martedì 18 maggio 2010

A-mors (dal contest letterario "Blusubianco")

“Assaggia.”
Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia, così le tiene incrociate sul tavolo.
Lei gli passa il cucchiaino: sta aspettando. Ci sono tante cose da dire, adesso.
Prima di entrare in casa gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo padre avrebbe fatto lo stesso.
Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il dolce che si scioglie sulla lingua
e gli sveglia una parte del cervello che credeva addormentata.
“Lo so perché sei venuto” dice lei nello stesso momento in cui lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: “Cos’è?”
Lei lo guarda, sorride, gli prende la mano, guida ancora il cucchiaino verso le sue labbra, seduttiva ma con un certo palpabile distacco.
“Secondo te?”, gli ammicca.
Lui sorride vacuo e guarda la torta.
In ogni voluttuoso giro di panna sulla superficie, gli sembra di intravedere una supplica velata, amorfa... ma subito si plasma, quella supplica, in ogni intaglio del marzapane, in ogni sua rotondità foggiata a guisa d'un fiore pregiato, come a schiudere una simbologia di nascita contro l'assenza che lei presagisce imminente. Come un segno persistente, estetico o, forse, in fin dei conti, solo l'ennesima prigione.
Esplora ancora la torta con il cucchiaino ed è quasi un arco riflesso il protenderlo verso di lei, che però serra le labbra, prima severa, poi scoppiando in una risata forzata. Non vuole condividere la sua ultima prelibata creazione dolciaria, gli dice, quella torta è solo per lui, strato dopo strato, sino alla farcitura... dice, questa torta è una storia, un incedere di passi, fino al nucleo... è una caccia al tesoro, ogni strato è un messaggio criptato nel decoro, nell'impasto, nella base...
La osserva: è come è sempre stata, avvolta da una nube di vaghezza, due occhi leggermente strabici, non bella, eppure di un'alterità che le disegna sul volto quella nobiltà che non possiede di casta; possente, estrosa, eppure magistralmente fredda e quasi efferata, nel suo darsi e nel suo assentarsi, proprio come capita con il suo sguardo,
Primo strato: panna e chantilly sono il terreno di una coltre di nontiscordardime di marzapane. Blu su bianco, sempre fiori tra la nebbia. Affondano come note su un pentagramma, scolpiscono qualcosa. Nascono in primavera, a ciuffi e li osserva anche lì, in centrotavola, raccolti in un mazzetto ordinato, dentro quel vaso in ceramica bianco che avevano comprato al mercato delle pulci.
Nontiscordardime, violenti, intimidatori su uno strato di nebbia. Primo monito contro l'abbandono: lo sente e ne assaggia uno, perché almeno un avvertimento, delicato, sofferente scompaia dalla miriade di avvertimenti colpevolizzanti. Ne mangia un altro e un altro ancora, con aria di sfida.
Lei tace, accarezza i fiori veri, li odora, soffia contro i petali come vento lieve, loro tentennano e sembrano riplasmarsi, come d'incanto, anche sulla distesa di panna punteggiata di lacune simili a lapidi senza nome.
Rimane la nebbia, con le sue vertigini... glielo diceva sempre, lei, che ogni alba paga il suo fio alle dissolvenze della notte... e anche la sua alba, che immagina lontana da lei, ponderata, poi negata, ritrovata, per un attimo si tinge di nero.
Ma lui va oltre, deciso, verso il mezzogiorno, quando le dissolvenze diventano una stria nera sull'orizzonte, che tutti sanno essere solo il limite intrinseco della vista, non qualcosa di reale.
Lui può lasciarla, si convince.
Secondo strato: scaglie di cioccolato su una crema all'arancio. Sono punti scuri, su uno sfondo mellifluo, cardini in mezzo al nulla, il sapore definito che squarcia il languore dell'arancia sulle papille.
Lei è sempre lì, ha incrociato le palme delle mani sotto il mento e attende. I suoi occhi strabici non lo guardano mai direttamente, le mete del suo sguardo sono sempre in un altrove. Perciò si fanno seguire per i loro angoli astrusi: disegnano un aldilà imprendibile, vincolano con una divina fascinazione. Ogni cosa dritta e lineare sbiadisce, come crema all'arancio, un magma pallido e aspro, che cerca confini nelle ombre irregolari riflesse dal suo iride, simili a quelle scaglie al cioccolato, che le sue mani hanno tagliato con tanta maestria.
“Non mangi?”
Lui impugna il cucchiaino, affonda le scaglie nella crema fino a farle sparire e la rende uniforme. Vuole vincerla lui, questa partita.
Ma l'albero d'arancio l'osserva, rigoglioso nel suo vaso, fuori dalla finestra, sul terrazzo. Le foglie sono verdi e lucenti, i rami di un bruno intenso. Ogni cosa è. Ogni cosa parte da lì, da lei, torna nella torta, per lui. Ogni cosa rimane, al di là di lui, come un calco sempiterno, una forma originaria. Ogni cosa entra in lui, diviene lui, diviene il suo sapore, il suo anelito. Anche l'indefinito della crema arancio, fluttuante lì come uno spirito ammaliante dal suo futuro, appartiene a lei.
Mangia ancora, lecca il cucchiaino, trova le scaglie al cioccolato, i loro spigoli amari e fondenti.
“Fai ogni cosa come tuo padre.”, gli sussurra, accarezzandogli le orecchie col dorso delle mani.
Glielo dice sempre, ma la sua voce rimane sospesa in un Limbo, le parole scandite senza alcuna vibrazione e lui non sa se ritenerle un rimprovero sprezzante o il luogo dove l'eterno, intrappolato nelle rotazioni del DNA, si può placidamente ripetere, come un rito sbiadito presso un altare.
Non se lo ricorda suo padre. Per forza: se n'è andato, ha abbandonato sua madre, che pure sempre lo rivede nei suoi gesti. Così non sa se potrà o non potrà fare lo stesso.
Terzo strato: una crema densa, bianca, come midollo.
E' la chiave.
Il bianco ha il coraggio di non essere, raccoglie ogni frequenza della luce, la prende e l'annulla in sé. E' tra tutti il colore più potente. Nel bianco ogni cosa si apre e si chiude e, silente, si dilegua.
In quella crema bianca affonda ancora il cucchiaino. La assaggia, ha un sapore agro. Sembra risvegliare in lui quella parte del cervello che si era addormentata.
Lei è immobile, vestita di bianco, come una vestale ad una cerimonia di iniziazione. Lei, l'arancio, i fiori, la stanza sono immagini che, sfumando, si affrontano come carte sbiadite, cadono, si uniscono, formano una strada. Lei non può essere lasciata, perché è in ogni cosa, anche nella strada medesima che, traslucida, gli obnubila i sensi, gli toglie il respiro, irrigidisce i tratti, gela le labbra, accelera a girovaghe intermittenze il suo battito cardiaco e poi lo placa. Come una sposa lo conduce sui campi desolati di nontiscordardime, cammina sulla nebbia, accosta gli opposti e li nullifica. Lo conduce al suo dolce ritorno.
Non può lasciarla.
Perché? Cos'è?
Lei è il nucleo.
Lei è la farcitura.
Ora lo sa: lei è il veleno.

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