martedì 18 maggio 2010

Bianco come il catrame (dal contest letterario Blusubianco)

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora: infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsanuova sul ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla stanza. Va a sedersi davanti allo specchio.E’ bella, oggi; sembra quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può girarsi, raggiungere il letto.Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida.Va all’armadio e cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono anche se è lì, sul comodino.
Non c'è una stampella libera, nota con disappunto.
Ogni cosa giace simmetrica, sino ad occupare, nel modo più funzionale possibile, ogni legittimo spazio del grande armadio bianco. Anche lo spazio immaginario è soffocato da cassettiere aggiuntive e, nelle stesse, spazi divisori si sono presi un'ulteriore rivincita contro il caos.
Chiude la finestra, per riparare la stanza dalla brezza e dal brontolio arrugginito del vaporetto, in partenza, dal porto fluviale. L'osserva andar via da quello spazio insonorizzato, come un quadro che si liquefa, distrattamente, su una tela. Il paesaggio fuori è ora ricomposto, la schiuma della barcarola rinchiusa in onde parallele, un raggio di sole, il primo dell'alba, filtra tra le foglie di una betulla. Respira.
Guarda le pareti bianche, l'orchidea bianca nel suo vaso sulla specchiera di betulla, abbassa le tende ricamate, si stende sul letto dal copriletto bianco. In quello spazio immacolato rimane assorta, rivede la sua immagine nello specchio. Certo, è bella, è bella anche oggi, come se il trucco di ieri non si fosse disfatto. E in effetti nessun evento, nessuno sconvolgimento è intervenuto a interrompere la compattezza della sua nuova cipria sulla pelle pallida e lucente. Nessun vento ha scompigliato la treccia di capelli biondi e sottili. Nessun incanto, nessun sussurro le si è insinuato nelle piccole orecchie rotonde. Si accarezza il collo, ricerca la sua voglia a forma di fragola. Dovrebbe farsela togliere, pensa.
Parrebbe soddisfatta, ma si volta verso la cassettiera e ancora la ritrova lì, la camicia bianca: che stupida, ripete ancora a se stessa, per averla dimenticata un'altra volta. Allunga il braccio e ancora accarezza il colletto. Sembrerebbe volerlo lisciare, com'è suo solito, quando deve indossare un abito con così tante, insidiose pieghe. Lei stessa finge che questo sia il suo scopo. Eppure le sue mani indugiano sulla stoffa, s'incrinano nelle asole, stringono il pugno impercettibilmente sul bavero, roteano sulle rotondità dei bottoni.
La camicia si stropiccia, a poco a poco, sotto il tocco di quella mano che agisce come un organo a sé, automatizzato, staccato dal resto del corpo. Nel suo pugno i lembi si sfiorano, sino a formare un ventaglio. Nell'atmosfera colonizzata dalle fragranze di un detersivo alla lavanda, s'asperge dell'odore di quella camicia. Lo sente, ma sempre con quella mano, che pare essersi dotata di tutto un suo apparato percettivo.
Il resto di lei è riflesso come un tubo rigido, un'ombra immobile sul soffitto bianco. Lo respira, quell'odore, sa di vento, di quelli che arrivano da nord e spirano vociferazioni fredde in una giornata temperata. La mano s'infila nella manica, l'accarezza dall'interno. La mano si sente, come un'essenza pesante, lambire un altro luogo, un'altra vita. Si sente, nascosta entro quella manica, come il vento stesso, che di nascosto plasma le forme, le gonfia, le scaglia e le rilascia lontano. La mano si sente, come corpo sottile. La camicia si solleva, fa un vortice nell'aria, si riabbassa, serpeggia sul copriletto, La camicia può ricordare, ora, i movimenti che ha compiuto e quelli che ha solo immaginato. La camicia può pensarsi, investita dai flutti sollevati dal vaporetto. Sa di acque fluviali e di un percorso verso un delta caotico che si affaccia su due mari. Forse qualcuno la abbraccia, un'altra camicia. Un altro vento. La camicia sa che c'è stato un prima. Perciò è di un altro bianco, rispetto ad ogni bianco della stanza. Ma lei non lo sa, lei non la osserva. Che stupida, si ripete. Quella camicia non deve star lì. Si alza di scatto, con un filo d'irritazione che le schiude la bocca e le schiaccia le narici. Ritorna al cospetto dell'armadio. I ripiani sono pieni. Pieni zeppi di cose nuove, intonse, impilate. Scruta dal basso il profilo rettangolare della sua borsa nuova. E' bella, è di pelle e della pelle nuova emana l'odore. Dentro, palline di carta velina ne foggiano il profilo con fierezza.
Eppure basterebbe girarsi, per vedere. Per vedere che quella camicia da tempo non è stata lavata, perciò è una macchia bianca su un copriletto più bianco. Una macchia che giace senza posto sull'altra piazza del letto, come un monito, come un compagno. Basterebbe girarsi, per sentire, per sentirsi. Per sentirsi muta nello spazio insonorizzato e inerte, sopraelevata in quella guglia affacciata su uno scorcio di ciminiere. Su quelle ciminiere sono tornati, ancora una volta, i gabbiani: disegnano cerchi concentrici che si restringono, ad ogni disperato giro su se stessi, verso il loro centro e urlano la loro caduta, sul fiume nero di catrame.
Ma qui tutto è bianco. Le finestre sono bianche, le tende sono bianche e i loro intagli schermano parte della visuale e si lasciano trasportare sui rami frondosi di quell'unica betulla, che svetta tra i fumi e forse inspirando il suo desiderio dell'altra lontana riva, con una forza rituale li assorbe e li cancella.
Guardala quella camicia.
Quella camicia è il caos. Quella camicia cambia tutto. L'ultima volta, le viene in mente. Si ripete questa locuzione. L'ultima volta. L'ultima volta è già avvenuta o ancora deve avvenire?
Guardala quella camicia.
L'ultima volta che ha guardato qualcosa sapendo di lasciarla andar via per sempre... quella volta non c'è stata. Non sa immaginare come possa essere, lambire i contorni delle cose, delinearne la forma, per poi ricordarla nell'assenza, cingerli con le braccia, soffiarli indistintamente con le labbra, chiuderli dentro gli occhi.
Osserva il pallore della sua stanza, le cose ferme, immobili, la sua immagine, identica nello specchio. Deve sforzarsi di non guardare il telefono di ultima generazione, che un caricabatterie mantiene in vita come un respiratore artificiale. Deve sforzarsi di non guardarlo per non sapere che nessuno ha chiamato. Si avvicina alla porta. Quella camera potrebbe essere tante cose. Immagina di consegnare le chiavi alla vecchia locandiera. Che sia l'ultima volta. Immagina il nuovo abitante di quella guglia.
Potrebbe essere uno scrittore, giunto da lontano, in cerca di quell'ispirazione per cui luoghi degradati come quello, alla fine del mondo, strano centro di contaminazione industriale, nel candore primordiale dei fiordi, trovano inaspettata la loro poesia.
Quello scrittore rimarrebbe di certo sorpreso del bianco soffocante di quelle pareti. Di certo non gli sfuggirebbe lo spessore inaudito della pittura, l'odore sempre intenso d'intonaco. Non potrebbe non notare come plurimi strati di quel colore abbiano formato dei grumi minuti che arricciano come onde quella superficie non più liscia.
Quello scrittore ha appoggiato la giacca sulla sedia. Apre la finestra e osserva il fiume nero, placido, Vede che il catrame della sciagura ha lo stesso spessore della vernice. Qualcosa è in perpetua attesa di snodarsi, di sverniciarsi. Qualcosa, come una melodia cantilenante balena sul fiume: sembrerebbero gabbiani, ma le loro ombre non hanno riflesso nelle acque scure. Nessun tempo può davvero passare, nessun ritorno può essere celebrato.
Lo scrittore guarda attentamente anche quella nuova prospettiva della stanza: c'è una camicia, sul letto. Come una macchia, provocante, se ne sta stropicciata con una certa, inconsapevole foga, di un bianco diverso, informe, caotico, vissuto. Chi gliela ha lasciata, gli ha fatto un grande favore: quella camicia cambia tutto. E' una camicia di bambino? O forse non è la camicia di qualcuno: se ne accorge dalla trama dell'ordito, non davvero perfetta e dalla lunghezza impari delle maniche, dalle asole, che non sono allineate sulla loro linea verticale. Quella camicia era un progetto. Forse era il primo lavoro, non ben riuscito, di cucito. Forse aveva voluto cominciare con una taglia più piccola, per limitare i danni sulla stoffa. La solleva, la allarga: i due lati non combaciano. Quasi che, chi l'ha cucita, abbia progressivamente ristretto il progetto: le cuciture sono nervose, arrabbiate, storte. Ogni passo d'ago s'incurva come a chiudere gli orli. Nella foga s'è dimenticata di lasciar aperta la manica. Vi mette dentro la mano e la agita, come un moncone. Qualcosa, qualcuno è morto dentro quella camicia. O forse dentro la camicia qualcosa si era ostinato a vivere caparbio e ora rimaneva lì, per il viaggiatore, angosciante, selvaggio, impregnato di sapori densi. Come un caos primitivo, enucleato dal cosmo, come una nascita universale inversa, un elemento svincolato in viaggio solitario verso l'entropia.
Forse qualcuno era stato ucciso con quella camicia e ora rimaneva lì, brandello mutilato di un delitto, colpo postumo inferto sulla vittima, Sì, forse quella era stata una comune camicia, forse qualcuno l'aveva disfatta, a colpi retrogradi d'uncinetto e l'aveva chiusa, deformata nel suo profilo. Forse qualcuno era stato ucciso, per non essere una comune camicia bianca nell'universo bianco e un eros indomito se ne impossessava segretamente, lasciandolo inerme sull'altra piazza del letto.
La stanza ora è caotica: oggetti nuovi sono sparsi sul pavimento, alla rinfusa. Le ante dell'armadio sono aperte. Lei si è sciolta la treccia. Come uno spettro la camicia giace sulla testa della lampada, sul comodino.
Apre la finestra. Ora, i piedi liberi e nudi sullo stuolo di quelle cose non nate, riesce a sentirsi. Si affaccia e prende tra l'indice e il medio una foglia di betulla. Come un'inattesa illusione, le ombre dei gabbiani ritornano sul fiume. Vorticano in cerchi concentrici, alla ricerca dell'ennesimo ritorno. Non potevano andarsene, prima di essersi ritrovati, ombre nella loro meta. L'oscurità fluisce lentamente dal fiume, come un'evaporazione densa. Sente caldo... il catrame si scioglie, ritorna nella stanza... l'intonaco sgorga via dalla parete e le onde ritornano al fiume.
Apre gli occhi. Ora può girarsi, raggiungere il letto. Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida. Che stupida a pensare di chiuderla nell'armadio.

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