domenica 21 novembre 2010

Centottanta battiti al minuto


Entriamo nel luogo che ci hanno indicato, quattro mura di legno scuro e, fuori, solo la tundra, una macchia madida al tramonto.
Loro sono già là, seduti a gambe incrociate intorno a un fuoco ancestrale. Ci guardano e, con un linguaggio a cerchi di fumo, ci fanno segno di sederci.
Sembra un punto di non ritorno. Forse lo è, forse è davvero un'iniziazione. O forse è solo un rituale che, scandito da una ripetizione infinita, ha perso la sua importanza e ci lascerà null'altro che un folcloristico ricordo.
Noi sappiamo già cosa dobbiamo fare: aspettare il nostro turno e raccontare la storia di una creazione. Dicono che sia ciò che all'uomo, per natura, viene meglio: pensare di creare, prima ancora di farlo oppure non farlo mai.
Guardo la mia compagna di viaggio e il suo volto di lentiggini, che sa di mete lontane.
Dunque mi alzo, aspiro dal calumet della pace, subito vedo i loro volti divenire linee sfumate. Mai ho provato l'ardore del dar voce ai miei desideri di creazione. Ma adesso è il momento: fanno risuonare i tamburi, chiudo gli occhi e mi schiarisco la voce.

Filtra una luce color dell'avorio: è il colore delle notti bianche arse dal fuoco che si leva nel falò. Ogni elemento, coadiuvato dal ritmo dei tamburi, fluisce e sparisce nel fuoco: una maschera; il fascio di Ayahuasca che, bruciando, disperde nell'aria una fragranza esotica che invade il respiro, le membra, i gesti; una tavola su cui sono incisi dipinti rupestri.

Lei chiude gli occhi, i tamburi si sostituiscono al suo battito cardiaco, il fuoco diviene il flusso ch'eleva i suoi ricordi e li sospende. Sono già spiriti che aleggiano nella stanza. Fra loro, io per primo impero, nella mia corazza invisibile. Lei mi evoca, come accade da ormai quasi duecentoottanta giorni. Mi evoca e mi comprime nel ricordo: è come una caduta violenta, uno strozzarsi entro le membra, un includersi in un'eterna ripetizione. Lei mi abbraccia, mentre schiude le labbra, china il capo sul tappetto tribale, si mette in posizione fetale e sorride. In quell'abbraccio torno ad avere una barba sale e pepe, un paio di occhiali che incorniciano iridi azzurre, una cravatta stretta intorno al collo, un camice bianco, uno scetticismo scontento e svilente. Torno a essere io, professore di neuroscienze della New York University, quarto piano, stanza 7, in fondo a destra. Torno a essere io nel mio tentativo di essere Dio, riportando ogni lieve sentimento, ogni vita e, dunque, ogni ricordo, a una struttura cerebrale, a un grigio conglomerato di neuroni, a un circuito di sinapsi sincrone e sincronizzate per effetto di quella macchina infallibile chiamata selezione naturale.

Torno ad essere io in tutto il tempo precedente il giorno della mia morte.

Seguo la forma sinuosa delle sue ciglia, il suo corpo che, tuttora, mi si dona, il suo lieve pudore mentre l'ardore del fuoco altera i confini del suo universo percettivo e, pur ad occhi chiusi, comincia a vedere e a desiderare di incontrarmi, in quello che lei chiama “altro mondo”: l'altro mondo scende a capofitto, sin nel centro della terra. Ha per ingresso una scala a chiocciola d'argilla, così angusta e malferma da farla trasalire ad ogni passo.
Alza il capo e osserva. È entrata nel mondo al contrario: un filare di alberi dal tronco nodoso, le radici infitte nel cielo, un guscio di crosta bruna e la chioma, una fronda di foglie amaranto intrecciate, che spiove sospesa e, accanto, girasoli giganteschi, parimenti capovolti.

È un mondo chiuso.
Hai paura, lo sento.
Stai invadendo uno spazio chiuso e sospeso. Rompendo un folle equilibrio. Ti chiedi perché non ci siano spiragli. Me lo sono chiesto anch'io. E ho concluso: perché non ci siano contatti, tra il Mondo di Mezzo e il Mondo di Sotto.


Si guarda intorno. Ha sempre una percezione quando le parlo: un fruscio di vento appena più sibilante, un bagliore tra le nubi, un'improvvisa visione.

Io non ti voglio qui, nel mondo chiuso.

Scivola appena sulla scala: il suo volto è un punto infinitesimo della discesa infinita, sospeso tra chiome d'albero, corolle di fiori e un folto girovagare d'insetti variopinti. Il suono dei tamburi è ormai come un ritmo indelebile, intrecciato ai suoi passi, una vitalità inconscia che la sostiene, in un mondo ovattato di silenzio.

Ma io sono finito là, sotto la lapide, in un bosco simile a questo. Non ci sono più. Non cercarmi.

Il pallore s'impossessa del suo volto, quando le si para davanti un animale, con il corpo d'orso e il volto d'aquila. Ma tace. Non sa che forma potrei avere assunto, nell'”Altro Mondo”.

Sei troppo ostinata. Lo sei sempre stata. Intrecciavi fiori vivi a fiori appassiti. Cercavi segni nei fenomeni atmosferici. Chiamavi gli spiriti di ciò che hai perso, in continuazione. Ecco, ora io sono uno spirito, ma vivo recluso, senza forma, senza essere, senza sentimento. Ho perso il mio trasduttore, ho perso il mio cervello. E tu... tu credi che io sia con te, ma è solo perché i tuoi circuiti sono integri e m'incatenano al mio volto e al mio tempo. Sei solo un'illusa.

Ma lei non ci crede, non mi ha mai creduto. Non lo ha fatto neanche allora, quando sperimentavo la mia cura per il dolore e per i traumi psichici. Quando staccavo le persone dai loro ricordi perché non soffrissero più. Quando mi sono staccato dal mio stesso dolore.

Ma tu scendi nel profondo e segui il tuo Animale Guida con assoluta dedizione e non inciampi. E lo facevi anche allora, quando danzavi sulle acque serpiginose del ricordo. Ti farai del male, soprattutto oggi.

Alza il capo. Le incornicia il volto un girasole senza punto cardinale.
"Sei qui?", sussurra, mentre carezza il tronco di un albero.

Tu sfiori questi tronchi pensando di trovare me? E allo stesso modo passi il palmo delle mani sulla mia fotografia. Mi cerchi nelle cose, senza mai rassegnarti.

Ha nel volto quella solita guardinga bellezza: le pupille accese, i capelli mossi, un'icona della vita. "Non ti ricordi quando sei stato l'albero?", mi chiede, mentre si ancora al legno nero.

Non so cosa sia essere un albero.

"Eppure, come te, non sa che il suo tronco sono le radici di un altro albero, in un altro mondo"
La osservo: materiale, incede qui, dalla sua realtà nella mia oscurità. Lei è viva. Io sono morto. Danza su quella scala onirica, come una figura primordiale, avvinta in una veste bianchissima. Mi pensa, mi vede nella sequoia gigante. Si ricorda di tutte le volte che lo sono stato e accarezza la ruvidezza del tronco, la lucentezza delle foglie, il sapore dei frutti.
E già prendo forma: la mia barba è un baco appeso al ramo più esile, il mio petto è il tronco, i miei pensieri sono foglie... crescono lussuriose, verdeggianti..

Come illusioni... le tue solite illusioni...

“Poi ingialliscono, diventano anemiche, arse d'improvviso da un'intera stagione di canicola, come una delusione cadono nel vento e si portano nella terra... come i tuoi pensieri...”

Vedi che non rimane niente, che la Natura è programmata per cancellare il ricordo...

Eppure ancora ricordo: il sapore della salsedine che m'investe dall'oceano, la solidità del legno, lo stridere di una pietra per incidere due nomi sul tronco, il tepore del sole, la brezza della nebbia.
E poi ancora...

Il tempo scandito dalle stagioni...

"Ti ricordi le nostre stagioni? Il profumo dell'inverno, la materialità del freddo, l'arrivo dell'erica e del ciclamino?"
No, non voglio ricordare.
"Non vuoi ricordare le cose in cui sei stato perché in realtà vuoi ricordare sempre la materialità di te stesso, confermare la tua teoria. Sei tu che non ti lasci andare..."

Non posso accettare che la mia teoria fosse sbagliata.

"E per questo non vedi come ti trasmetto questo mondo, in continuità col mio... come ti ricreo, momento per momento... non avevi visto la mia distesa di girasoli capovolti..."

"Ma non vedono il sole..."

"Eppure esistono e si volgono all'unisono in una direzione"
Li osservo seguire, in un'improvvisa girandola collettiva, i miei movimenti.

Sono girasoli senza sole, fitti come una foresta... il loro gambo si unisce a un gambo speculare, nella Terra di Mezzo, nella terra degli uomini...

"Davvero non ti ricordi quando sei stato il girasole?"

Ogni volta in cui ho trovato un Dio rigoroso, che variava la sua posizione nel cielo per non essere mai del tutto un Dio al tramonto, così che ad ogni tramonto evanescente corrispondesse un'alba...

"Ogni volta in cui, per curare il dolore, mi hai impedito di amarti e hai continuato la tua marcia imperterrito, dietro quel Sole"
I suoi pensieri creano come un'interferenza nel silenzio di fondo del mio mondo sotterraneo, scavano anfratti da cui passa una certa luminescenza, scuotono il mio Limbo, pervadono quest'universo buio di meraviglie.

Non accetto di non essere morto.

Lei tace.

Ma tu sei già venuta, molte volte. Una volta suonavi una cetra, per riportarmi fuori dall'Ade. Ti chiamavano Orfeo. Ma io so che eri tu...

Ride.
Sembra cosi completamente consapevole.
"Come spirito sei una frana..."
Ancora sorride. È arrivata in fondo alla scala. Si passa la mano tra i capelli. So che aspetta di vedermi nelle mie sembianze. Ma i suoi occhi sono iridi trasparenti, adesso. In essi scolora un arcobaleno, roteando prima piano, poi sempre più veloce.

Segue il ritmo di un tamburo.

"Centottanta battiti al minuto... ti ricorda qualcosa?"

Centottanta battiti... in Medicina...

"No, non in Medicina..."

Quando sono stato in quei centottanta battiti?

Lì, nei suoi occhi, da quel vortice d'arcobaleno, si riflette un fascio di luce bianchissima.
Mi volto indietro: la fonte è una sfera infinitesima, un sole millesimale, un granello luminoso al centro della terra.

Quando lo sono già stato?
Alzo lo sguardo e d'improvviso lo so.


Mi schiarisco la voce e comincio a raccontare. A raccontare di un mondo capovolto, perfettamente speculare al Mondo di Mezzo, dove gli alberi sono infitti col tronco nella crosta terrestre e le loro chiome sporgono verso il centro del globo.
Lo dico e sono: il fulcro verso cui guardano i girasoli, la meta della scala, la luce che permette scambi nutritizi con gli alberi.
Roteo in un fluido denso, indifferenziato. Nella scala scorrono due binari: una vena e un'arteria ombelicale. Nelle fronde degli alberi il loro sangue s'ossigena, mi plasma, imprime forma alle cellule, le compatta. Centottanta battiti al minuto: questo è il ritmo del mio cuore.
Lei ha i capelli rossi. Mi ha sempre amato. Mi ha sempre chiesto di ricordarla, per poterla scegliere ancora, in questa o in un'altra esistenza.
Lei è già stata qui. Una volta suonava una cetra per richiamarmi alla vita. Ma da quella volta ha imparato a non voltarsi mai e a non guardarmi mai per quello che sono, ma a evocarmi nelle cose, per non perdermi.

Il cerchio di uomini tacita i tamburi. Lei apre gli occhi. Il fuoco si è spento. Si accarezza il ventre, sorride.
Usciamo dal luogo che ci hanno indicato.
Ora possiamo andar via insieme.

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