domenica 27 giugno 2010

Bianca è la quintessenza (contest BluSuBianco)


Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi.
Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta:
prenderei la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del cervello o nella gola;
scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero il foglio, ci resterebbero attaccate
con tutto quello che si portano dietro.
E’ il potere della pagina bianca, credo.
Ti risucchia e ti libera: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
“Allora?” mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.
“Preferirei di no”.

Lui vuole parole. E' fatto così.
Ma io non ho scritto stanotte e neanche stamattina. Non ho finito il romanzo. Non so dirgli perché non voglio finirlo.
Lui mi scruta a fondo. Non è un cattivo uomo. Semplicemente: non capisce. Non capisce dove non ci sono parole, per lui non esistono spazi bianchi, scossi dal vento. Per lui esistono i dettagli, non le sfumature.
“Ti serve solo un foglio bianco, sono convinto che me lo potresti scrivere anche qui, adesso. Così mando tutto alla grafica.”
La grafica ingoierebbe le parole, ordinerebbe i paragrafi, sigillerebbe i fogli in una risma. Tempo, ordine, una pagina dopo l'altra.
Se avessi un foglio bianco, lo poserei sul volto dei miei personaggi, che ho abituato ad essere un'andatura bizzarra o un nichilismo mondano o un dramma esoterico. Indossano il loro volto, con i suoi fulcri difettosi e ogni pagina li immortala, con una frase, un discorso diretto o un monologo eterno.
Sono chiusi nel libro.
Camminano per quei crocicchi nebbiosi, sanno quando tornano le rondini, quando si posa la neve, quando i semi diventano papaveri, vivono con discrezione il loro tempo, confidenti che ripeterò i cicli, con un ordine rassicurante, indissolubile. Per quei medesimi cicli, per cui permetto loro di cambiare i vestiti, di provare una sensazione di rinascita in primavera o una nostalgia silenziosa e mortale d'inverno, mi chiamano Dio.
Non sanno di quell'ultima pagina, della copertina rigida che li incastonerà in un'ibernazione senza fine, con le labbra schiuse in un perenne sorriso o in uno sguardo malinconico verso l'infinito. Non sanno che si cristallizzeranno con in mente un ricordo e quale pena eterna sarà l'immobilità di quel pensiero.
O meglio, lo sanno, ogni loro tremore è dedicato alla morte, ma evitano di pensarci, sanno che fa parte dei cicli. E in fondo, da buoni personaggi, non riescono a immaginare la scenografia vuota dei loro passi, l'orizzonte senza i loro occhi, il boato di una tempesta senza le loro orecchie. Sanno che Dio vive attraverso di loro. Non sanno che Dio vuole sempre altre esperienze, nuovi libri.
Se avessi un foglio bianco, lo stenderei sui loro corpi. No, non è un gesto mortuario, non è una copertura. Si sbagliano. E' solo una cancellazione, un dolcissimo oblio.
“Ma perché dici queste cose?”, mi chiede, facendo sobbalzare gli zigomi del suo volto grassoccio, vibrando i mustacchi castani, rimpicciolendo gli occhi porcini. Questa è in lui l'espressione della disperazione, un congegno mimico ben definito, punto per punto.
Loro non sanno quando sono nati e perché. Ho dato loro in dote un passato, affondato in gesti sfocati: per alcuni è un'oasi fertile, piena di datteri, un luogo perduto; per altri è un padre che li ha abbandonati, una madre che li ha rifiutati, o la piccola violenza di un gesto quotidiano. Quale che sia, li ho legati a quel passato, l'ho messo al centro del loro essere. Ho bisogno che credano che sia importantissimo: ne ho bisogno perché la storia abbia un senso. Quel passato é di loro proprietà come lo può essere una protesi, che condiziona la marcia, la rende meccanica, la dirige, la limita. La conduce esattamente là dove voglio che vada. E' la loro ancora e da allora la loro navigazione è un girovagare infinito intorno ad un perno, punto per punto equidistante dalla loro scia.
Se avessi un foglio bianco, glielo adagerei sugli occhi, lo fonderei con le loro labbra. Nessuna scritta, nessun nome, nessun ricordo.
Bianco, com'era prima. Senza copertina, senza numerazione delle pagine. Bianco e basta.
Non nati, non morti. Ci sarebbero, come effigi sacre su un campo oscuro, come rilievi sui negativi. Non annasperebbero per recuperare l'ancora, ogni volta. Guarderebbero la spuma della scia, l'ampiezza della loro circumnavigazione, odorerebbero le alghe adese in poppa, carezzerebbero il susseguirsi dei porti, lo spessore del manto dell'acqua, la linea del sole sui flutti. Nel loro girare perpetuo intorno a se stessi, godrebbero delle cose che ho loro elargito, osserverebbero il legame con il centro, carpirebbero il mistero. Comprenderebbero che la navigazione non ha origine se non la meta, la quadratura del cerchio, o meglio, il ricongiungimento con la partenza.
“Ma cosa ti viene in mente?”, m'interrompe.
L'ho vista.
“Hai visto chi?”
La verità.
Strabuzza gli occhi, inumidisce col fiato gli occhiali, li pulisce con la manica della camicia.
Ho visto il foglio bianco. Ho visto la trama. La semplice trama.
“E dunque?”
Non aveva un nome. Nessuno scrittore si era curato di darglielo. Le avevano lasciato una casetta di legno, per ripararsi dall'inverno. Una casetta di quelle che danno l'idea di voler includere ed escludere, allo stesso tempo, un simbolo ambiguo, un utero senza corpo. Le lasciavano ogni giorno una ciotola piena di cibo a buon prezzo, di quello che non si riserverebbe al proprio animale, ma sufficiente a spandere calore nelle articolazioni, energia nei muscoli, legami nella mente.
Non avrebbero saputo esattamente descriverla: era una gatta bianca, insieme ad altri gatti, con una macchia nera sull'orecchio, chi può dire se fosse il destro o il sinistro?
Li guardava con malizia, senza avvicinarsi e senza troppo allontanarsi. Faceva qualche passo di corsa, si stirava, si affilava le unghie su un tronco, faceva un'altra corsa, riducendo il raggio della distanza. Mostrava impaziente ciò che sapeva fare, con eleganza. Ma loro, a quel punto, dicevano “ciao”.
Era una gattina qualunque, col naso rosa.
Una gattina qualunque con un segreto. Non mangiava mai quel cibo che veniva elargito alla sua colonia di gatti. Attraversava la strada, quando calava la sera, quando il paese si svuotava e l'aria diventava meno densa, s'infilava sotto le inferriate del cimitero vecchio, odorava le bacche rosse della pianta all'ingresso, s'inebriava di quel profumo di gelsomini. Il cimitero era un giardino proibito, carezzava con la zampa le fotografie sulle lapide, mangiava l'edera rampicante che avvolgeva una cappella dissestata. Infine andava là, sotto la siepe, ai confini del prato. Di quella siepe non aveva alcun ricordo, ma era la siepe sotto cui era nata, la prima siepe sotto la quale era stata nascosta per lei e solo per lei una tazza di latte. Da allora quel cibo ha continuato ad esistere, con la costanza di un'elargizione invisibile di fronte a un piatto svuotato sera dopo sera, come una madre vacua, eterica, eppure spessa, fitta di silenzi notturni.
Quella madre osservava, ogni mattina, l'impronta del suo feto sconosciuto: era una sagoma vuota in un vaso di anemoni. Aveva le forme del suo sonno, la lunghezza dei suoi arti, la distensione del suo volto. Aveva il paradosso di una vita che continuava a ritirarsi nella sua gestazione, in quel sacco amniotico che era il vaso, adiacente a quel cordone ombelicale che era il sottovaso adibito a ciotola, in mezzo alle lapidi. Nessuna definizione, nessuna conoscenza, solo un'impronta.
“Questo non c'entra con il romanzo...”, borbotta, mentre accende la pipa.
Lei era un foglio bianco sulla strada nera, stamattina, all'alba. L'ho riconosciuta per quella macchia sull'orecchio, non saprei dire se il destro o il sinistro.
Un foglio bianco e immobile, rannicchiato per sempre vicino alla sua origine.
Gli anemoni si risollevavano, chiudevano la sagoma, la dileguavano. La liberavano. Cancellavano il segno del suo passaggio.
Pochi minuti. Alla mia uscita, il foglio bianco era sparito. C'era solo la strada nera, macchiata di sangue.
Sono andata via con una strana sensazione. Che il mio feto fosse finalmente nato, avesse rotto le acque, macchiato il lenzuolo. Solo allora che, come un foglio bianco, per un attimo, inaspettata, l'avevo vista, senza averla prima immaginata o progettata.
Mi guarda, apre le labbra.
“Mi dispiace”, mi dice.
Non è un cattivo uomo. Semplicemente: non capisce.
“Allora se avessi un foglio bianco scriveresti questo?”
Se avessi un foglio bianco, prenderei la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del cervello o nella gola.
Scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero il foglio.
“Allora?”, mi ripete.
Sporcherebbero il foglio, gli ripeto. Quel foglio bianco sulla strada nera, rannicchiato vicino alla sua origine, che oggi, invece, voglio che sia soltanto il suo. E' il momento giusto, mi ripeto.