sabato 14 agosto 2010

APOLLO 18


Scruto la strada, i crocicchi del mio quartiere, l'ultima volta prima del lungo viaggio.
Mi volto indietro: il tricolore sventola con insistenza, ai due lati della strada e c'è chi, sporgendosi dal gazebo, mangia prosciutto di Parma o chi ha preferito una fragrante pizza Margherita. Mio padre ha indossato anche oggi il suo ridicolo cappello da cuoco bianco, il grembiule rosso con l'effigie gloriosa di un tortellino, la cravatta verde. Io sono l'unico a sapere che, smessi quegli abiti sempre impeccabili quanto pacchiani, il suo viso porta i solchi internazionali del tempo e i suoi occhi si celano dietro una patina di universale malinconia. Lo sapeva anche mia madre, che invece amava più di ogni altra cosa gli abiti lunghi, “coi fiori non ancora appassiti”. Se ne stava quasi sempre sulla soglia, coi capelli sciolti e un'espressione sognante. Diceva che sarebbe tornata, che tutti saremmo tornati. Invece è rimasta qui per sempre, rimpiazzata da una foto posta in quella sua stoica posizione di benvenuto, incastonata tra il poster della nazionale di calcio con la sua coppa del 2006 e la Ferrari numero 5 di Schumacher posteggiata gloriosamente sotto il podio di Monza, nel giorno del suo addio alle corse.
Insieme, mia madre e mio padre, incarnavano quell'essenza gloriosa del sogno sbiadito del viaggio e, come un Ulisse a due teste mai rimpatriato, colmavano i loro flutti d'assenza materializzando falsi ricordi del loro paese natale: ingannavano l'oblio, partorendo simboli e attaccandoli alla parete, il vuoto, lasciando vorticare dischi nei mangianastri e inondando le strade di quei frammenti musicali della loro lingua, la loro felicità tutta americana, parlandomi in un chimerico idioma italo-americano.
Da solo, mio padre è un automatismo etereo e spettrale, che recita esattamente la sua parte, storpia il suo americano, ormai fluente, con un evocativo e fasullo accento siciliano, suona il mandolino, elargisce sorrisi bonari. Alla sera, però, sale sulla sua Chevrolet Impala, sfreccia su Broadway, da buon statunitense sorpassa sulla destra e si gode l'ennesimo stereotipo, a stelle e strisce questa volta, la pace di una casetta a due piani a Brooklyn, circondata ai quattro lati da un prato d'erba soffice, il baccano di una partita di baseball e il sapore untuoso di un cheeseburger col bacon.
Io non sono così.
Io “giù” non ci sono mai stato e conservo in me, per quel paese che suona mandolini, quel silenzio interno che mi è capitato di ascoltare solo nelle chiese o in quei luoghi a tal punto grandiosi da produrre rarefazioni atmosferiche e acquifere profondità negli occhi: è un silenzio spesso, che si lascia cullare tra estraneità e paradossale inclusione.
Osservo il mio cielo: si addormenta anche questa sera in quella nitida foschia che esala l'Hudson. Le saracinesche si abbassano e tentennano le posate. La gente va, raccolta in fiumare, sui marciapiedi. Non si sa dove vadano le persone a New York, ma per una sorta di imperativo sanguigno e genetico, vanno. Si riflettono in file di grattacieli neri e in essi si deformano e si contraggono, sino a formare una marea umana, un mondo sommerso, fermo, almeno per un'istantanea di tempo.
In Italia non penso che il tempo vada così. Lo sento andare all'unisono con quella che ritengo essere la mia impronta a stivale: io non marcio, non corro. Cerco luoghi piatti e soavi colline, senza punte, senza acuti. I miei sogni non hanno niente della frenesia dei fastfood, delle auto lunghe, delle luci psichedeliche di Times Square; i miei paesaggi non hanno l'immensità dei deserti Navajo, il fragore dell'oceano, l'elevazione dei geyser di Yellowstone, l'asperità dell'Alaska... o forse amo il dinamismo e i dettagli, ma solo se sfumati da una dimensione sopraelevata, placida, ferma... voglio l'Italia, solo perché mi ha escluso, solo perché non c'è stata se non in frammenti lontani, sbiaditi, ideali. E perché in Italia la gente non cammina, ma osserva, con quegli occhi tesi all'orizzonte che aveva mia madre.
In Italia il cielo non avrà questa ambiguità: qui sembra sempre che se ne debba andare, risucchiato dai vapori dell'oceano, enucleato dei colori netti, come un feto nascosto nel suo liquido amniotico, lasciato galleggiare nella sua infinita potenzialità. Là sarà di un azzurro univoco, spesso, un eccesso di colore su una tela.
Il mio sarà un viaggio al contrario. I miei genitori sono arrivati qui per avere, io desidero solo perdere i miei simulacri.
E perderò del tutto i miei dettagli di adesso, mi contrarrò nella mia origine. Penserò di tornare. Ma so che non ritornerò. Come mia madre.
Simili, dissimili. Chi si espande, chi si contrae. In ogni caso l'occhio reagisce nel medesimo modo, che si perda tra confini inesistenti o si concentri su un dettaglio microscopico: perde la messa a fuoco, vede dileguarsi i contorni della realtà, si abbandona in una massa monocromatica, compenetra la profonda unità di tutte le cose. E allora non è vero che “dove l'aria è popolare c'è più spazio per sognare”, perché il sogno non nasce dalla mancanza. E' la mancanza che nasce dove c'è un sogno, per poterlo concepire in eterno.
Faccio un cenno all'autista: ho affittato una limousine per l'aeroporto, perché il mio sogno non è l'America, non è l'Italia, è il viaggio, la sospensione sopra il cielo fosco e il cielo nitido, la partenza.
E questa partenza deve essere perfetta. All'antenna ho fatto attaccare un tricolore e il mio cocktail di benvenuto è un ottimo prosecco.
Allungo le gambe, mi stendo. Lascio Little Italy, le bandierine, l'odore di spaghetti, i menù turistici, il singhiozzo della radiolina che trasmette Roma-Lazio, il sorriso di tanti miei coetanei, che mi guardano stupiti mentre mi catapulto lontano da quella certezza stereotipata, dai mandolini, dalle chitarre, da Ramazzotti, Pavarotti, dal basilico, dalle finte statue romane, dal Colosseo di plastica, dalla mozzarella di bufala.
Mio padre si toglie per un attimo il cappello da cuoco e qualcuno nota che, nel frattempo, ha perso quasi tutti i capelli. Alza il pollice, come un autentico Fonzie. Agito la mano. Gli avevo chiesto perché non tornasse, ma lui ha scosso celermente la testa e ha stretto il bancone tra le dita, con tutta la sua forza.

L'aereo è atterrato da qualche ora.
Sono venuti a prendermi con tutti gli onori.
Io finalmente mi sento felice.
Entro in quella che sarà la mia nuova casa.
Nessuno sa dove io sia veramente. Io so che sto andando davvero verso le mie origini.
E' un attimo: le vibrazioni si fanno sempre più intense, le cinture di sicurezza esercitano tutta la loro forza prensile sulla gabbia toracica, quindi lo SpaceShuttle si solleva da terra: “Apollo 18, decollo avvenuto”.
Il tempo si ferma e un candore ovattato mi sospende, senza vincoli di gravità: Cape Canaveral si allontana, come la realtà quando sfuma tra rochi strascichi di ciglia. Oltre la nitida foschia dell'Hudson, oltre il cielo d'America, sopra l'acuzie dei canyon. Eccola là, l'Italia, vista da questa distesa di crateri bianchi: una distesa compatta e piatta, abbarbicata per le sue insenature. Non parla, non suona, non emana odori. Vive il suo tempo circolare, segue la melodia dei giri di rivoluzione planetaria, sospeso nell'universo, ammantata da filari di nubi come panni di bucato scossi dal vento. Esiste, oltre tutto. La guardo e mi sembra che nei miei occhi si fonda un altro sguardo, incerato nella sua eternità: i fiori non sono ancora appassiti.