lunedì 15 novembre 2010

Una damigiana d'inchiostro


Entriamo nel luogo che ci hanno indicato, quattro mura di legno scuro e, fuori, solo la tundra, una macchia madida al tramonto.Loro sono già là, seduti a gambe incrociate intorno a un fuoco ancestrale. Ci guardano e, con un linguaggio a cerchi di fumo, ci fanno segno di sederci.Sembra un punto di non ritorno. Forse lo è, forse è davvero un'iniziazione. O forse è solo un rituale che, scandito da un ripetizione infinita, ha perso la sua importanza e ci lascerà null'altro che un folcloristico ricordo.Noi sappiamo già cosa dobbiamo fare: aspettare il nostro turno e raccontare la storia di una creazione. Dicono che sia ciò che all'uomo, per natura, viene meglio: pensare di creare, prima ancora di farlo oppure non farlo mai. Guardo la mia compagna di viaggio e il suo volto di lentiggini, che sa di mete lontane.Dunque mi alzo, aspiro dal calumet della pace, subito vedo i loro volti divenire linee sfumate. Mai ho provato l'ardore del dar voce ai miei desideri di creazione. Ma adesso è il momento: fanno risuonare i tamburi, chiudo gli occhi e mi schiarisco la voce

“Io non ho niente da dire.
Non ho più niente da dire.
Prima lo avevo. Questi luoghi, legati con un filo di fumo a una potenza primigenia, esistevano in me prima che nella realtà. È quest'altra me che non ha idea di cosa sia creare, vitalizzare le cose e, poi, lasciarle andare. Forse è perché sono diventata egoista, mano a mano che la cura procedeva, e ho preteso di tenere tutto per me. Così, a forza di implodere per non dare, i frammenti dell'implosione si sono dispersi, non dissimili dalle cellule di un tumore, colonizzando gli organi, il sangue, la vita.
Sono una persona morta, con una vita accessoria, che si avvicina alle cose in modo famelico, le ama perversamente, le trangugia selvaggiamente, senza soffermarsi a sentire ciò che sono.
Dicevano che ero brava a scrivere poesie. Ma ho perso anche quest'attitudine.
Dicevano che era un'abilità dei matti. Ora sono sana, senza picchi e senza abissi.
Ora sono un fantasma, il più arido fantasma della normalità.
Amavo il fiume di un paese, incastonato tra le montagne. In esso lanciavo le mie poesie e le vedevo disfarsi nell'acqua grigia e procedere lente verso la valle. Impassibile il fiume scandagliava i miei anni e io glieli consacravo, avviluppata alla mia infanzia eterna.
Quella casa, a tre passi dal fiume, non c'è più.
Dicevano che fosse irrazionale tenerla, visto che ero oberata di debiti e mi servivano soldi.
L'ho lasciata chiusa un giorno di novembre, mentre il vento sollevava un tappeto di foglie rosse.
Dicevano che tornare mi avrebbe fatto soltanto regredire, mentre era necessario che mi staccassi dai miei “oggetti” infantili. Così non sono più tornata.
Amavo un cimitero di campagna. Mi ero affezionata a una tomba e alla foto di un uomo bello, che sembrava essere stato in ogni istante in un estatico equilibrio tra la vita e la morte. Gli portavo i fiori, anche se non lo avevo mai conosciuto, e in quel cimitero di lapidi cineree vedevo, nonostante tutto, nascere le cose: l'arsura si volgeva nel sopore dell'autunno -cadevano castagne dall'albero secolare e scricchiolava il silenzio un pavimento di foglie-, l'autunno spariva nella neve, il bianco svaniva al verde. Sotto una siepe di rovi, muovevano i loro primi passi traballanti un gatto nero e uno color pesca grandi come il pugno di una mano. Il gatto color pesca era diventato il mio gatto, poco prima che la neve, per la quarta volta, tacitasse la valle nel suo ovattato candore.
Dicevano che non era razionale estrarre la vita dalla morte, che era un gioco perverso. Dicevano che dovevo “elaborare” il lutto, accettare l'assenza di mio padre e, nonostante i miei perpetui tentativi di averlo vicino, il fatto che egli ne rimanesse indifferente, anziché cercare padri morti e idealizzati.
Così ho lasciato il cimitero di campagna e ho consegnato all'eternità una pianta finta per quella tomba vuota. Il gatto l'ho regalato, perché è meglio concentrarsi sulle relazioni umane, pensare, casomai, a fare un figlio in carne ed ossa, anziché umanizzare un essere bestiale.
Ora vivo in una casa asettica, evito le fotografie, i libri e, soprattutto, evito l'inchiostro. Più di tutto evito ciò che è stato il mio strumento di dissoluta distruzione della cura: l'inchiostro è l'unico effetto che mi sarebbe rimasto personale, nella mia stanza bianca. L'unico che avrebbe potuto mantenere un legame con la mia aura confusa e incantata. L'unico che avrebbe potuto rovesciare rivoli di rabbia sulle pareti e da essa riplasmare sul muro vuoto il fiume, le poesie, la casa, il cimitero, il gatto color pesca. L'unico antidoto contro il litio che, metallico, mi aderisce alle labbra, alla pelle, alla mente.
L'inchiostro sporcherebbe la mia vita automatizzata, disinfettata, inutile.
Mi ero innamorata di lui perché portava sulle spalle una damigiana d'inchiostro. Sembrava un pastore in un presepe di carta, in marcia verso un Bambino a sua volta di carta. Sembrava che dovesse disegnare le pupille su quel volto ingessato, insufflare un'anima e un fiato nel bue e nell'asino, rendere teporosa la paglia, regalare una feconda oscurità notturna a quel cielo immobile e bianco di carta millimetrata.
Da quando è comparso, elargendo ebbrezza da quella sua damigiana, anche lei è ricomparsa: ha i capelli rossi e le lentiggini e sembra venire da mete lontane.
È lui che mi ha portata qua.
È lui lo stesso che mi ha curata, per tutti questi anni.
Andavo da lui quattro volte alla settimana. Mi stendevo su un lettino bianco. Anche la stanza era bianca, completamente bianca. La sua poltrona era l'unico elemento nero. Era la cosa migliore da fare, l'unica cosa che mi era rimasta, dopo i miei progressi, l'unica che ancora mi interessava. Forse perché lui era l'unico che sembrava trattenere entro di sé i lineamenti di ciò che ero stata, il sapore di ciò che avevo posseduto, la magia di ciò che avevo sognato.
Io avevo imparato a non fargli domande sulla sua vita, su chi fosse al di fuori della stanza bianca.
Compivo il mio compito diligentemente. Gli raccontavo cosa sognavo la notte. Mi ero abituata al meccanismo del nostro dialogo, alla sospensione del nostro rapporto. Mi ero abituata a essere un ingranaggio nel meccanismo della cura. Mi ero rassegnata a consegnargli tutto quello che avevo e alla sensazione che mi rimaneva, di averlo perso, inesorabilmente.
In cambio avevo solo lui, il litio, perché il mio problema era una nevrosi isterica e avevo imparato che ciò che dovevo combattere si chiamava “maniacalità”. Che essa era una sorta di palliativo, che mi proteggeva dal contatto con i miei traumi infantili. Che ricorrevo ad essa per alimentare fantasie fusionali, in cui, a dispetto di ciò che richiede una crescita sana, non mi separavo mai dai miei oggetti infantili, ma vi rimanevo confusamente legata, alimentando un circolo vizioso che mi soffocava, impedendomi di muovermi.
Avrei fatto qualsiasi cosa per non sentire il nome della mia malattia che, sussurrato a mezz'aria, nel vuoto di quelle pareti bianche, scavava solchi di angoscia e di terrore. E così spegnevo la mania. Evitavo di ironizzare sul mio dolore. Evitavo di sublimarlo. Evitavo, soprattutto, più di tutto, per non regredire, l'inchiostro. Evitavo di far sì che l'inchiostro attingesse alla pozzanghere del mio dolore e lo trasformasse ancora in quella sensazione che più di tutte avevo sperimentato esser simile alla felicità, anche se per lui si trattava sempre e solo di un'euforia maniacale. Evitavo con dedizione non solo di essere felice, ma anche di essere. Di essere qualsiasi cosa che potesse venir biasimata.
Un giorno, però, mi aprì la porta con uno sguardo diverso. Lo studio era in disordine, i libri erano caduti dalle librerie, il materasso era posto a terra, i muri erano imbrattati di vernice, il pavimento cosparso di briciole, il tavolo incorniciato da un mazzo di fiori.
Guardava fuori dalla finestra con lo sguardo assorto e sembrava non volesse più ascoltare.
Fuori nevicava, anche se era agosto, anche se una canicola struggente macchiava i vestiti di sudore.
La neve si fermava sui marciapiedi, sulle macchine, sui lampioni. Era bianca, ma di un bianco diverso da quello delle pareti dello studio: creava un contrasto con il grigiore stagnante della periferia e dei suoi fumi, ripuliva l'aria, generava un profilo nuovo per quella distesa imbruttita da una fabbrica arancione.
D'improvviso vidi che la sua stanza era piena di cose mie: i libri che aveva nascosto nella sua libreria erano quelli che io avevo scritto; le briciole erano quelle della torta paradiso che, come un rituale, mangiavo ogni giorno alle tre, quando da bambina mi risvegliavo dal mio sonnellino pomeridiano; la vernice era di tutti quei colori che avevo scartato prima di scegliere di dipingere ancora e solo in bianco le pareti della mia casa; i fiori erano quelli che amavo portare al cimitero di compagne, violacciocche bianche; il suo stesso volto aveva qualcosa di familiare, come se esso plasticamente si forgiasse a restituirmi occhi che avevo obliato, in un lontano passato.
Aveva una damigiana d'inchiostro sulla schiena e si preparava a distribuirla a destra e a manca. Ma quell'inchiostro era mio. Mio e di nessun altro. Ero stata la sua macchina di circolazione extracorporea per innumerevoli anni, avevo scaldato il suo sangue, lo avevo ossigenato e glielo avevo restituito, rivitalizzandolo, a poco a poco. Aveva sul volto una insolita bellezza, negli occhi mete lontane.
Per la prima volta mi guardò, mi prese la mano e mi parlò di un luogo ai confini del mondo, dove l'oceano è fermo come l'acqua di un lago; dove l'acqua, in virtù di questa quiete alimentata dai ghiacci, fa da specchio al profilo dei monti, agli altopiani ricoperti di erba gialle, alle case di legno scuro; dove ogni cosa rimanda all'altra e, infine, è l'altra; dove gli animali si uniscono a plasmare un unico spirito vitale, incolonnati e stilizzati sulla sacralità di un totem, arso da un fuoco ancestrale; dove un cerchio di uomini con indosso una maschera, al ritmo di un tamburo, pronuncia una formula magica, chiamando a raccolta le entità della terra entro il divampare delle fiamme: da quell'amalgama si leva nell'atmosfera un miasma denso; di esso si aspergono quegli uomini, mentre ad uno ad uno, in una splendida sinergia, iniziano un racconto di creazione, che si leva in un coro asincrono che scuote la tundra e le sue notti bianche, tinteggiate di senape e ocra, i colori della terra evaporati nel cielo.
Dopo avermi parlato di questo luogo, non l'ho mai più rivisto. Se n'è andato con la mia damigiana d'inchiostro e io l'ho seguito a debita distanza. Ad oggi non saprei dire se questo ultimo nostro incontro sia stato un sogno, la realtà o forse solo un'altra realtà, che aveva sempre convissuto con noi e il nostro dialogo incagliato dal troppo voler scandagliare i sogni.
Sono venuta solo a riprendermi il mio inchiostro per poter tornare a scrivere di lei, lei che ha i capelli rossi e le lentiggini e sembra venire da mete lontane.
È ricomparsa non appena lui è scomparso. Si nasconde sempre dietro le superfici riflettenti, tutta avvolta da un pallore nebuloso che, mi sembra, chiede solo di essere enucleato da un ammanto di nebbia.
Anche adesso ondeggia tra le increspature della bacinella d'acqua che gli uomini in cerchio hanno posto al centro, a raccogliere i trucioli di legno che, simili a corolle di fiori, si riversano come pioggia primigenia dall'arsura del totem.
La vedo mentre schiude le labbra e racconta una storia. Dice che amava scrivere poesie e gettarle in un fiume grigio, che le portasse al suo delta; che amava una casa a tre passi dal fiume, incastonata tra le montagne; che amava portare fiori a una tomba vuota, in un cimitero di campagna, alla foto di un uomo bello che sembrava aver vissuto perennemente in bilico tra la vita e la morte; che aveva un gatto color pesca, nato tra gli sprazzi dell'ultima neve nel cimitero di campagna.
Dice che non si è mai dimenticata queste cose. Solo, le aveva separate da sé e aveva frapposto un muro di vernice bianca e spessa.
Ora, tra le increspature della bacinella d'acqua, come soffiata dal ripetersi etereo di quella formula magica scandita dai tamburi, ride e fonde una lacrima a quella pozione che evapora: una lacrima d'inchiostro.”

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