martedì 18 maggio 2010

Shadow city

Salgo ad una ad una le scale, carezzando i muri, che non hanno perso, tuttavia, il loro candore, anche se al minimo sospiro paiono sfaldarsi.
Il grande salone ha i pavimenti in legno d'ebano. E' rettangolare più d'ogni rettangolo archetipico, il soffitto a cassettoni di mogano. Sulla parete sud, rivolta verso l'oceano, è incassato un camino bianco in muratura. Sulla parete nord, simmetricamente al camino, avevo fatto disegnare la sagoma eterea di un orologio a muro: quell'orologio si è fermato alle ore 5,37 di tredici mercoledì fa.

D'allora più nulla, qua, s'è mosso, neanche la terra, che tanto aveva tremato.

Non oso dirlo a lei che, seduta a gambe incrociate al centro del salone, su un grande cuscino rosso porpora, bello imbottito, mi attende. Anche lei pare non essersi mai più mossa. Appare incerata nel silenzio fatiscente del municipio diroccato e senza finestre, sfiorato appena dal muggito dell'oceano croceo, che solitario respira, come il ricordo di un'esistenza lontana. Non oso dirle che, falcidiato dal sopore della città che dorme, mi trovo a ricercare la vita nel medesimo tremore che l'ha distrutta, perché esso è stata l'ultima presenza, l'ultimo specchio del divenire sulla nostra terra.

La scacchiera è lì, al centro, incoronata dai cuscini color porpora, integrità tra frammenti di carta e cristallo.
Avremo luce finché ci sarà il sole.

Proprio lì, tredici mercoledì fa c'era un lungo tavolo di cristallo con un grande plastico della nostra città: la chiamavano White City, perché non aveva un elemento che non fosse bianco contro l'oceano, niente di così tangibile, materiale, aggressivo da trattenere un colore.
Ogni cosa a White City era predisposta per colorarsi secondo l'incidenza della luce: ne ricordo i profili aranciati, quando l'osservavo al tramonto da Corn Hill, le lugubri tinte violacee quando il cielo era plumbeo e consistente come un'essenza fantasmatica, nei giorni di temporale estivo, le voluttuose trasparenze dell'alba, quando il divenire enigmatico del giorno sui flutti dell'oceano annientava la materia e la scioglieva: allora l'intonaco delle case, chiuse nel loro anfratto di costa limitato da due scogliere simmetriche colonizzate di leoni marini, pareva liquefarsi ed evaporare sopra i comignoli. Non si poteva chiamare nebbia, quella evaporazione, perché non nascondeva le cose, bensì le restituiva di un'altra natura, eterea, spirituale, di un altro mondo.
Lei dice che l'alba s'è conservata della medesima consistenza e che all'alba la città continua a non esserci, adesso come allora.
Dice che, adesso come allora, si scarcera e si eleva. I pruni e i mirti, sulle colline, la fanno veleggiare sulle loro esalazioni, ogni cosa, dalla pietra, al leone di mare, alla sabbia dell'oceano, al granello d'asfalto diventa un respiro collettivo, un grande e regale spettro.

Ma lei è fatta così. Dice tante cose. Le dimentica. Le nega. Le riafferma.

Mi siedo di fronte a lei.
Le sue pedine sono quei pezzi che il grande plastico, frantumandosi, ha abortito. Sono i suoi pezzi bianchi: li riserva a se stessa, come un incontrastato simbolo del Bene.
Oggi è il primo mercoledì in cui il cielo pare un po' meno scuro e impregnato dalla fuliggine.
“Sei in ritardo.”, mi sussurra con aria grave.
Ma so che non si riferisce a questa sera. So che mi rimprovera di non esserci stato, l'alba di tredici mercoledì fa. So che me lo rimprovererà sempre, per quella sua attitudine, che ha conservato dall'infanzia, a considerare l'assenza una forza tragica e dirompente, in grado di distruggere le cose. So anche che, nell'intimo dei suoi sogni, mi ritiene responsabile della catastrofe.
Si tiene appigliata alle sue pedine bianche con una caparbia speranza. Vuole che sia io a ricostruire la città bianca che non c'è più.
“Sei l'architetto migliore del mondo”, mi dice anche oggi, per ricordarmi il perché di quella convocazione.

Il nostro gioco è in realtà, sempre lo stesso. Si ripete, nel silenzio surreale.
Da tredici mercoledì non vediamo la pioggia. Le nostre nubi sono state solo nubi di fuliggine.
“Hai visto?”, mi dice, mentre mi indica delle nuvole gravi, spesse, che dall'orizzonte incedono sul mare e, trafitte da una coltre radente di luce, si fanno d'un grigio luminescente, quasi aureo.
Lei non è più la donna che era. Gli occhi sono una patina spenta e le mani non hanno mai smesso di tremare da allora. Ogni tratto di lei sembra ancorato a trattenere qualcosa della catastrofe, come un'estrema difesa contro il nulla. Ogni espressione in lei è una lapide che vuole conservare, incensare, adorare.
Sembra aver perso qualsiasi forma di fascinazione per le cose vive ed essersi votata ad un assurdo culto dell'assenza.

E così non posso che attendere questo nostro mercoledì.
Il resto della settimana è come una massa di tempo virtuale e contratto, che non ritiene all'altezza di essere vissuto. E' solo il tramite per ogni mercoledì successivo, per la celebrazione maniacale del lutto totalizzante, informe, spettrale. Il resto della settimana non mi è dato di vederla. Non so dove vada né cosa faccia. So per certo che tutta la sua mente è tesa alla ricostruzione. Ricordare, ricordare, ricordare, questo è il suo imperativo.
Ogni mercoledì vuole essere certa di aggiungere qualcosa, foss'anche un piccolo dettaglio della vita della città bianca che non c'è più: può essere un decoro sulla parete della scuola, un dipinto del museo, la particolare forma di una mensola della libreria comunale, un'aiuola di fiori rampicanti appesa alla testa di un lampione. Può essere un riflesso della pavimentazione del lungomare, che interamente era stato impregnato delle conchiglie a colori cangianti del nostro oceano. Può essere la pianta rampicante che s'intrecciava lungo le pareti della lanterna e sorbiva i flutti della scogliera.
Lo aggiunge lì, sugli elementi del plastico. Ha acquistato dei colori fini, per restituire all'anonimato delle case in miniatura la loro anima.

E' in grado di utilizzare alla perfezione lo spazio esiguo della scacchiera e ogni mercoledì, quando il sole, tramontando, ci lascia nell'oscurità, la città bianca riluce ordinata sul pavimento, come un fantasma. Ci allontaniamo in silenzio, lei talora cammina in punta di piedi, quasi non volesse svegliare il suo feticcio e io ho davvero l'impressione che lo metta a dormire dentro di sé. Dopo aver completato questo rito, qualcosa in lei si placa, la tensione dei muscoli si allenta, lo sguardo allucinato si spegne. Anch'io posso sparire, dileguarmi nelle strade nere, come se non fossi mai esistito.
E io so che non mi chiede davvero di ricostruire la città, ma di essere un testimone della sua assenza, un sacerdote che benedice all'infinito un'estrema chiusura e rende inesauribile la funzione.
Ecco perché ho le pedine nere.

“La nostra nuova città si chiamerà Shadow City”, ha deciso.

Certo, Shadow City, la città ombra: ho tanti pedoni neri, amorfi, quanti sono gli edifici bianchi che lei con precisione decora. Per ogni suo posizionamento bianco, deve essercene uno mio nero. Per ogni elemento, proprio come in una città reale, deve esistere un'ombra, un alter ego, una controparte immateriale.

Ora che la materia bianca si è sgretolata ed è diventata spirito, vuole che il nero sia la nuova pietra. Nera dev'essere la città, neri devono essere i muri, i marciapiedi, le case, i belvedere. E devono sorgere proprio laddove una volta si allungavano le ombre degli edifici della città bianca, come un monito perpetuo al ricordo. Shadow City ha già in sé tutta una vocazione a non esistere, a sbiadirsi, a vivere della luce riflessa di ciò che è stato e non sarà mai più.
Questa è l'unica condizione che mi ha posto.
Prima di ricostruire, però, vuole essere certa di aver ricordato tutto, ma proprio tutto di White City, cosicché io possa studiare l'esatto profilo delle ombre e non commettere errori.

“Come stai?”, le chiedo, sfiorandole la mano.
“Aah...”, mi risponde.
Non sta in nessun modo, non vuole sapere come sta, è solo un contenitore senza fondo di luoghi passati.
Mi ricordo di un ritratto che le aveva fatto un artista sul belvedere, quando aveva quindici anni: l'aveva disegnata col viso avvolto da un velo trasparente. Lei gli aveva chiesto stupita il perché e il ragazzo, un ragazzo che allora ci sembrava grandissimo e che non posso fare a meno di ricordare con indosso una giacca di velluto marrone e una testa di riccioli castani, aveva risposto: “Perché per adesso non sei ancora nata. Quando sarai cresciuta, il tuo viso sarà definito, senza velo. Ora puoi essere qualsiasi cosa.” Lei se n'era andata non molto contenta di essere stata avvolta in quei confini nebulosi ed io, mi ricordo, invece, l'avevo invidiata tantissimo: quel ritratto mi pareva l'assegnazione di una libertà sconfinata di essere e di esistere. Era qualcosa di simile al mio concetto di bellezza, che tuttavia non avevo ancora formulato in modo razionale dentro di me. Eppure ne ero già fatalmente affascinato, proprio come ero affascinato dalla coltre di luce che all'alba faceva sparire White City e dai riflessi cangianti che il bianco catturava. Bianco era il velo, bianca la mia città, bianco, etereo il volto di lei. Bianco era tutto ciò che amavo.

Osservandola mi sembra che abbia indossato di nuovo quel velo. Che lo indosserà per sempre. Che qualcosa di splendidamente regressivo e primordiale l'abbia rapita e che esista come un essere di un'altra qualità, straordinariamente non individuale. So che lei non ci sarà mai più, perché ormai è ovunque, proprio come ci immaginiamo che sia la morte, un essere sempre, ovunque. Ma per qualche strano motivo questo sentore mi rende quieto e sicuro.
“Oggi non tocca a me il nero”, le dico, conoscendo già la risposta.
“Le tengo, io”, mi dice, “perché nulla deve essere ricostruito sulle fondamenta.”.
Sa che, se avessi in mano i pezzi fantasma, non saprei trattenermi dal far riemergere rassicurante la materia lì dove ora c'è il vuoto.
Posiziona per prima la sua casa, al centro.
Prende un pennarello azzurro, mi guarda.
“Dai!”
E giù il primo pedone nero.
Il pennarello azzurro indugia sui particolari che non si riescono a intagliare sulla plastica.
“Queste erano le persiane... te le ricordi? Mio padre le verniciava una volta l'anno, con quell'intonaco azzurro... quando, svegliandomi, sentivo l'odore della vernice, sapevo che era ritornata l'estate... che per un po' non sarebbe piovuto.”
Me le ricordo... mi ricordo che le hai lasciate chiuse per tanto tempo, dopo che tuo padre se n'è andato, e che ti sei scordata di verniciarle per tante e tante estati. Ma oggi non ha importanza: tu vuoi ricordare ogni cosa che c'è stata e il prima e il poi sono dettagli in mezzo alle crepe.

“Questo era lo steccato... qui c'era quella siepe di more... non le lavavamo mai, anche se tante volte sapevano di salsedine... però erano buone lo stesso...”
Erano buone, buonissime, le tue more, Caterina.
Vorrei dirti di quante volte le ho rubate la notte, quando indugiavo sul molo e ti guardavo dalla finestra, con quell'assurda pretesa che hanno gli innamorati di avere l'oggetto del loro amore sottraendo loro qualche microscopico dettaglio.
Ma neanche adesso oso dirtelo. Io non ci sono mai stato, e tu vuoi ricordare solo ciò che è stato, vuoi solo le ombre delle cose, solo le lapidi.

“E Jack ci correva a salutare.”
Già, Jack, aveva due orecchie pendule, di uno strano colore, un po' aranciato. Era il cane più ridicolo che avessi mai visto. Non so che fine abbia fatto. Mi sento di mettere un'altra ombra, solo per lui, sulla scacchiera, perché di certo non si esime dai riti di saluto, ogniqualvolta ci streghiamo mentre accarezziamo i pezzi del suo steccato azzurro.
Prende la torre e la mette laggiù, all'angolo est della città, a picco sull'oceano.

“Qui c'era il cimitero, il cimitero bianco.”
So dove vuole che metta l'ombra: accanto a una lapide bianca e solitaria sulla spiaggia, investita dalle onde e rivolto verso est. Questo vuoto c'è sempre stato, perciò lo ricordi, con una strana consistenza, velata di rabbia. Dici che ti sei specchiata sempre in quella foto, che era la più bella foto che avessi di lei, quella che ti rassomigliava di più. Ma io credo che quella foto ti piacesse perché, a dispetto della sua perpetua assenza, c'era sempre, eterna, rassicurante, volta verso l'alba, resa viva dal ritmo dell'onda, che la sfiorava col suo andirivieni, come un respiro.
Ed è così che vuoi che ti costruisca la tua nuova città: nera, eterna, rassicurante, volta verso l'alba.
Caterina mi guarda e sorride con gratitudine: sa che lo so.
Quanto è appassita la sua bellezza! Forse per non fare torto a chi è sparito nelle crepe della terra? Da tempo non si trucca più, da innumerevoli mercoledì porta i capelli raccolti in una coda d'ordinanza.

Posiziona un edificio, lassù sulla collina e, con un pennarello verde, scrive: “Elementary School”.
“Era faticosa la salita...”
Sì, era faticosa almeno quanto era liberatoria la discesa. Correvi giù per la strada non asfaltata, sempre un po' sghemba nascosta dietro la tua grossa cartella. Io raccoglievo, paziente, i pezzi, perché tu, nella foga della campanella ti dimenticavi almeno una volta su due di chiudere lo zaino. La maestra Margaret, dietro i suoi occhiali bordati di grigio, lo diceva sempre che avresti perso anche la testa, una volta o l'altra.
Posiziono, sicuro, una torre nera.
“Hai fame?”, mi sussurra.
Annuisco. So dove vuole andare: nella pasticceria a Corner Street, nascosta sotto le fronde di un salice: fanno sempre dei dolci buonissimi. Muove le dita sulla scacchiera sino a raggiungerla. Prenderemo come sempre tre muffin all'albicocca appena sfornati: ne prende tre per fingere di averne solo uno e mezzo, ma senza accorgersene ne mangia sempre almeno due e forse qualcosa di più.
Una regina nera qui ci sta a pennello.

“Oggi dice che ricorda ogni cosa.”, afferma, mentre posiziona un grosso edificio rettangolare, all'apice ovest della collina.
I suoi ricordi sono i racconti polverosi più belli delle nostre sere d'estate: lui, il pezzo secolare della nostra scacchiera, non aveva un nome. C'era sempre stato, arrivava con un carretto un po' arrugginito, pieno di libri e si metteva a raccontare: noi lo chiamavamo il cantastorie, anche se qualcuno diceva che si facesse chiamare Homer... come Omero.
Tutti lo festeggiavano quando, in primavera, tornava da altri lidi.
Negli ultimi tempi lo andavamo a trovare lassù, nel grosso edificio bianco, con la sua borsa di libri, che aveva lasciato in pegno alla vecchia biblioteca comunale.
Ricordava ormai poco e le trame delle sue storie, che conoscevamo a memoria da innumerevoli anni, intrecciandosi nelle sue falle di coscienza, erano diventate storie nuove, nebulose, surreali. Ce le raccontava con lo sguardo vuoto, sprofondato nel suo letto diafano dell'ospedale. Ma ce le raccontava, sempre e comunque perché, come diceva lui, non si può vivere senza avere una storia.
Posiziono un cavallo nero.
Prende i pezzi della strada, sul plastico, e li fa scorrere sulla scacchiera. Quei pezzi si snodano tra tutte le case bianche che non conosciamo e che la plastica, liscia come non mai, lascia bianche.

“Ti ricordi Lisa?”
Sì, me la ricordo Lisa. Era la ragazza del lungomare: col suo Ipod cantava canzoni per addormentare il suo feto, mentre lei, in netto contrasto, correva lentamente: ci teneva a mantenersi in forma.
Le avevamo chiesto se non dormisse già sempre, un feto nella pancia. Lei ci aveva risposto che voleva che imparasse da subito a distinguere il giorno dalla notte, il bianco dal nero.
Non so se posso mettere un'ombra nera anche per lui. Ma, poi, pensando a quanto s'è allenato, per ben otto mesi, a distinguere il nero dal bianco, mi convinco di sì e neanche Caterina sembra avere nulla da ridire in proposito.

Guardiamo la nostra città, bianca e nera, le cose che ci saranno, quelle che non ci saranno mai più, quelle che non hanno fatto in tempo ad esserci. Speculari s'intrecciano, come le illusioni di una Gestalt, come luci ed ombre. Ma entrambe, con una certa caparbia speranza, identica a quella che ravvedo negli occhi di Caterina, ci sono e svettano in un essere vacuo e malfermo, in attesa di plasmarsi, nella presenza o nell'assenza, al cospetto della nostra finestra sopraelevata e appannata, che proviamo a spannare.
Metto un'ombra anche per quella finestra, che tante volte, nei pomeriggi di pioggia, era stata la nostra scacchiera e su cui avevamo disegnato, con le dita ondeggianti sulla pioggia, la nostra città. Già, oggi, per la prima volta da allora, un tuono annuncia la pioggia.
Mi porge la mano. Vuole il re e la regina.
Laggiù, sull'angolo ovest, vicino alla scogliera, c'è uno spazio libero, dacché me lo posso ricordare.
Li mette lì, rigidi e fieri, uno accanto all'altro, lo sguardo verso ovest, verso il tramonto.

“So che faranno un ottimo lavoro.”, dice.
E scribacchia su uno dei fogli, gettati alla rinfusa sul pavimento:
“Dissero che i tempi erano terminati. Io, da quest'apice sommerso, dico: nontiscordardime.”

Bianco come il catrame (dal contest letterario Blusubianco)

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora: infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsanuova sul ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla stanza. Va a sedersi davanti allo specchio.E’ bella, oggi; sembra quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può girarsi, raggiungere il letto.Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida.Va all’armadio e cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono anche se è lì, sul comodino.
Non c'è una stampella libera, nota con disappunto.
Ogni cosa giace simmetrica, sino ad occupare, nel modo più funzionale possibile, ogni legittimo spazio del grande armadio bianco. Anche lo spazio immaginario è soffocato da cassettiere aggiuntive e, nelle stesse, spazi divisori si sono presi un'ulteriore rivincita contro il caos.
Chiude la finestra, per riparare la stanza dalla brezza e dal brontolio arrugginito del vaporetto, in partenza, dal porto fluviale. L'osserva andar via da quello spazio insonorizzato, come un quadro che si liquefa, distrattamente, su una tela. Il paesaggio fuori è ora ricomposto, la schiuma della barcarola rinchiusa in onde parallele, un raggio di sole, il primo dell'alba, filtra tra le foglie di una betulla. Respira.
Guarda le pareti bianche, l'orchidea bianca nel suo vaso sulla specchiera di betulla, abbassa le tende ricamate, si stende sul letto dal copriletto bianco. In quello spazio immacolato rimane assorta, rivede la sua immagine nello specchio. Certo, è bella, è bella anche oggi, come se il trucco di ieri non si fosse disfatto. E in effetti nessun evento, nessuno sconvolgimento è intervenuto a interrompere la compattezza della sua nuova cipria sulla pelle pallida e lucente. Nessun vento ha scompigliato la treccia di capelli biondi e sottili. Nessun incanto, nessun sussurro le si è insinuato nelle piccole orecchie rotonde. Si accarezza il collo, ricerca la sua voglia a forma di fragola. Dovrebbe farsela togliere, pensa.
Parrebbe soddisfatta, ma si volta verso la cassettiera e ancora la ritrova lì, la camicia bianca: che stupida, ripete ancora a se stessa, per averla dimenticata un'altra volta. Allunga il braccio e ancora accarezza il colletto. Sembrerebbe volerlo lisciare, com'è suo solito, quando deve indossare un abito con così tante, insidiose pieghe. Lei stessa finge che questo sia il suo scopo. Eppure le sue mani indugiano sulla stoffa, s'incrinano nelle asole, stringono il pugno impercettibilmente sul bavero, roteano sulle rotondità dei bottoni.
La camicia si stropiccia, a poco a poco, sotto il tocco di quella mano che agisce come un organo a sé, automatizzato, staccato dal resto del corpo. Nel suo pugno i lembi si sfiorano, sino a formare un ventaglio. Nell'atmosfera colonizzata dalle fragranze di un detersivo alla lavanda, s'asperge dell'odore di quella camicia. Lo sente, ma sempre con quella mano, che pare essersi dotata di tutto un suo apparato percettivo.
Il resto di lei è riflesso come un tubo rigido, un'ombra immobile sul soffitto bianco. Lo respira, quell'odore, sa di vento, di quelli che arrivano da nord e spirano vociferazioni fredde in una giornata temperata. La mano s'infila nella manica, l'accarezza dall'interno. La mano si sente, come un'essenza pesante, lambire un altro luogo, un'altra vita. Si sente, nascosta entro quella manica, come il vento stesso, che di nascosto plasma le forme, le gonfia, le scaglia e le rilascia lontano. La mano si sente, come corpo sottile. La camicia si solleva, fa un vortice nell'aria, si riabbassa, serpeggia sul copriletto, La camicia può ricordare, ora, i movimenti che ha compiuto e quelli che ha solo immaginato. La camicia può pensarsi, investita dai flutti sollevati dal vaporetto. Sa di acque fluviali e di un percorso verso un delta caotico che si affaccia su due mari. Forse qualcuno la abbraccia, un'altra camicia. Un altro vento. La camicia sa che c'è stato un prima. Perciò è di un altro bianco, rispetto ad ogni bianco della stanza. Ma lei non lo sa, lei non la osserva. Che stupida, si ripete. Quella camicia non deve star lì. Si alza di scatto, con un filo d'irritazione che le schiude la bocca e le schiaccia le narici. Ritorna al cospetto dell'armadio. I ripiani sono pieni. Pieni zeppi di cose nuove, intonse, impilate. Scruta dal basso il profilo rettangolare della sua borsa nuova. E' bella, è di pelle e della pelle nuova emana l'odore. Dentro, palline di carta velina ne foggiano il profilo con fierezza.
Eppure basterebbe girarsi, per vedere. Per vedere che quella camicia da tempo non è stata lavata, perciò è una macchia bianca su un copriletto più bianco. Una macchia che giace senza posto sull'altra piazza del letto, come un monito, come un compagno. Basterebbe girarsi, per sentire, per sentirsi. Per sentirsi muta nello spazio insonorizzato e inerte, sopraelevata in quella guglia affacciata su uno scorcio di ciminiere. Su quelle ciminiere sono tornati, ancora una volta, i gabbiani: disegnano cerchi concentrici che si restringono, ad ogni disperato giro su se stessi, verso il loro centro e urlano la loro caduta, sul fiume nero di catrame.
Ma qui tutto è bianco. Le finestre sono bianche, le tende sono bianche e i loro intagli schermano parte della visuale e si lasciano trasportare sui rami frondosi di quell'unica betulla, che svetta tra i fumi e forse inspirando il suo desiderio dell'altra lontana riva, con una forza rituale li assorbe e li cancella.
Guardala quella camicia.
Quella camicia è il caos. Quella camicia cambia tutto. L'ultima volta, le viene in mente. Si ripete questa locuzione. L'ultima volta. L'ultima volta è già avvenuta o ancora deve avvenire?
Guardala quella camicia.
L'ultima volta che ha guardato qualcosa sapendo di lasciarla andar via per sempre... quella volta non c'è stata. Non sa immaginare come possa essere, lambire i contorni delle cose, delinearne la forma, per poi ricordarla nell'assenza, cingerli con le braccia, soffiarli indistintamente con le labbra, chiuderli dentro gli occhi.
Osserva il pallore della sua stanza, le cose ferme, immobili, la sua immagine, identica nello specchio. Deve sforzarsi di non guardare il telefono di ultima generazione, che un caricabatterie mantiene in vita come un respiratore artificiale. Deve sforzarsi di non guardarlo per non sapere che nessuno ha chiamato. Si avvicina alla porta. Quella camera potrebbe essere tante cose. Immagina di consegnare le chiavi alla vecchia locandiera. Che sia l'ultima volta. Immagina il nuovo abitante di quella guglia.
Potrebbe essere uno scrittore, giunto da lontano, in cerca di quell'ispirazione per cui luoghi degradati come quello, alla fine del mondo, strano centro di contaminazione industriale, nel candore primordiale dei fiordi, trovano inaspettata la loro poesia.
Quello scrittore rimarrebbe di certo sorpreso del bianco soffocante di quelle pareti. Di certo non gli sfuggirebbe lo spessore inaudito della pittura, l'odore sempre intenso d'intonaco. Non potrebbe non notare come plurimi strati di quel colore abbiano formato dei grumi minuti che arricciano come onde quella superficie non più liscia.
Quello scrittore ha appoggiato la giacca sulla sedia. Apre la finestra e osserva il fiume nero, placido, Vede che il catrame della sciagura ha lo stesso spessore della vernice. Qualcosa è in perpetua attesa di snodarsi, di sverniciarsi. Qualcosa, come una melodia cantilenante balena sul fiume: sembrerebbero gabbiani, ma le loro ombre non hanno riflesso nelle acque scure. Nessun tempo può davvero passare, nessun ritorno può essere celebrato.
Lo scrittore guarda attentamente anche quella nuova prospettiva della stanza: c'è una camicia, sul letto. Come una macchia, provocante, se ne sta stropicciata con una certa, inconsapevole foga, di un bianco diverso, informe, caotico, vissuto. Chi gliela ha lasciata, gli ha fatto un grande favore: quella camicia cambia tutto. E' una camicia di bambino? O forse non è la camicia di qualcuno: se ne accorge dalla trama dell'ordito, non davvero perfetta e dalla lunghezza impari delle maniche, dalle asole, che non sono allineate sulla loro linea verticale. Quella camicia era un progetto. Forse era il primo lavoro, non ben riuscito, di cucito. Forse aveva voluto cominciare con una taglia più piccola, per limitare i danni sulla stoffa. La solleva, la allarga: i due lati non combaciano. Quasi che, chi l'ha cucita, abbia progressivamente ristretto il progetto: le cuciture sono nervose, arrabbiate, storte. Ogni passo d'ago s'incurva come a chiudere gli orli. Nella foga s'è dimenticata di lasciar aperta la manica. Vi mette dentro la mano e la agita, come un moncone. Qualcosa, qualcuno è morto dentro quella camicia. O forse dentro la camicia qualcosa si era ostinato a vivere caparbio e ora rimaneva lì, per il viaggiatore, angosciante, selvaggio, impregnato di sapori densi. Come un caos primitivo, enucleato dal cosmo, come una nascita universale inversa, un elemento svincolato in viaggio solitario verso l'entropia.
Forse qualcuno era stato ucciso con quella camicia e ora rimaneva lì, brandello mutilato di un delitto, colpo postumo inferto sulla vittima, Sì, forse quella era stata una comune camicia, forse qualcuno l'aveva disfatta, a colpi retrogradi d'uncinetto e l'aveva chiusa, deformata nel suo profilo. Forse qualcuno era stato ucciso, per non essere una comune camicia bianca nell'universo bianco e un eros indomito se ne impossessava segretamente, lasciandolo inerme sull'altra piazza del letto.
La stanza ora è caotica: oggetti nuovi sono sparsi sul pavimento, alla rinfusa. Le ante dell'armadio sono aperte. Lei si è sciolta la treccia. Come uno spettro la camicia giace sulla testa della lampada, sul comodino.
Apre la finestra. Ora, i piedi liberi e nudi sullo stuolo di quelle cose non nate, riesce a sentirsi. Si affaccia e prende tra l'indice e il medio una foglia di betulla. Come un'inattesa illusione, le ombre dei gabbiani ritornano sul fiume. Vorticano in cerchi concentrici, alla ricerca dell'ennesimo ritorno. Non potevano andarsene, prima di essersi ritrovati, ombre nella loro meta. L'oscurità fluisce lentamente dal fiume, come un'evaporazione densa. Sente caldo... il catrame si scioglie, ritorna nella stanza... l'intonaco sgorga via dalla parete e le onde ritornano al fiume.
Apre gli occhi. Ora può girarsi, raggiungere il letto. Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida. Che stupida a pensare di chiuderla nell'armadio.

A-mors (dal contest letterario "Blusubianco")

“Assaggia.”
Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia, così le tiene incrociate sul tavolo.
Lei gli passa il cucchiaino: sta aspettando. Ci sono tante cose da dire, adesso.
Prima di entrare in casa gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo padre avrebbe fatto lo stesso.
Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il dolce che si scioglie sulla lingua
e gli sveglia una parte del cervello che credeva addormentata.
“Lo so perché sei venuto” dice lei nello stesso momento in cui lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: “Cos’è?”
Lei lo guarda, sorride, gli prende la mano, guida ancora il cucchiaino verso le sue labbra, seduttiva ma con un certo palpabile distacco.
“Secondo te?”, gli ammicca.
Lui sorride vacuo e guarda la torta.
In ogni voluttuoso giro di panna sulla superficie, gli sembra di intravedere una supplica velata, amorfa... ma subito si plasma, quella supplica, in ogni intaglio del marzapane, in ogni sua rotondità foggiata a guisa d'un fiore pregiato, come a schiudere una simbologia di nascita contro l'assenza che lei presagisce imminente. Come un segno persistente, estetico o, forse, in fin dei conti, solo l'ennesima prigione.
Esplora ancora la torta con il cucchiaino ed è quasi un arco riflesso il protenderlo verso di lei, che però serra le labbra, prima severa, poi scoppiando in una risata forzata. Non vuole condividere la sua ultima prelibata creazione dolciaria, gli dice, quella torta è solo per lui, strato dopo strato, sino alla farcitura... dice, questa torta è una storia, un incedere di passi, fino al nucleo... è una caccia al tesoro, ogni strato è un messaggio criptato nel decoro, nell'impasto, nella base...
La osserva: è come è sempre stata, avvolta da una nube di vaghezza, due occhi leggermente strabici, non bella, eppure di un'alterità che le disegna sul volto quella nobiltà che non possiede di casta; possente, estrosa, eppure magistralmente fredda e quasi efferata, nel suo darsi e nel suo assentarsi, proprio come capita con il suo sguardo,
Primo strato: panna e chantilly sono il terreno di una coltre di nontiscordardime di marzapane. Blu su bianco, sempre fiori tra la nebbia. Affondano come note su un pentagramma, scolpiscono qualcosa. Nascono in primavera, a ciuffi e li osserva anche lì, in centrotavola, raccolti in un mazzetto ordinato, dentro quel vaso in ceramica bianco che avevano comprato al mercato delle pulci.
Nontiscordardime, violenti, intimidatori su uno strato di nebbia. Primo monito contro l'abbandono: lo sente e ne assaggia uno, perché almeno un avvertimento, delicato, sofferente scompaia dalla miriade di avvertimenti colpevolizzanti. Ne mangia un altro e un altro ancora, con aria di sfida.
Lei tace, accarezza i fiori veri, li odora, soffia contro i petali come vento lieve, loro tentennano e sembrano riplasmarsi, come d'incanto, anche sulla distesa di panna punteggiata di lacune simili a lapidi senza nome.
Rimane la nebbia, con le sue vertigini... glielo diceva sempre, lei, che ogni alba paga il suo fio alle dissolvenze della notte... e anche la sua alba, che immagina lontana da lei, ponderata, poi negata, ritrovata, per un attimo si tinge di nero.
Ma lui va oltre, deciso, verso il mezzogiorno, quando le dissolvenze diventano una stria nera sull'orizzonte, che tutti sanno essere solo il limite intrinseco della vista, non qualcosa di reale.
Lui può lasciarla, si convince.
Secondo strato: scaglie di cioccolato su una crema all'arancio. Sono punti scuri, su uno sfondo mellifluo, cardini in mezzo al nulla, il sapore definito che squarcia il languore dell'arancia sulle papille.
Lei è sempre lì, ha incrociato le palme delle mani sotto il mento e attende. I suoi occhi strabici non lo guardano mai direttamente, le mete del suo sguardo sono sempre in un altrove. Perciò si fanno seguire per i loro angoli astrusi: disegnano un aldilà imprendibile, vincolano con una divina fascinazione. Ogni cosa dritta e lineare sbiadisce, come crema all'arancio, un magma pallido e aspro, che cerca confini nelle ombre irregolari riflesse dal suo iride, simili a quelle scaglie al cioccolato, che le sue mani hanno tagliato con tanta maestria.
“Non mangi?”
Lui impugna il cucchiaino, affonda le scaglie nella crema fino a farle sparire e la rende uniforme. Vuole vincerla lui, questa partita.
Ma l'albero d'arancio l'osserva, rigoglioso nel suo vaso, fuori dalla finestra, sul terrazzo. Le foglie sono verdi e lucenti, i rami di un bruno intenso. Ogni cosa è. Ogni cosa parte da lì, da lei, torna nella torta, per lui. Ogni cosa rimane, al di là di lui, come un calco sempiterno, una forma originaria. Ogni cosa entra in lui, diviene lui, diviene il suo sapore, il suo anelito. Anche l'indefinito della crema arancio, fluttuante lì come uno spirito ammaliante dal suo futuro, appartiene a lei.
Mangia ancora, lecca il cucchiaino, trova le scaglie al cioccolato, i loro spigoli amari e fondenti.
“Fai ogni cosa come tuo padre.”, gli sussurra, accarezzandogli le orecchie col dorso delle mani.
Glielo dice sempre, ma la sua voce rimane sospesa in un Limbo, le parole scandite senza alcuna vibrazione e lui non sa se ritenerle un rimprovero sprezzante o il luogo dove l'eterno, intrappolato nelle rotazioni del DNA, si può placidamente ripetere, come un rito sbiadito presso un altare.
Non se lo ricorda suo padre. Per forza: se n'è andato, ha abbandonato sua madre, che pure sempre lo rivede nei suoi gesti. Così non sa se potrà o non potrà fare lo stesso.
Terzo strato: una crema densa, bianca, come midollo.
E' la chiave.
Il bianco ha il coraggio di non essere, raccoglie ogni frequenza della luce, la prende e l'annulla in sé. E' tra tutti il colore più potente. Nel bianco ogni cosa si apre e si chiude e, silente, si dilegua.
In quella crema bianca affonda ancora il cucchiaino. La assaggia, ha un sapore agro. Sembra risvegliare in lui quella parte del cervello che si era addormentata.
Lei è immobile, vestita di bianco, come una vestale ad una cerimonia di iniziazione. Lei, l'arancio, i fiori, la stanza sono immagini che, sfumando, si affrontano come carte sbiadite, cadono, si uniscono, formano una strada. Lei non può essere lasciata, perché è in ogni cosa, anche nella strada medesima che, traslucida, gli obnubila i sensi, gli toglie il respiro, irrigidisce i tratti, gela le labbra, accelera a girovaghe intermittenze il suo battito cardiaco e poi lo placa. Come una sposa lo conduce sui campi desolati di nontiscordardime, cammina sulla nebbia, accosta gli opposti e li nullifica. Lo conduce al suo dolce ritorno.
Non può lasciarla.
Perché? Cos'è?
Lei è il nucleo.
Lei è la farcitura.
Ora lo sa: lei è il veleno.

Amo lei perché amo te.


Cammino dietro di te.
Talvolta capita che ci salutiamo, di sfuggita. Vedo che non ci fai caso.
Conosco i tuoi luoghi più prosastici, così come i tuoi apici.
So che scarpe indossi al mattino, conosco il tuo volto struccato e quello che vesti per incontrare lui.
So che raramente ti ricordi l'ombrello quando piove e che più spesso te ne ricordi quando il cielo è solo grigio e nulla, ma proprio nulla lascia presagire che pioverà. Che ti piacciono i mandarini senza semi, i pesci non surgelati, le barrette ipocaloriche al cioccolato.
E che correggi i compiti di italiano dei tuoi allievi su una panchina di un parco abbarbicato sulle alture, che nessuno, credo, a parte tu ed io conosciamo in questa città... capisco che lo scegli perché tutto vorresti, tranne che correggere i compiti di italiano e fare l'insegnante. Non si sceglie un parco così, squallido, acquitrinoso di foglie che nessuno passa mai a raccogliere, fangoso di neve che, posandosi, si scioglie, circondato da palazzi grigi di fuliggine, su questo monte che hanno bruciato gli incendi; non si sceglie se non per chiuderci una malinconia che non vuoi confessare.
Ti ravvii i capelli con la penna blu, quella che non usi mai. Non ritieni che possa esistere errore così grave. Non ritieni di essere la persona più idonea a mutare le parole in numeri, ogni parola è già una negazione del numero, della certezza... ogni parola, a suo modo, è esattamente l'opposto di ciò che vorrebbe essere: è silenzio, un insolente provocatorio silenzio.
Insegni a usare la parola, ma dentro di te sai che la parola è un modo per stare da soli, per riempire i vuoti di fronte a cui inorridiremmo... sai che la parola, che tutti ricercano febbrilmente, è il luogo primordiale della paura, della lontananza... la parola, e il suo abisso semantico, un regno così ambiguo, così confuso, così incerto.
A te non piace parlare e di parole ne usi pochissime.
In questo ti rendi così perfetta, sui picchi e negli abissi. Ho capito che questo è il fulcro della tua bellezza.
So che non cerchi la felicità fuori da te stessa, che non alzi mai gli occhi verso il cielo e che non ti ricordi dei sogni che t'incontrano di notte.
Lo so perché non ascolti la musica e acceleri sempre con un tempismo perfetto ad ogni verde di semaforo.
Lo so perché so che lui ti ama.
Non so niente di lui, niente di così profondo che non possa vedere attraverso di te.
So che ti ama per come corri verso di lui, per come gli accarezzi i capelli, per come nella tua mente lui non sia affatto diverso da ciò che è realmente. Perché sei salda, libera, sana. Perché non fuggi via con la mente, perché lo tieni dentro di te con calma, chiarezza, sicurezza. Perché entro i tuoi confini si ritroverà sempre come si era lasciato.
So che ti ama perché non è un oggetto del tuo narcisismo, che non lo usi come uno specchio nel quale rifletti la tua bellezza e nascondi la tua insicurezza.
Camminiamo in fila, sotto questa pioggia fitta di oggi, per queste strade di periferia, quelle che non avrei mai calpestato senza di te.
Respiro la tua nuvola fredda, che lasci noncurante dietro, io invece ne accarezzo la precarietà, quella di cui non ti occupi tu... vorrei stigmatizzarla, come la mia solita poesia, vorrei averti in fermo immagine, almeno per un momento, per carpirti nella tua interezza... no ti occupi mai della tua eternità... forse perché hai una memoria prodigiosa, che vive dentro di te, che trasformi in presente, attimo dopo attimo.
Anche per questo lui ti ama: stende in te la sua malinconia, i suoi anni che passano, i suoi capelli che diventeranno bianchi.
Tu non incidi il tuo nome sui muri.
Ne ho la certezza.
Io lo faccio sempre, con i frammenti di calce, con la ghiaia, con i rami stecchiti degli alberi.
Ti sembrerà buffo, ho tanti anni sullo stesso muro, tanti ricordi vuoti che agonizzano dentro ad un numero: 2006, 2007, 2008...
Ogni muro è l'occhio appannato che ti ha seguito, al pari di ogni altra vita che non ho realizzato.
Ogni muro è il mio tempo eterno e non scandito.
Eppure ci ho anche scritto la data.
Non ti fa paura questa casa addossata a una stazione fantasma, dove non si ferma nessun treno. Non hai paura dei lampioni arancioni, della luce così intensamente artificiale e traballante, dei piccioni che non lasciano tracce cromatiche nel cielo né urla romantiche nella memoria. Non hai paura di essere quello che sei e io amo il tuo vuoto come una fortezza nascosta in seno ai vortici dei miei perché.
Non hai orrore dei platani spogli, delle pozzanghere sporche, delle urla del pescivendolo, dell'odore di rancido di quel fumo di fabbrica laggiù. Questa è la tua poesia, quella che ti porterà via, lontana.
Non hai paura del mondo di Zola, non hai disprezzo per il Realismo.
La tua sagoma scarna compare dietro una tenda colorata. Ti spogli senza paura dello specchio.
Osservo le tue forme e le so strette a lui, protese nel loro amore carnale, che non pensa né a ieri né a domani.
Non sai nulla del baratro del tempo, non sai che il futuro e il passato possono essere percorsi avanti e indietro, perché sono comunque ciò che abbiamo perduto. Non sai che lo perderai dopo averlo avuto dentro di te, e non lo fai sapere a lui, che è già alla tua porta.
Lo vedi, il tuo futuro è già il mio passato, e il mio futuro e il tuo, terribilmente asincroni, si allontanano.
Non hai paura né imbarazzo nell'aprirgli svestita.
Io sì, io ho paura, ora che il mio pudore mi riporta nella notte, nell'odore di rancido, nelle pozzanghere sporche. Ora che vi lascio soli.

Cerco la luna, per ritrovare il mio punto cardinale.
Già il mio punto cardinale, tu, che stai con lei che io ho seguito, o la luna, similmente sopraelevati, lucenti, intoccabili.
So che non lo vedrai quando scenderai: sì, non vedrai il mio nome, inciso sul muro con l'ultima moneta da 500 lire che mi hanno rifilato al posto di euro due.
Ridi, ridi con lei.
Ti ho lasciato una margherita sul parabrezza.
Mi piacerebbe rimanere a vedere se, in fondo, ti lasci incantare anche dalla mia Luna, lontana, siderale, vestita di plurimi strati. Non lo sai ma tu, dalla mia prospettiva lontana e lunare, bianca, crostosa, piena di crateri, hai la meraviglia cromatica della terra, il blu oceanico, il giallo desertico, il verde fertile... tu, dalla mia prospettiva, inconsapevolmente eserciti la tua gravità su di me che, velata, onnipresente, ti osservo di notte, multiforme, malferma, bisognosa della tua distanza, per non perdere l'equilibrio.
Resto avvolta nella mia prospettiva e ti osservo. Questa è l'ora in cui lei scompare, avvolta nella notte. E' l'ora in cui la stacco da me per stare da sola con te: è per questo che ogni tanto la Luna perde qualche spicchio.
Ti sembrerà contorto: seguo lei, amo lei, perché non so amare te.
Ti sembrerà contorto: amo lei, perché amo te.

Uomo


Cammina su di una strada
di sale
e pur nel deserto
crede sia neve.
Echeggia in un antro
di sassi
e pur nell'assenza
pensa sia un altro uomo.

Si spia tra i roveti
fluisce nel fiume
tramonta in un universo
rancido.

Nasce sulle dune
le disegna con la mano
e pur mobili
sente di ritrovarle
per l'eterno contorno
curvilineo e freddo dell'alba.

Teme negli astri
erode col vento
cade con la pioggia
per poter evaporare.

Nella pelle si consuma
di solchi
e un bambino li segue
col polpastrello.
L'ha levigati il deserto
quando con l'eco
molto gli ha parlato.

Si spegne nella sabbia
ora sa che non poteva
ritrovarsi
ma in quel luogo eterno
del vento
s'innalza
come strada sospesa
nell'etere
e ancora dalla terra
tra rami di pesco
e l'ennesimo fiore
appeso a un verde ridente
un altro esclama:
“Le rondini sono tornate”

lunedì 10 maggio 2010

IL REBUS


Il sole. Una collina. Il grano. Giallo.
Il sole. Una duna. La sabbia. Gialla.
Il sole. L'oceano. Un'alga. Gialla.
Il sole. Un treno. Un segnale rotondo. Giallo.

GIOCATORE A. C'è una soluzione. Che tutti i componenti abbiano qualcosa in comune lo capisce: sono gialli.
Lei ha le mani minute e graziose, le unghie impreziosite da smalto trasparente.
Tra i pezzi del puzzle trova distanze abissali, più grandi del suo universo. Non ha mai visto le dune di sabbia e non ha mai visto l'oceano. I treni e le colline, quelli sì, ma pensandoli li vede grigi. Non gialli.
Le viene da ridere dell'ardua impresa.
Dovrebbe tenere tutte e quattro le immagini nella mente, poi connetterle per risolvere il rebus.

GIOCATORE B. Tratteggia forsennatamente una linea curva, senza staccare la mano dal foglio. Ha la mano paffuta e rosata.
La linea ovviamente l'ha fatta gialla.
Questa gara la vincerà lei di sicuro.
Non le importa di non aver mai visto le dune gialle e l'oceano. Non é così importante: l'oceano è solo un mare molto grosso e molto arrabbiato. Le dune sono come colline, però al posto dell'erba c'è la sabbia, come quella della spiaggia dove va d'estate. Il treno... il treno è per ora la sua spina nel fianco, non capisce il nesso, ma è sicura che risolverà il problema. Ha già mordicchiato il primo colorino e di solito le idee più brillanti le vengono quando ne ha mangiati almeno due o tre. Così le capita a scuola.

GIOCATORE A. Pensa al treno che non ha preso. O meglio, sospirando pensa che di treni ne ha persi tanti. Ma di sicuro uno lo ha perso più degli altri.
Il treno parte. Un segnale giallo gli segna la traiettoria.
Il treno è partito tanto tempo fa. Ma gli indicatori gialli sono sempre lì, coesistenti a ogni viaggiatore. Forse, se si mette sulla loro strada, percorrerà la strada del treno perduto. E la voragine di tempo tra sé e il treno? Forse il suo cammino forsennato incurverà lo spazio e creerà una scorciatoia tra gli antipodi della terra, tra la partenza e l'arrivo, tra le colline e il deserto.

GIOCATORE B. Ha mordicchiato la seconda penna.
Il treno non parte. Non può partire. Perché la luce gialla continua a lampeggiare e il capotreno non capisce se deve accelerare o se deve star fermo. E' come quando deve attraversare al semaforo, la mattina, davanti a casa per andare a scuola e da verde diventa giallo. Se va, rischia di trovarsi faccia a faccia col rosso da un momento all'altro e l'esito potrebbe essere catastrofico. Se non va potrebbe perdere l'attimo e dover aspettare ancora un altro noiosissimo, lunghissimo ciclo del semaforo. Questo dubbio dura una vita. Intanto, nell'ipotetica stazione gli altri treni sfrecciano. Certo, non hanno questi segnali pieni di confusione. Lei non sa se salire o no sul treno. Un treno indeciso non è molto affidabile.

GIOCATORE A Per riprendere il suo treno deve stare sul treno o deve stare fuori dal treno?
Se sta sul treno originario, questo deve ancora partire. Seguirà, certo, la linea gialla che va dalle colline gialle alle dune gialle. Sarà lo stesso treno per quanto riguarda la rotta, lo stesso spazio, ma il tempo sarà perso per sempre.
Se sta fuori dal treno e immagina la destinazione, forse la sua immaginazione raggiungerà il treno, ma perderà lo spazio per raggiungerlo.

GIOCATORE B Odia i viaggi. Li trova noiosi. Si va, ma tutto è immobile, attorno. Per questo ha deciso di non salire sul treno. Odia stare seduta sul sedile e vedere davanti a sé la stessa immagine, la stessa signora, per ore ed ore. Invece, fuori, le immagini corrono troppo veloci. Vede i campi sconfinati e non può posarci le scarpe, respirare l'acredine dell'erba bruciata d'autunno. Vede il mare, che a poco a poco, tra due fenditure affrontate di terra, s'increspa e perde l'orizzonte. Diventa rabbioso, potente, pieno di schiuma. E' tutto giallo. Completamente giallo e rabbioso. Ma non c'è tempo per capire che sulla superficie galleggiano esanimi centinaia di alghe. Il treno s'è rinfilato nella grotta scavata tra le rocce di granito.

GIOCATORE A Deve prenderlo il treno. Il tempo assoluto forse lo perderà, ma al cospetto dell'eternità, quando sarà giunta a destinazione, ci sarà il suo pensiero per la meta di allora e la sua presenza nella meta di adesso. Quelle due sequenze di tempo si guarderanno negli occhi e nascerà di certo un incontro.
In questa nostra terra al posto dello spazio vuoto c'è l'oceano. Lo spazio vuoto, solcato dalla luce, è nell'universo la misura del tempo.
L'oceano, percorso da un capo all'altro da un filare di alghe disposte a ponte, davvero gialle, è sulla terra la misura del tempo mentale.
Sul treno avrà il tempo per camminare su tutto quel ponte, su quel vuoto così profondo e pieno di vita, che le ha fatto scordare il treno, per tutti questi anni.

GIOCATORE B Senza prendere il treno ha guadagnato un bel po' di tempo. Ha capito. Non servono i treni per muoversi. Basta la mente.
Lo fanno anche alla televisione.
Ha capito anche la risoluzione del rebus.
La parola è trasformazione.
Perciò non c'è nessun viaggio. Ogni luogo è già l'altro e ogni altro è già un luogo.
La linea collega le colline al deserto. Nella linea, nascosti, vi sono il treno e l'oceano, che sono il percorso. Ma con la sua tecnica sono essenziali quanto un filo per tenere su le perle di una collana. Invisibilmente necessario.

GIOCATORE A E' arrivata! E' arrivata, finalmente. La parola è trasformazione... ma quanto tempo ha impiegato per trasformarsi!

GIOCATORE B E' arrivata! E' arrivata, di già. Sì, ha vinto anche lei: la parola è trasformazione... facilissimo, un istante.

Sì, una duna è come una collina. Ma al posto dell'erba, gialla, c'è la sabbia, gialla. Come quella della spiaggia dove è sempre andata, ogni estate. L'oceano è come il mare che lambisce quella spiaggia, solo un po' più spumoso. Il treno passa con difficoltà tra i campi, perché sono arati e non può rovinare il raccolto. Passa con difficoltà anche tra le dune, perché il vento le scuote e le rende mobili. Per fortuna esiste qualche ponte sull'oceano e così talora se la può cavare.
Viaggiando dalla campagna al deserto ha imparato che è più desolata la campagna, millenaria e identica, che non il deserto, che ritrova ogni volta in evoluzione come il cammino delle dune scosse dal vento.
Ha imparato che ogni partenza è già la meta e viceversa.

Ha le mani minute e graziose, impreziosite da un velo di smalto trasparente. Ha i capelli grigi, la pelle grinzosa, gli occhi affidati a una saggia rassegnazione. Ed è piena di nostalgia per i suoi treni perduti. Quelle mani sono un po' tremolanti e trattengono con emozione quel foglio di carta ove si uniscono con una riga tracciata senza staccare la mano dal foglio quattro immagini gialle. Una mano paffuta e rosata. Quella mano che, tanto tanto tempo prima, era stata la sua.

Great Sand Dunes, Colorado


Alba. Non c'è nessuno.
Solo sabbia mobile che disperde l'orizzonte.

Tra quelle dune di deserto
che incurvano l'orizzonte
e lo fanno giallo e inconsistente
come realtà che si sposta,
potresti adesso apparire,
come un vento erosivo
che lasci una traccia?

Potresti adesso tenermi la mano?
qui c'è una brezza che spira da ovest
e trasporta ogni stormo nero
che fugge dal freddo
e io non so ancora migrare.

Tra dune effimere
e silenti ambiguità di sabbia
là dov'era il mio picco
s'è scavato un abisso.

Tra vuoti cosmici e gialli
se mi dai un'ombra
le darò il tuo nome
e allungandola all'orizzonte
troverò una strada.

BABELE (tratto dalla raccolta A-mors, Aletti Editore, 2009)



Dio non sa di questa spianata

dove latrano i leoni marini

e di un cappello di signora

che impigliò il vento

a un ramo di mirto.



Tu dalla Luna

osservi una distesa

compatta e piatta

e io mi chiedo

di che luce brilli la notte.


Un soffio non calibrato

é il latrato ferino

che io non capisco

e ogni discontinuità di scoglio

è la caduta leggiadra

d'un cappello col fiocco.


Dio non sa

di addensamenti nebbiosi

che fanno croceo l'oceano

e antracite la sabbia

e di eco che son gabbiani

a picco verso l'abisso

ma vede una distesa

compatta e piatta

e si chiede

di che luce brilli la notte.


Una radiazione cosmica

che si porta in tasca

la voce dei pianeti,

falla ascoltare all'uomo...

all'uomo sulla Luna

che non sa che vita

abbia vissuto..

L'UOMO COL CAPPELLO ovvero LE QUATTRO MURA DI ME


Questo luogo è disperato

e si sfalda

tra nitidi urli notturni

e incubi deliranti di bellezza.


Questo luogo è tutto fuori

e tutto dentro

le quattro mura di me.


-Disperato-

altrimenti non si sgretolerebbe

la foglia e non s'odrebbe

il suo svanire posticcio

tra ebbrezze d'incanto

e mosto di vendemmia.


Silenzio ghiacciato delle fiumare

-disperate-

altrimenti non avrebbe impasse

l'inverno

e non gravità la caduta

inerme del bocciolo.


Mutacico disperato

come l'uomo col cappello

su tutte le strade del mondo

tra file di grattacieli neri

col suo linguaggio

a semi di fumo

e crepitanti palpiti

d'immenso.


-Disperato-

altrimenti avrebbe mutevolezza

l'assenza

se pur non evapori

come l'uomo col cappello

che ha voltato l'angolo

e insufflato un attimo di freddo

divenuto cielo.

Las Vegas

Qui le storie non si fermano, ma ci sfiorano, con una brezza ambigua che sa di posti lontani e di cose reali.

Sono l'ideatore di un luogo surreale, dove ho raccolto gli scenari evocativi del mondo, purificandoli della loro essenza come un quadro al restauro... li ho buttati in questo Altrove, non dissimili da quelle piante tropicali che ci crescono in casa: esse sono verdi e trasudano di vapori... eppure stanno chiuse nel loro vaso e vivono senza sapere che esistono le foreste e che in quelle foreste s'adagerebbero su rigagnoli rovinosi di fango, cullando aliti animali e schermando ad essi il sole, come un tetto ombroso pregno d'umidità che ovunque dice: vita!

Quelli che vengono hanno poco da raccontare, se non una sera di follia o un amore da consumare come un cero sopra una tomba. E non hanno fretta, per quella sera, perchè questa città è nata sulle macerie del tempo e non ne ha uno suo. Hanno fretta poi di ripartire, perchè c'è un'esalazione stregata che circonda gli hotels, insieme alla tangenziale: è quella che ha reso opalescenti i miei occhi ed eretto fantasmi d'una materialità mostruosa, quasi un'orgia di sogni da buttare.

Sono un uomo arrabbiato senza cattiveria, che ha calato un sipario sulla propria esistenza e lo ha colorato con luminarie psichedeliche, lasciandosi a fianco, dietro, davanti, solo il deserto. No, non è una metafora: a fianco, dietro, davanti a me impera il deserto del Nevada e la terra sprofonda sotto il livello del mare... davvero la Valle della Morte... abbarbicata su qualche anfratto di roccia, richiama a raccolta la mia immaginazione solo Calico, la città fantasma, che s'è scritta sul petto che i suoi treni partono per la miniera, senza che nessuno li guidi, telecomandati o forse davvero guidati solo da un'essenza spettrale che non ha trovato meta.

Non ho trovato oasi; così ho creato lei e ora sussulto ancora quando la terra di questo deserto si fa rossa, il cielo scuro, l'aria tersa e l'atmosfera sferica ed espansa: quello è il momento in cui l'universo accende la mia esistenza e la fa girare, come una luce al neon che cosparga di vortici il deserto, rendendo mobile l'immobile. Quel momento, che osservo riflesso in una grande specchiera bordata d'avorio posta di fronte alla finestra, lo attendo con trepidazione, come un evento di ricongiungimento col divino.

Non so altro, infatti, di Dio e talvolta mi sfiora il pensiero che ciò che io ho creato sia un demone che vampirizza l'esistenza, impedendo se ne compiano i cicli e che la notte renda buio il cielo, che la storia cosparga i muri di crepe, che l'amore cali un velo sopra la morte... ecco perchè attendo che Dio mi dia la notte da illuminare, come un bypass preferenziale o un fusibile necessario ma non sufficiente...

Cammino sullo Strip da quando lo chiamano così. E' un passo cadenzato, il mio, barcollante, vuoto: non si vedono stelle, da lì, perchè le luci intermittenti creano un'atmosfera artificiale a pochi metri da terra, che non filtra nulla. E così le pozzanghere non hanno mai riflesso l'oscurità, ma solo punti luminosi, né ho avuto mai abbastanza ore di sole per la mia coscienza da vedere la mia ombra.

Non esiste la mia ombra. Ho raggiunto questa certezza quando ho capito che un'ombra è come uno strascico di desideri incompiuti e forse non abbastanza nitidi da essere vividi, carnei, riflettenti a loro volta: io non ho strascico, perchè esso m'ha lasciato ed è comparso attorno, a guisa di sardoniche evocazioni scavate nell'immaginazione: la mia ombra è quel Colosseo, buttato là come in un plastico, e quella Venezia, con un solo canale e senza piena, e una Sfinge che saluta l'autostrada, lanciando enigmi che son palline rosse e verdi, su un tavolo rotondo.... sì, quella è la mia ombra e il mio Sole, che la estrae dal deserto e dai bacini salati, è il buio.

La mia ombra non m'è potuta rimanere attaccata, perchè per coltivare uno strascico bisogna sposare un amore...

Sposo gli altri nelle chiesette di legno; per praticità ho messo uno sportello drive-trough. Non potrei fare il prete, ma nessuno ci fa caso.

Non è vero che qui le coppie non fanno sul serio: la maggior parte di esse è qui per raccontare a se stessa che il loro amore empirico sarà per sempre e chi conosce l'amore intuisce che sotto questo gioco macchiato di sconsacrazione c'è una profonda tragedia.

Ecco perchè la mia ombra se n'è andata in modo così perentorio: ciò che ho creduto d'amare, me lo sono preso e l'ho animato in lei...ma lei lo ha restituito senza dolore, senza fondamenta, senza disperazione. Ciò che altrove s'è sfaldato, ciò che esiste tra luoghi cachettici e ancora leva nostalgia, qui luccica.

Di notte cala un oblio dolcissimo e suadente. Avvolge come una madre prima di nascere. Prima di nascere... così io vivo: nell'essere puro delle cose perchè llei tutte le tiene in seno, ma senza emozioni, come un progetto originario che ancora non ha vissuto... ed è strano, ma davvero fluttuo in una spiritualità assoluta, tanto angelica quanto sconcia. Sono il Bene e il Male: come faccio? Qui è vietato ricordare. Ecco come. Il ricordo è impersonale, irrisorio, mitico.

Così sono io e i pochi abitanti di questa città: un gruppo di giovani magnati e un solo barbone.

E' un uomo grigio, senza barba, ma con i baffi, che ha perso tutti gli incisivi, solo loro... indossa una giacca di lino blu anche d'inverno e beve più vodka d'un russo. Ha una moralità ligia e persecutoria: con il volto rubicondo lancia ingiurie ai passanti e getta le monete delle slot-machines dentro le pozzanghere. E' una sorta di voce della coscienza collettiva e infatti nessuno vi presta attenzione. Credo che grazie alle slot-machines conduca una vita decorosa e che ciò lo debba alla moltiplicazione prodigiosa dell'unico dollaro d'elemosina che abbia ricevuto, il mio. Mi ossequia e mi rispetta:

“Fare da barbone a casa sua”, mi ha detto una volta, “è come fare il gladiatore al Colosseo senza i leoni.”

Gli ho chiesto perchè butti le monete nelle pozzanghere. M'ha detto che se la luce le incontra si dovrebbe creare un raggio incidente in grado di tornare indietro.

“Dovremo pure restituire qualcosa al cielo!”, ha aggiunto.

Io annaspo. E ancora sono il Bene e sono il Male e in quest'antinomia mi prosciugo. Eppure l'amo e le resto fedele, ma senza nessuna specificità, perchè io non ricordo neppure lei.

Lei è come una tenebra che mi chiude gli occhi o un filare di alberi identici che circondino una distesa inerte. Non ci possiamo dare niente, se non un reciproco sguardo a picco sul nulla. E ciascuno di noi vede l'altro come un riflesso.

E forse la beatitudine che mi viene da lei è davvero il terrore. Non c'è spazio vuoto eppure tutto è pieno di vuoto.

Sono pieno di paura, ma essa non ha oggetto.

Non sogno mai: i miei sogni zampillano tra gli spruzzi della fontana di Bellagio.


Mattino

Talora il mattino è più scuro della notte... il primo mattino, albeggiante, sul deserto... solo allora le rocce allungano qualche ombra e i crocicchi della città si tingono d'antracite.

Un corteo di uomini neri, del tutto simili a me, esce dai casini.

Passano di filato agli hotel e alle chiese intonacate e al finto legno, nei vicoli che sanno di quiete e biancheria opaca che ritireranno i camion amaranto.

Io li seguo in silenzio.

Nessuno deve sapere.

Ora che tu dormi, mia ombra, loro piantano i ricordi di se stessi, per il futuro, come fiori in un giardino. O forse non sanno di non essere ancora morti.

Il campo santo brulica di lapidi vuote.

Li ricorderai, Las Vegas?

WONDERFUL LIFE



La nebbia, di questi tempi, si posa sempre sull'oceano. Di notte non la si riconosce dall'oscurità, mentre di giorno nasce, a tutti gli effetti, con quel suo spessore che il corpo trafigge ma che non trafiggono gli occhi...

Quest'oceano è triste come è triste il vento: entrambi li senti sulla pella ma non li vedi.

Non vedi neanche me... te ne stai seduto là, sullo scoglio, stordito da questo frinire di gabbiani – sono tornati- e con le mani ti sorreggi la testa, mentre la porti all'indietro.

Vieni qua tutte le mattine. Io so leggerti nel pensiero e so che vieni a cercare me.

Sbadigli. Ti sei svegliato presto. Ma sai che da qui non vedrai alba. La coltre di nebbia è il tuo cielo... alzi la mano per prenderla... tutti gli esseri umani fanno così: cercano sempre di prendere il cielo... tu apri il palmo a metà e resti così, con la testa all'insù, le labbra schiuse, con meraviglia e quel cielo antracite tra le dita... non soffiarlo, non soffiarlo via... l'hai fatto di nuovo...

Scommetto che non sai dove finisce questa spiaggia: la sua sabbia è ocre e fine e scolpisce la montagna bianchissima per trenta miglia... ti alzi... ti chiedi dove arrivi questa sabbia. Con una mano sopra la fronte cerchi oltre la nebbia e oltre questa luce, che la trama di foschia sparpaglia alla rinfusa... questa è una spiaggia di relitti... sì, guarda, ha raccolto scheletri e conchiglie vuote... questo profumo, me lo ricordo anch'io, ti inebria: è la fragranza delle alghe, che si sono raccolte concentriche... respiri il loro odore acre e dietro altra nebbia si aggiunge alla nebbia... sono i miasmi dei pini marittimi e del muschio, ch'elevano il loro respiro e lo soffiano sull'oceano... il vento porta il bosco sopra la sabbia e la scuote... scuote l'oceano... ti lasci investire, anche se sai che queste non sono onde, ma vite passate, che ti vengono incontro, sono tempo che tentenna e così va, avanti e indietro...

Qui, tra la nebbia, ci sono io.

Tergiversi... vorresti ricordarti... ti mando un bacio...

Ricevuto...? ti stai mordendo le labbra...

Rido... mi senti?

Dai un calcio alla sabbia. Prendi un bastone contorto e lo getti nell'oceano. Ritornerà. Lo sai, quello che dai all'oceano ritorna sempre, prima o poi.

Non la finisci mai di venire qui, la mattina.

Scrivi il tuo nome sulla sabbia.

Anche questo fanno gli esseri umani: testimoniano la loro presenza... sanno che la sabbia è mobile: li imprigiona senza lasciar niente... semplicemente, si aggroviglia e se ne va.

Io ho i capelli biondi e lunghi. Anche tu te li ricordi così, scossi dal vento. E le mani affilate e bianche. Me le scaldavo col respiro. Fa sempre freddo, qui, alla mattina. Io lo so, perchè la mia casa è pochi metri da qui: ha le pareti bianche e il tetto rosso. Se non fosse per la nebbia potresti vederla... ma forse se cammini ancora un po'... laggiù vedi quella luce a intermittenza: è la lighthouse, che fa ancora il suo dovere. Quand'ero piccola, di notte, non avevo mai paura del buio, perchè aspettavo che entrasse, ritmicamente, nella mia finestra... e arrivava, puntuale... andava a colpire la parete di fronte al mio letto... per questo non volevo mai che venissero chiuse le persiane: quando mi svegliavo, subito sapevo di esserci ancora, proprio dove mi ero lasciata... anche adesso ho la certezza che si resta sempre dove ci si è lasciati e infatti il faro della lanterna ti illumina... ti illumina nella nebbia... tu sei l'unico che sa dove sono... e non ci conosciamo neanche...

Io sono nel tuo pensiero e con quella musica cadenzata e chiara che risuonava dietro di me... é la mia canzone preferita... ora vedo che le tue labbra ne ricalcano le parole, senza volerle disperdere nell'aria... porto un vestito chiaro e lungo fino alle caviglie... non sei abituato a vedere ragazze assorte davanti all'oceano... come un luogo eterno scosso dal vento, così la mia immagine dentro di te... non meno vicina di un sogno, non più lontana di una realtà che ti è sfilata davanti... qualcosa che hai visto perchè ti apparteneva intimamente...

... per questo sono andata via...

Serri le labbra... non ti piace piangere... non con questo vento... lo so, brucia la pelle... mi è capitato tante di quelle volte... ora è tutto così bello: vedo la gente correre nella nebbia e sulla sabbia... pensano che non li veda nessuno... e ridono... corrono concentricamente e ridono: sentono lo spessore del vento dall'oceano e rotolano sulle dune... sapessi come ridono... capitava anche a me... ma non sapevo che ci fosse qualcun altro che rideva con la mia stessa angoscia... e invece ci sei tu... corri e ridi... ti fermi...

Mi dimenticherai, lo so... domani parti... è per questo che lanci un bastone dopo l'altro nell'oceano... lanci un bastone per ogni giorno in cui non ci sarai...

Io ho i capelli biondi, scossi dal vento. Ho le mani affilate e bianchissime. Ci soffio sopra per difendermi dal freddo. Porto un vestito chiaro e lungo, fino alle caviglie. Laggiù, al confine tra il bosco e la spiaggia ho lasciato un registratore che spande attorno le note della mia canzone preferita: it's a wonderful, wonderful life.... Tu sei l'unico che sa dove sono. E infatti la luce della lanterna t'illumina, tra strati di nebbia.

Del mio viso non hai saputo niente.

Avevo pensato che un giorno come quello, in cui la nebbia non aveva reso dissimile l'oceano dal cielo, fosse il giorno giusto per morire. Tu eri lì, sullo scoglio.

Non sapevo immaginarmi nulla di più perfetto dell'oceano, che tentenna il tempo avanti e indietro e restituisce sempre ciò che gli si affida. Prima o poi. Perciò vedendogli simile il cielo ho sperato che non si comportasse diversamente.

Gli ho dato la mia vita e lui me l'ha subito restituita, attraverso i tuoi occhi che, cercandomi, mi ricreano, all'infinito.

La nebbia si posa sempre sull'oceano, di questi tempi. Ma noi si rimane sempre dove ci siamo lasciati.

It's a wonderful, wonderful life...

domenica 9 maggio 2010

"In viaggio con Genius Card"

Stati Uniti d'America.
Non sono sempre un cliché.
Si stagliano nella nostra mente, con la fissità imbarazzante di un grattacielo nero, lasciandoci l'impressione di una sfida perenne tra l'uomo e il cielo.
C'è quasi sempre un uomo con un sogno perenne, in giro per l'America.
Ma non mi sono bastati sette viaggi per chiuderla dentro di me o per placarla, la ricerca di quel clicheé.
Mi sono chiesta perché esista nel mondo un luogo a tal punto legato al simbolismo.
Ho scrutato le ragioni fissando l'allungarsi delle ombre su una strada diritta a due corsie, che fendeva un deserto bianco come la neve in un angolo sconfinato del New Mexico.
Le ho rincorse sotto un cielo ceruleo, dove i tronchi pietrificati degli alberi, stigmatizzati nella durezza dell'ametista, scandagliavano la linearità della luce.
E ancora l'ho intuite in un percorso tra rocce rosse come il fuoco, piovute giù forse per caso e foggiatesi in forma di una rotondità inattesa... tra fiumi sotterranei, scavati in quella roccia ad alimentare una foresta di cactus, rapita dal fascino dei vortici esoterici di Sedona, mi hanno parlato, d'improvviso e impudenti una lingua di sfere di cristallo che interroga la magia per sapere che strada prendere.
L'ho quasi perduta, nel caotico essere luce artificiale di Las Vegas, per poi riaverla indietro, la risposta, di fronte al nitido contrasto delle insegne spente con le prime luci dell'alba sul deserto del Nevada.
L'ho assopita tra i villaggi fantasma del Colorado, nello sguardo malizioso della centenaria custode dell'attivissimo ufficio postale di Victor, che ancora riceve, a discapito dei suoi tre abitanti, una fervida corrispondenza d'amore e s'addormenta, gli occhi appannati da un vetro di ragnatele, s'una valle scoscesa tra le Rocky Mountains.
L'ho resa selvaggia, quella risposta, tra le cime immacolate del Mount McKinley, in Alaska, il tempo scandito da canti tribali... mi è parso di ravvederla in un rito di pesca primitiva, nel fiume Kenai, che si getta a estuario in un mare fermo, sorvegliato da una desertica cittadina siberiana, muta sul suo altopiano, ornata da siepi di rose surreali quanto perfette, simmetriche, eterne.
L'ho dirottata, per allungare la meta, sulla rotta lenta dell'Alaska Marine Highway, in marcia perpetua verso Seattle, dove i torpori nordici si sciolgono e si rivitalizzano nel cantilenare del Market Place e dove ogni sguardo, in una giornata tersa, non può che portarsi all'apice di un surreale Monte Olimpo, ripida vedetta sull'oceano.
L'ho portata in macchina con me, per miglia e miglia d'oceano, chiusa tra faraglioni lunari d'Oregon e l'ho lasciata a ripetersi nell'urlo dei leoni marini, affacciati alla loro falesia eterna, in quell'antro che chiamano Point Lobos, ma che potrebbe essere in qualsiasi altrove che plasma la mente, quando progredisce verso i suoi primordi.
E persino nell'insegna provocante del fastfood, messa a svettare su un palo che si erge nell'oscurità di una highway a quattro corsie, ho visto l'ennesimo simbolo fatiscente dell'uomo che si rifiuta di morire e, come un religioso con il suo culto, consuma sulle ceneri della Route 66, incantato dai suoni del saloon, assopito nel calore paradossale di un anonimo motel, specchiato nella cromatura lucente di una Cadillac, il suo rito.
Vorrei ritornare a raccogliere questa America.
Vorrei poterla sfogliare nel mio libro, sfogliare il mio viaggio oltre la meta. Perché l'America del viaggiatore è sempre oltre la meta. L'America è sempre oltre se stessa, criptata o forse imprigionata nel suo simbolismo.
Vorrei realizzare il progetto editoriale di una guida di viaggio che non sia destinata solo a chi deve partire, ma anche e soprattutto a chi deve tornare indietro o a chi non deve partire affatto: un tragitto onirico, sospeso tra realtà e proiezioni surreali, anche un libro di geografia alternativa, se vogliamo, svincolata dalle mappe consuete... un viaggio alla rinfusa, tra alchimie ed antinomie...
Ai miei lettori prometto solo esperienze inconsuete.

IL MIO PROGETTO, DUNQUE.

L'esigenza di realizzare questo progetto editoriale nasce dunque dal connubio tra il mio amore per la scrittura e la mia attitudine all'introspezione.
Ho avuto la fortuna di viaggiare molto, sin da quando ero bambina: nel corso degli anni ho notato come la necessità di viaggiare fisicamente verso una meta sia divenuta un archetipo dell'uomo contemporaneo, che ha sostituito e forse esteriorizzato l'Odissea sempiterna del viaggio interiore.
Dunque, perché, le persone viaggiano?
Non credo la risposta sia, in modo semplicistico, identificabile con una maggior disponibilità di mezzi, dal momento che è il mercato ad adeguarsi alle aspettative inconsce dei suoi fruitori e non viceversa.
Credo, invece, che l'uomo abbia attualizzato e oggettivato la sua tendenza al viaggio, trovandosi però orfano, spesso, del suo fine: procedere oltre la meta.
Chi parte, o anche chi sogna di farlo, sa bene che la vera difficoltà del viaggio, a partire da Ulisse, sta proprio nel ritorno. Il ritorno che io intendo non è un fisico ripristino della quotidianità nelle mura domestiche, ma la potenzialità di includere il viaggio (quale esso sia) entro di sé e di renderlo parte della propria identità e del proprio tempo interiore: nel viaggio raccogliamo suggestioni dal passato, infatti, ma anche e soprattutto dal futuro: nella meta prefissata incontriamo la nostra aspettativa, il codice spesso criptato di uno scopo da realizzare.
Il turismo attuale, monopolizzato dai Tour Operator, pur avendo il merito di rendere accessibili i “luoghi comuni”, chiude la naturale tendenza del viaggio, così come della coscienza, dell'anelito al futuro, ad espandersi. Le guide turistiche, basilari nella loro utilità pratica, divengono tuttavia fredde e scheletriche quando siano identificate con la totalità dei percorsi possibili.
La storia del viaggio ancestrale ci insegna che non esistono percorsi rettilinei, strade più brevi, “point view” dove scattare la foto-cartolina di turno, quanto più imprevisti che portano fuori rotta e ci regalano luoghi, non comuni, ma forse assoluti.
Chi si è perso nel Nebraska, alle cinque di un pomeriggio di Luglio, nel marasma di una violenta bufera estiva, in una strada che sembra non far altro che procedere verso l'infinito perpetuarsi del temporale, sa di cosa parlo.
La mia guida di viaggio, pertanto, vuol essere una guida al contrario, che parte dall'immaginario interno per arrivare all'esteriorità del luogo: ci dirigiamo sempre verso una meta che abbiamo disegnato dentro di noi e gli incontri più intensi sono un dis-velamento di un nostro luogo interno, più che la materializzazione di un altrove di per sé esistente.
Per realizzare questo mio intento ho trovato tre mezzi:
1)uno studio psicologico alla ricerca degli archetipi del viaggio, in modo tale che ciascuno possa ritrovare il significato del proprio viaggiare.
2)Un percorso artistico, in cui i luoghi del viaggio sono la scenografia di un racconto o di una poesia.
3)Un percorso psicopedagogico, rivolto soprattutto ai ragazzi, teso a presentare una geografia alternativa, svincolata dalle mappe fisiche e politiche, e ricongiunta al suo impatto emotivo e immaginifico, come dal mio progetto al sito: www.universitadeibambini.com

Spero di fornire, tramite questa pagina, uno spunto del mio lavoro...
Buon viaggio!

Il link del progetto, dove è possibile votarlo e condiverlo è
http://inviaggiocongeniuscard.it/progetti/sfogliando-un-viaggio-oltre-la-meta