO II

Il Mondo di Sotto è un mondo capovolto: le radici degli alberi, provenienti dal Mondo soprastante, si uniscono a formare tronchi giganteschi di immani sequoie con la chioma rivolta verso il centro della terra; imponenti girasoli, anch'essi capovolti, formano una fitta boscaglia, ai piedi delle querce. Insetti e uccelli variopinti fanno frusciare le fronde e avvolgono l'atmosfera in un garbato ronzio.
Janet rimane in piedi, immobile, sul primo gradino.

VOCE
Sento la tua paura. Non c'è luce, qui. Sei ancora lontana dal centro, dov'è il nostro sole. È un mondo chiuso, questo. Il nostro cielo è la terra, la nostra aria è la sostanza. Eppure non è così dissimile dal vostro Mondo di Mezzo. Quando risalirai la scala, avrai imparato a guardare ai mondi come ad una matrioska.

Janet indugia, spaventata, sul primo scalino.

VOCE (come rispondendo al suo timore)
Ti ha detto che è un luogo pericoloso. Ma non è più pericoloso del suo oblio.

JANET
Ma chi parla? Charlie?

VOCE
È di lui che stai cercando, dell'Uomo Grigio? (Indicandolo, mentre nervosamente avanza, avanti e indietro, alla sommità della scala)
Non è difficile da trovare.
Rimane sempre nello stesso posto.

JANET (con sgomento)
Ma tu, tu chi sei?

VOCE
“Non quella memoria così piccola, come la intendi tu...”
Hai già parlato di me, Janet, mi stavi già cercando.

Janet scende di qualche gradino.

JANET
Non so perché ho detto quelle parole.

VOCE
Perché tu mi conosci.

JANET?
Quando? Come?

VOCE
Ti piace partire su quelle strade di fango, liquefatte dal calore, ora eburnee, ora cerulee, costeggiate di Yucca o di escrescenze lunari... e poi guidare fino all'oceano, in silenzio, abbracciare il cipresso che ha storto il vento... ami guardare nel cielo il tuo umore, nelle onde l'avanzamento della tua vita. Dai un nome ad ogni onda, del prima e del dopo. E adesso sai che ciò che aspetti è già venuto, in altre forme.

JANET
Perché devi stare qui, nel mondo capovolto?

VOCE
Perché devo nutrire le radici delle vostre escrescenze.

JANET
Perché le radici sono ancora alberi?

VOCE
Perché? Il cielo, quando piove a capofitto nella distesa acquosa, non è forse ancora acqua?

JANET
E lui? (indicando Charlie) Sarà ancora un uomo?

VOCE
Lui... Sarà ciò che saprà ricordare di se stesso.
Arrivati qui, gli esseri viventi, al fondo della scala, si riconoscono in un elemento, una roccia, un vegetale, un animale, un uomo con i suoi tratti somatici. Quell'elemento è la somma di ciò che fino ad allora sono stati.

JANET
E cosa guadagnano?

VOCE
Ad ogni giro, nel mondo di Mezzo, hanno la staticità, il tempo di una vita per capire la propria Natura, accumulare nuove esperienze, arricchire il proprio centro.

JANET
Tu ti ricordi di tutti noi?

VOCE
Più corretto dire che voi tutti vi ricordate di me.

JANET
Ti prego, dimmi il tuo nome!

VOCE
Chiamami Anima, se vuoi.

JANET (illuminandosi)
Sei la sua Anima?

VOCE
Anche la sua, ma a lui non piace ricordarmi.

Janet, rincuorata, scende ancora lungo la sdrucciolevole scala a chiocciola. Accarezza le nodosità dei rami degli alberi e i petali dei giganteschi girasoli.
I girasoli cambiano all'unisono direzione.

JANET
Tu parli di un Sole. Come può esserci un sole, qui dentro? Il Sole deve essere più grande, mentre questo è un mondo Chiuso.

VOCE
Come vedete il Sole, dal vostro mondo, più grande o più piccolo?

JANET
Ma è solo una questione di distanza.

VOCE
È solo una questione di ignoranza.

Un attimo di silenzio. Janet, arrossendo, si guarda intorno.

JANET
Non hai un volto?

Un animale, con il corpo di volpe e la testa d'aquila, blu come il mare, la osserva, le sfiora le gambe, dunque scompare nella boscaglia e tra le grandi libellule blu.
Janet si volta a guardarlo, tra il terrore e lo stupore.

JANET (alla Voce)
Perché vuoi spaventarmi?

VOCE
Tu dici che io lo sto facendo. Ma sei tu a darmi un volto.

JANET
Io non ho mai visto una chimera.

VOCE
Quando non l'hai mai vista, Janet? Quanti anni abbiamo?

JANET
Abbiamo?

VOCE (sogghignando)
Neanche a te piace ricordarti di me.

JANET (imbarazzata)
Tu sei la sua anima, ma anche la mia?

VOCE
Vedi un'altra terra a nutrire le radici dello stesso albero?

JANET
Che ne sarà di lui?

VOCE
Lui è di quelli che temono la scala che porta a me.

JANET (scendendo ancora)
È ripida. E spaventosa. Lui non ama ricordare.

VOCE
In questo sbagli: lui non ama dimenticare.
Sta dietro il vetro, con le orecchie tese, in cerca di qualcuno che lo rimaterializzi nelle sue solite sembianze. Si mette dietro lo schermo e si osserva. Si cerca nei ricordi di cui si è voluto privare. Si scopre in essi. Quando è arrivato qua, credevo fosse destinato a evaporare per sempre.

JANET
Perché dici questo?

VOCE
Galleggiava nell'oblio, senza sapersi muovere. Gli altri, di solito, lottano per emergere dal mare scarlatto. Vedono nella scala la via d'uscita. Preferiscono precipitare, cadere, inoltrafsi nel mondo capovolto, che dimenticare, farsi avvolgere dall'oblio. Ma, per lui, il moto di quelle onde era assolutamente abituale.

JANET
Non mi cercava?

VOCE
Eri già nelle onde, come ogni donna della sua vita. Una madre che lo protegge dal male del ricordo, dal dolore dell'abbandono e dallo svanire delle cose.

JANET (sconsolata)
Allora non mi ha mai amato.
Io l'ho sempre contraddetto su questo punto... del ricordo, intendo...

VOCE
Nell'oblio, si è protetti dallo svanire degli altri, ma non del proprio. E lui l'ha capito, finalmente.

JANET
E allora? Cosa è accaduto?

VOCE
Ha sentito il richiamo di se stesso, nel tuo ricordo, e non si è più staccato dal vetro. Per tutta la vita ha rifuggito se stesso, ed ora si vuole, ardentemente.

Janet è scesa oltre la fila delle chiome degli alberi. Il paesaggio, adesso, è marziano: un crostone di roccia rossa e nera, scende in picchiata, verso il centro della terra.

VOCE (incitandola)
Chiamalo, Janet, non dimenticarti di lui. Tu tornerai indietro, dopo aver visto nel Sole.

Janet si volta, non riesce più a vedere la sommità della scala.
Un fiume, parallelo alla scala, sale verso l'apice della montagna, posta in profondità verso il centro della terra..

JANET
Come può la corrente salire?

VOCE
È la tua vita, che torna indietro...

Cala il sipario sulle note di “Nuvole Bianche”, di Ludovico Einaudi.


ATTO III

Si specchia nel fiume dalla corrente in salita.

VOCE
Cospargiti il volto d'argilla bianca e cercalo nel fiume.

Si cosparge il volto d'argilla, come le è stato indicato, dunque torna a guardare nel fiume.
Compare un albero sulla superficie dell'acqua.

JANET
Vedo un albero.

VOCE
Parlagli, ricordagli quando lo è stato.

Nello zampillo dell'acqua, l'albero ondeggia dolcemente.
Janet disegna cerchi nell'acqua e ancora lo muove.

JANET
Sì, ti vedo nell'albero, Charlie.
Mi ricordo quando ci siamo incontrati.
Tu eri il cipresso e io ero l'oceano. Le onde ti passavano sotto gli occhi e morivano alla riva.
Ma tu rimanevi invincibile, chiuso nella tua corteccia, eppure piegato da sferzate di vento. La vita scorreva, negli ululati dei leoni di mare, nelle esalazioni del mirto, nelle escavazioni delle pietre calcaree. Tutto passava e tu rimanevi lì, a ingrossare il tronco e i cerchi del legno si moltiplicavano. Ma non avevi specchi, non avevi compagni che ti dicessero quanto eri invecchiato. Io sola, con le mie onde, qualche volta riuscivo a bagnare i tuoi rami e a rompere il filo monotono dei tuoi giorni. Ti dicevo di ricordare quando eri stato appena uno stelo e la tua chioma, faccia a faccia con le campanule viole, era troppo bassa per guardare oltre lo scoglio.

L'albero si modella a immagine di un cipresso solitario, a picco sull'oceano.
Appare un bozzolo e, da esso, una farfalla, che si libra in volo, verso la foresta dei girasoli.

CHARLIE (solo voce, ancora assente sulla scena)
Non so cosa sia essere albero.

JANET (voltandosi in cerca di lui)
Dove sei, Charlie?

VOCE
Cercalo dove lo hai trovato.

CHARLIE (sempre voce)
Che cosa fai, qua, Janet?
Guarda dove mi hai trascinato! Non ci sono che paradossi, qua.
Ma tu sei viva...

VOCE (sussurrando)
Come sempre...

CHARLIE
Ed io sono morto...

VOCE (sempre sussurrando)
Come sempre...

Un sasso squarcia l'immagine dell'albero, sulla superficie dell'acqua.

VOCE
Questo fiume non è un circuito di neuroni da tagliuzzare, Charlie.

L'immagine dell'albero si riforma nel fiume.

CHARLIE
Non scendere più, Janet!

Janet continua imperterrita la sua discesa sulla scala, che ora s'è fatta di un bianco lucente, mentre costeggia il fiume. L'albero si accresce, allunga i suoi rami entro gli argini del fiume, e segue il cammino di Janet.

VOCE
Ti sei mai chiesto perché un mondo capovolto, Charlie?

CHARLIE (emergendo dal buio, come una figura completamente bianca)
Voglio vedermi, nel fiume...

VOCE
I tronchi di questi alberi sono le radici di altri alberi, nel Mondo di Mezzo. I ricordi si approfondiscono nella terra, Charlie, e alimentano nuovi albori.

Charlie si specchia nel fiume, alla ricerca di se stesso, ma in esso scorge unicamente la figura dell'albero che emette sempre nuove ramificazioni della chioma, ad ogni passo di Janet verso il centro della terra, mentre il suo tronco all'altra estremità, a sua volta si ramifica in migliaia di sottili radici, che alimentano un altro albero, dalla parte opposta della crosta terrestre.

CHARLIE (in tono di sfida alla Voce)
Gli alberi muoiono, in ogni mondo.

VOCE
Gli alberi cambiano, Charlie, ma i rami che si sono intersecati sono destinati a farlo ancora.

Janet si volta verso di lui, mentre la sua discesa si fa sempre più veloce e sul suo viso si accenna un timido sorriso.
Nel fiume, rapidamente, si succedono le stagioni sul tronco dell'albero: le foglie ingialliscono, cadono, rinascono, divengono rigogliose; il tronco s'ingrossa, su di esso compaiono incisioni e promesse d'amore; cade la pioggia, la bufera scuote i rami, scalfisce le incisioni; di nuovo sole, ancora cuori sull'albero.

CHARLIE (rivolgendosi alla Voce)
Cosa pensi di me? Che funzione ho avuto per te?

VOCE
Chi pensi che io sia?

CHARLIE (scocciato)
Rispondi!

VOCE (ironico)
Tu sei stato un modo come un altro di sperimentare l'amore. Sei un essere completamente incapace di vivere l'amore, ma del tutto capace di provarlo. È stato interessante vivere con te.

CHARLIE
Tu sei quella cosa che chiamano Dio, vero? Ti diverti molto a sperimentare, a giocare, a farci soffrire?

VOCE
Perché devi sempre cercare nella Natura dei colpevoli, Charlie?
Hai avuto un cervello e hai pensato che la sua struttura fosse la causa dei tuoi mali. E l'hai tagliato in pezzi.
Hai avuto me, un'anima sotterranea, che si premurava di far correre le stagioni sul tuo viso e, dimenticandoti di guardarti allo specchio, l'hai isolata, tradita, umiliata.
E lei... (riferendosi a Janet)

CHARLIE (voltandosi verso Janet)
Lei è sempre stata così, vestita di bianco?
Mi ha sempre preceduto... Non ha paura, lei. È sempre stata un po' incosciente. Strana. Fanatica di quelle correnti New Age. Capace di venire in Alaska soltanto per scendere questa maledetta scala. Per me.
Non volevo tutte queste attenzioni, sai? Essere per lei, ogni giorno, vedermi luccicare nei suo occhi, esistere nei suoi progetti, nella brioche allo zenzero che mi faceva trovare sul tavolo, nella violacciocca che mi lasciava sempre sul parabrezza, come a dire: "guarda che ci sei, che non sei l'Uomo Grigio"...
Oddio! Veniva persino a lezione all'Università, solo per pormi delle domande, mostrare ai miei studenti che la mia voce veniva da un corpo, da un pensiero, da un uomo... Mi metteva terribilmente in imbarazzo, sai? (ride)
Una volta mi ha persino chiesto, davanti a tutti: "Ma lei, professore, esattamente, di cosa ha paura?"

VOCE (interrompendolo)
Esattamente, Charlie: di cosa hai paura?

CHARLIE (continuando imperterrito)
In quel momento, forse per la prima volta, ho visto che i miei studenti mi guardavano ed io mi sono sentito scolorire, come adesso, senza l'impalcatura dell'Uomo Grigio e... il vetro... anche allora fluttuavo dietro il vetro e... vivere con lei... è stato come osservarmi al di là del vetro, nelle rifiniture cromatiche che il suo sguardo aveva creato per me.

Charlie comincia a scendere la scala, inseguendo Janet.

JANET (come parlando fra sé)
I girasoli... I girasoli sono esseri pedissequi. Anche se alle volte paiono assurdi, indisciplinati, si volgono in tutt'altra direzione che il Sole.

CHARLIE
Credo che sia quando seguono questo Sole, in questo mondo, anziché l'altro...

Un girasole compare sulla superficie dell'acqua e gira le spalle al sole.
Esso anche si espande, seguendo la discesa di Janet e Charlie.

JANET
Ti ricordi, adesso, di quando sei stato girasole?

CHARLIE
Il mio Sole... era la mia teoria. E io ti giravo sempre le spalle, Janet, per seguirla. Ma io sono stato progettato per essere così, come un girasole.

VOCE
No, Charlie... Tu hai solamente voluto ricordarti del girasole.

CHARLIE
Io lo ero già stato?

VOCE
Voi esseri umani siete un mosaico di tutti gli esseri viventi. Vi piace sperimentare, giocare a incastrare le vostre possibilità. Ma poi non riuscite a far convivere i vostri ricordi, e ne dimenticate alcuni, a discapito di altri. O meglio, li archiviate, senza capire perché il vostro girasole, talvolta, smette di seguire il Sole. Avete bisogno solo di incontrare un altro essere, che si è dimenticato del girasole...

CHARLIE (con stupore, come ricordando tutto all'improvviso)
Janet, ti ricordi.... Ti ricordi di quando sei stata una chimera, blu, con la testa d'aquila e il corpo di volpe?

L'essere già precedentemente incontrato appare nell'acqua.

JANET (spaventata)
Io?

VOCE
Questa è anche la tua foresta, Janet... Raccontale di lei, Charlie...

CHARLIE
Non ti piace muoverti solo volando, Janet... Non ami le restrizioni... Ti piace il cielo, sì, ma ancor più ami penetrare nella terra. Sei blu, blu, Janet, perché il blu è il colore che accomuna i cieli e gli abissi e la terra quando cala la notte. Ti piace fondere ogni elemento del cosmo. Sei ribelle, Janet. Ti piace che le cose vadano come vuoi tu... E infatti non hai saputo essere una buona figlia.

Il viso di Janet si riga di lacrime.

CHARLIE
Quando ci siamo incontrati, in questa foresta, tu sapevi sconvolgere i miei rami: usavi il becco d'aquila per scalfirli e incidere una vita, al mio essere sempre uguale e impassibile, mentre con le zampe della volpe ti scavavi una tana, dentro di me. E mi confondevi, Janet, perché volevi e allo stesso tempo non volevi la mia fissità. Volevi che fossi un compagno, che si evolveva insieme a te, un girasole che cambiasse la rotta, e contemporaneamente un padre, che ti avvolgesse nella sua corteccia. Tu non sei stata la sua figlia prediletta. E neanche la mia. Ma mi sono innamorato del tuo essere mia compagna. Eppure non sapevi riconquistarti il tuo passato e la tua immagine di figlia, neanche nel presente, neanche dentro di me.

JANET
Ci siamo incontrati perché la nostra opportunità era il presente?

CHARLIE
So che sembra strano, detto da me, ma forse, la nostra opportunità era il passato.
Ed è per questo che non accetto di essere morto, neanche adesso. Questa era la mia occasione di ricordare di me, Janet.

Lei tace.
Sono arrivati all'ultimo scalino: gli argini del fiume si espandono e formano una sottile membrana trasparente e rotonda, nella quale si riversa tutta l'acqua del fiume.
Su di essa si osserva ancora una scena: un uomo suona una cetra e sale una scala; dietro  di lui sale una donna, avvolta dall'oscurità del mondo da cui proviene.

VOCE
Questa storia è già accaduta. C'è sempre qualcuno che va a prendere qualcun altro nel suo mondo sotterraneo e... gli mostra che non è mai morto e lo riporta alla vita.

CHARLIE
Tu sei Orfeo, Janet, ti ricordi?

JANET
Ma lo sei anche tu, Charlie, ti ricordi?

CHARLIE
Ma siamo anche Euridice.

VOCE
Non guardarsi mai, ricordate? Vi saprete riconoscere, al momento giusto, anche in altre sembianze.

Charlie e Janet camminano ai due lati della membrana sino a non potersi più vedere l'un l'altro. Sulla membrana compare un arcobaleno circolare, che comincia a roteare, sempre più veloce, sino a divenire una luce bianchissima, quasi accecante. Il suo ritmo è scandito da un battiti simile a un tamburo.

VOCE
Centottanta battiti al minuto... Ti ricordi, Charlie?

CHARLIE
Centottanta battiti, in medicina...

VOCE
No, Charlie, non essere freddo, ricordati di quei centottanta battiti....

La membrana si schiarisce sempre di più.
Gli alberi e i girasoli capovolti, osservati dal centro della terra, formano delle ramificazioni convergenti verso il fiume, adiacente la scala: il fiume è un'arteria, la scala una vena ombelicale.
Dentro la membrana compaiono le fattezze di un feto.

CHARLIE (raccontando, con un sorriso, le parole scandite dal ritmo sempre più veloce dei tamburi)
Esiste un mondo capovolto, perfettamente speculare al Mondo di Mezzo, dove gli alberi sono infitti col tronco nella crosta terrestre e le loro chiome sono rivolte al centro del globo.
Io sono... Il centro verso cui guardano i girasoli, l'anima di cui si ricordano, ogni volta che disobbediscono al loro Sole di convenzioni.
Roteo in un fluido denso, indifferenziato.
C'è una scala nel mondo capovolto, che corre parallela a un fiume di acqua trasparente e cristallina: sono una vena e un'arteria ombelicale. Nelle fronde degli alberi s'ossigena il loro sangue, mi plasma, imprime una funzione alle cellule. Trasporta in me tutti i ricordi, in forma d'immagini impresse nel fiume. Centottanta battiti al minuto: questo è il ritmo del mio cuore.
Lei ha i capelli rossi, ma ha un'anima blu. Mi ha sempre amato. Mi ha chiesto di ricordarla, per sceglierla ancora, in questa o in un'altra esistenza.
Lei è già stata qui. Una volta suonava una cetra, per richiamarmi alla vita. Ma da quella volta ha imparato a non voltarsi mai e a non guardarmi quale sono stato nel Mondo di Mezzo, ma a evocarmi nelle cose, per non perdermi.

Cala il sipario.
Si apre il sipario.
Il cerchio di sciamani tace i tamburi.
Janet apre gli occhi, sorride.
Il fuoco si è spento e ha arso il totem.
Si alza e si accarezza il ventre gravido.

JANET (rivolgendosi al pubblico)
Ora possiamo andare via insieme.

giovedì 10 febbraio 2011

REGRESSIONE AUTOPTICA (sconsiglio la lettura ai minori di diciassette anni, ai benpensanti, ai facilmente scandalizzabili, ai "romantici convenzionali")

L'obitorio è una struttura grigia, in fondo ad un grande viale alberato e anonimo che, d'inverno, si tinge dei miasmi densi della nebbia.
I carri funebri passano con indifferenza, scaricando salme come merce ordinaria e fiori come arti decapitati per far compagnia alla morte.
Un vecchio giornalaio decrepito osserva la cronaca mortuaria con gli occhi vuoti.
Le tombe vengono fatte entrare in tutta fretta.
Il cadavere, freddo, penetra in un'altra freddezza, a forma di cassetto.

Lui osserva sempre, avvolto in un cappotto verdastro, il bieco rituale.
Pare un conversatore sbiadito della Morte.
Il suo sguardo sembra penetrare il mogano, aprire le celle mortuarie, rianimare i cadaveri.
Non è né giovane né vecchio e forse non esiste davvero.

Passi che echeggiano sull'asfalto. Cigolare di porta che sembra rompere il ritmo consunto di una bobina. Scale in discesa, verso gli Inferi. Provette allineate sugli scaffali. Freddo.
Non sa più chi sia l'oggetto del suo amore.

Dunque la vede, solo quando è fuori è buio abbastanza, il silenzio assoluto, la luce del neon crea un rumore metallico di corrente tra gli elettrodi.
È avvolta nel suo abito verde, dietro il vetro, china sul tavolo operatorio. Una chioma fluente di capelli biondi, raccolti in una crocchia che, sensuale, lascia intravvedere il collo bianchissimo, due labbra carnose e leggermente schiuse, che sussurrano impercettibilmente qualcosa all'uomo nudo, inerme, bluastro, che giace sul metallo freddo,

Si sporge sino al lobo dell'orecchio destro, per un'altra parola sottovoce, dunque inarca indietro la schiena e con un click lascia che sia la nona sinfonia a coprire il suo dialogo muto con quell'uomo che è stato e che, sotto il tocco cadenzato delle sue mani, sembra sciogliere, a poco a poco, le rigidità mortuarie, riassorbire le ipostasi rossastre che gli affollano il petto e il dorso, ricomporre i lineamenti, sfigurati da un soffocamento improvviso, inatteso, terrorizzante.

Sta in piedi dietro il vetro e la osserva passare carezzevole il dito guantato sul segno circolare, profondo, a cadenze cromatiche tra il verde, il giallo e il blu che circoscrive il suo collo perlaceo e deforme.
E già cresce la sua eccitazione: un battito febbrile si sintonizza col crescendo della musica dietro il vetro, il suo viso si imperlina di una lucentezza vivida, gli occhi si fissano sull'oggetto dell'osservazione, disegnando trame di ossessione e abnegazione.

Lei ripassa le fasi della morte: esplora la sclera bianca e traslucida, gli inumidisce le labbra con un batuffolo di cotone intriso di formalina, gli rasa il cranio con una movenza languida, circolare, carezzevole, dunque gli cinge i fianchi, tastandogli il membro flaccido, per tornare infine al torace e alle mammelle. Impugna la sega, con un sorriso che sono tanti sorrisi messi insieme: il sorriso astratto di un pittore davanti al suo dipinto, quello di una madre che cinge il figlio per la prima volta, imbrattato ancora di vita fetale dopo il parto, quello di un'amante dopo una scena d'amore consumata con la mente, accanto a un partner dormiente. Un sorriso che infligge una vita artificiale a un soggetto inerme. Un sorriso che pare elevarsi nella stanza, inserirsi nell'odore di formalina e cadavere, scioglierli nel sapore di un amplesso eterno, che esclude la decomposizione.

Quel sorriso incrocia il sorriso di lui, che dietro il vetro porta avanti il suo godimento solitario, mentre vivifica in sé il ricordo stantio del sacrificio. Ogni incisione sul corpo del suo alter-ego sul tavolo è una scossa di dolore e piacere sul suo corpo. La sega emette un rumore meccanico, che sembra sconquassare il battito residuo di quel cuore.
Un cuore estratto, tenuto fra le mani, osservato, vivificato da un alito di respiro, massaggiato in tutto il suo essere cereo, sollevato in aria, come un'ostia sull'altare, dunque precipitato in un contenitore ovalare, chiuso ermeticamente da un coperchio di plastica e sistemato sullo scaffale più alto.

Lei scopre ogni ultimo attimo di quel cuore. Ne intuisce le fibrillazioni, sonda i cortocircuiti tra le fibre non più contrattili, le trasforma in sensazioni: obnubilamento, senso di morte imminente, mentre la corda gli cingeva il collo, fame d'aria, convulsioni, spasmi involontari.
Spia nel corpo un rigor terrorizzato, immobilizzato in una smorfia che sa di rabbia, per esser stato, incredulo, beffato. Si protende verso quel rigor, con tutta la sensualità delle sue forme, gli spinge le palpebre sugli occhi sbarrati.

Lui conosce ogni ultimo attimo di quel cuore: una benda calata sugli occhi, perché morire al buio è come cancellare il ricordo, portare la vittima nelle tenebre, ad un prima intenso e vuoto. È come privarla del controllo sulla propria morte e, di conseguenza, sulla propria vita.
Una benda calata sugli occhi e un uomo è già morto.
Implora supplichevole che gli venga restituita la vista, ancora prima della vita.
Una benda calata sugli occhi e un corpo che si dimena, sotto la stretta di due guanti freddi di pelle. Agita le braccia e le gambe, si strozza nel pianto.
Sa che morirà e non si è preparato a questo.
Pensa a come aveva immaginato la sua morte: un attimo sublime di esistenza, avvolto di un bianco luminoso, quasi accecante. Una mano stretta nella sua. Molte rughe sul viso. Una regressione estrema, un ritorno all'utero.
Invece la sua sarà una morte cieca. La sua nascita nella Morte non sarà consolata da nessuna immagine materna.
Una corda spessa che gli cinge la gola.
E un maledetto silenzio.
Vorrebbe che il suo aguzzino parlasse, ma sente solo fibrillazioni, e non sa se siano del suo cuore o una strana energia che fluisce dal suo esecutore.
Il buio diventa trasparente, mentre l'osso ioide si spezza con un suono sordo, il volto si scompone nella cianosi, il respiro si fa irregolare. Lui e l'assassino sono un'unica cosa: respirano la stessa angoscia, un ultimo barlume di eccitazione, dunque si afflosciano in un requiem senza fine.

Donarle quella morte è come renderla continuamente madre dei loro figli che ha partorito morti.
Nove mesi di convulsa attesa.
Uno, due, tre feti immobili, con gli occhi sbarrati, asfissiati.
Una madre che osserva un volto idropico, gonfio di liquido amniotico che lo ha soffocato, anziché esercitare la sua funzione ammortizzante, che deve forzatamente amare la morte, di un amore viscerale, per non uccidere quel bambino; che deve accoppiarsi con la Morte, per generare un bambino vivo.

Le sue mani spariscono negli anfratti del corpo di lui. Estraggono parti, organi, membra.
Avvince a sé pezzi del suo amante occasionale e li inscatola accanto ad altre parti, ad altri amanti. Mano a mano che la musica raggiunge il suo acme, il suo scavare si fa sempre più accelerato, la sua mente meno lucida, la sua sensualità più violenta, i suoi occhi emanano liquidità dense, che si commistionano a quegli organi fermi, e paiono instillare una vitalità momentanea, esalata a caduta come da una sacca di fleboclisi.

Talora i loro sguardi si incrociano: quel sorriso astratto, silenzioso e maliziosamente ambiguo è scomparso. Sono due amanti troppo vicini per sorridersi. Attingono il loro piacere da una stessa fonte.

Quel corpo è sempre più piccolo: taglia, dunque cuce le estremità tagliate, le assembla, come una donna che fa l'uncinetto.
Il cadavere muore ancora e ancora, mentre gli vengono portate via le espressioni sul volto, i muscoli dalle inserzioni ossee, mentre svaniscono le sue connessioni neuronali, sotto lame fredde e appuntite.

Anche lui, dietro il vetro, muore ancora e ancora. Muore di nuovo in tutte le sue vittime. Muore di nuovo in tutti gli amplessi con lei. Muore di quel piacere estremo che lei porta: seziona il piacere, parte per parte. Fa l'amore con ogni organo. Lo estrae, lo rende amante, dunque lo uccide nell'attimo del sussulto, annegandolo nel liquido.
Il suo amante deve regredire, rimpicciolirsi, spogliarsi dei suoi tratti, per penetrare dentro di lei. E rimanerci per sempre.

Una massa rotonda. Un cranio malleabile. Arti che sono ossa sottili.
Impugna il bisturi per l'ultimo tocco.
Trancia il membro di netto, da parte a parte.

La musica sfuma.

Un piccolo essere asessuato residua sul tavolo.
Potrà essere ancora.

Gli amanti, sfiniti, si congedano ai due lati del vetro, osservando il riflesso del loro concepimento, come ad una prima ecografia