sabato 18 dicembre 2010

Tu eri dentro l'albero, vivo, a scuotere il mio mondo di ceramica

















Sei qui, dentro l'albero.
Sbocci nei fiori di pesco e ti addormenti con una coperta di neve.

Sei qui, dentro il muschio che lambisce la corteccia.
Mi manchi sempre. Mi manchi ovunque.

Mi ricordo di questo albero, quando ero bambina. Mi piaceva indossare gli abiti chiari, con le balze, e le scarpe lucide. A mio modo, ero più donna allora di quanto non lo sia adesso.
Mi preparavo per l'albero. Poggiavo la schiena contro il tronco, carezzavo le foglie, raccoglievo quelle cadute, le restituivo alle radici.

Era l'albero della montagna. Mi attendeva come ad un appuntamento, ogni inverno, ogni estate. Quando lo vedevo, cercavo di mostrare sempre un cambiamento.
Lui mi guardava benevolo come un padre, carpiva i miei segreti, li chiudeva nel tronco e nel tempo, li germogliava nei fiori e nei frutti. E ad ogni morte invernale, mi permetteva di resuscitare in una nuova veste, di tingere le sue fronde di un nuovo colore.

Non era solo l'albero della montagna.
Dal suo tronco staccavo trucioli di carta. Tiravo via strati di pelle. Lo spogliavo di quelle parti di me che avevo inciso sul tronco. E con quel gesto tiravo via gli anni, ad uno ad uno, avidamente.
Mi sedevo al suo capezzale, lasciavo aderire la mia schiena alla sua, chiudevo gli occhi.

Tu eri dentro l'albero, vivo, a scuotere il mio mondo di ceramica.

Lui c'è da una vita. È fuori dall'albero.

Tu raccoglievi rugiada dalle mie condense invisibili e non le prosciugavi.

Lui è sempre stato l'Altro. Non si accorge quando piango senza lacrime.

Tu avevi più di due occhi ed erano tanti come il punteggiamento verde delle foglie sulla chioma. E pure erano neri, lucidi, meravigliosi.

Lui ha gli occhi di ogni giorno. Gli occhi della folla. Gli occhi di chi è abituato a guardare se stesso e gli altri dentro uno specchio. Un po' troppo lontano dalla sostanza.

Il tuo tronco era il tuo petto e i rami il tuo abbraccio.
Archetipico, primordiale, mi hai visto indossare i vestiti con le balze e le scarpe lucide, blu come la notte. Ti ho raccontato ogni cosa. E mi hai amata lo stesso. Con quel silenzio che parla il linguaggio del primo vento, non più di una brezza che crea un vortice tra i rami, ma non muove la superficie esterna delle cose.

Io e lui ci guardiamo e tacciamo. Parliamo il linguaggio fittizio dell'ultimo inchiostro, quello che cadendo rapprende e forma una macchia a coprire il bianco del foglio.

Quanti anni hai trascorso in questa valle, prima di me?
Racconti le storie del sempre e le arrotoli tra nodi di radici.
Ancora uno strato di pelle. Lo strappo. Sarà mio per sempre. Bianco e immacolato. Qualcosa di te.
Trascorro il primo mattino a liberare i ramoscelli più piccoli dal peso della neve.
Mi voglio illudere di fare qualcosa per te. Soffiare via il peso del tempo. Forse vorresti essere libero, come il pettirosso, come me, come lui. Libero di morire. Di disperarti per una finitezza.
A ben vedere, dunque, non dovrei liberarti della neve.

Lui ed io oggi ci sposiamo. Il nostro percorso è lungo una vita. Incedo verso l'altare, con un vestito con le balze e le scarpe lucide, blu notte.
Lo guardo negli occhi e so che non è stato il primo, né il secondo, né il terzo. Ha gli occhi di tutti. Di tutti quelli candidati a rendermi felice. Sempre i medesimi occhi, incastonati in un viso di gesso, che potrò ancora modellare, giorno dopo giorno.

Non ci si sposa quasi mai d'inverno. A meno che non si aspetti la primavera per incoronarla di un'altra rinascita. 

Tu sei nell'albero, triste e silenzioso. 
Il cielo è cupo e gioca a toccarci i capelli e le fronde. Il buio cala presto e assorbe il fumo grigio dei comignoli.
Ti amo.
Lo scrivo su un traliccio di tronco e subito stacco via il mio sentimento e lo congelo nel freddo.

Lui fa bene ogni cosa. Mi abbraccia e poggia la testa contro la mia. Mi fa assaggiare una fetta di torta ai mirtilli. Non se ne andrà mai. 
Calo su di noi la coperta e penso che ogni cosa è compiuta: la bambina ha perso il suo Albero e i suoi sogni, ma ha guadagnato la vita.

Ti guardo.
Impugno la scure.
Anche i tuoi occhi più lontani si fanno vicini mentre s'incrinano nella neve e nel ghiaccio.
Ora puoi rinascere, davvero, per me.
Ti aspetterò in primavera e avrai le sembianze che ho trasfigurato nell'albero.

Gli schiocco un bacio mentre dorme, tolgo l'anello e lo lascio sul comodino.
La bambina ha abbattuto il suo Albero e ha accettato i suoi sogni.

domenica 21 novembre 2010

Centottanta battiti al minuto


Entriamo nel luogo che ci hanno indicato, quattro mura di legno scuro e, fuori, solo la tundra, una macchia madida al tramonto.
Loro sono già là, seduti a gambe incrociate intorno a un fuoco ancestrale. Ci guardano e, con un linguaggio a cerchi di fumo, ci fanno segno di sederci.
Sembra un punto di non ritorno. Forse lo è, forse è davvero un'iniziazione. O forse è solo un rituale che, scandito da una ripetizione infinita, ha perso la sua importanza e ci lascerà null'altro che un folcloristico ricordo.
Noi sappiamo già cosa dobbiamo fare: aspettare il nostro turno e raccontare la storia di una creazione. Dicono che sia ciò che all'uomo, per natura, viene meglio: pensare di creare, prima ancora di farlo oppure non farlo mai.
Guardo la mia compagna di viaggio e il suo volto di lentiggini, che sa di mete lontane.
Dunque mi alzo, aspiro dal calumet della pace, subito vedo i loro volti divenire linee sfumate. Mai ho provato l'ardore del dar voce ai miei desideri di creazione. Ma adesso è il momento: fanno risuonare i tamburi, chiudo gli occhi e mi schiarisco la voce.

Filtra una luce color dell'avorio: è il colore delle notti bianche arse dal fuoco che si leva nel falò. Ogni elemento, coadiuvato dal ritmo dei tamburi, fluisce e sparisce nel fuoco: una maschera; il fascio di Ayahuasca che, bruciando, disperde nell'aria una fragranza esotica che invade il respiro, le membra, i gesti; una tavola su cui sono incisi dipinti rupestri.

Lei chiude gli occhi, i tamburi si sostituiscono al suo battito cardiaco, il fuoco diviene il flusso ch'eleva i suoi ricordi e li sospende. Sono già spiriti che aleggiano nella stanza. Fra loro, io per primo impero, nella mia corazza invisibile. Lei mi evoca, come accade da ormai quasi duecentoottanta giorni. Mi evoca e mi comprime nel ricordo: è come una caduta violenta, uno strozzarsi entro le membra, un includersi in un'eterna ripetizione. Lei mi abbraccia, mentre schiude le labbra, china il capo sul tappetto tribale, si mette in posizione fetale e sorride. In quell'abbraccio torno ad avere una barba sale e pepe, un paio di occhiali che incorniciano iridi azzurre, una cravatta stretta intorno al collo, un camice bianco, uno scetticismo scontento e svilente. Torno a essere io, professore di neuroscienze della New York University, quarto piano, stanza 7, in fondo a destra. Torno a essere io nel mio tentativo di essere Dio, riportando ogni lieve sentimento, ogni vita e, dunque, ogni ricordo, a una struttura cerebrale, a un grigio conglomerato di neuroni, a un circuito di sinapsi sincrone e sincronizzate per effetto di quella macchina infallibile chiamata selezione naturale.

Torno ad essere io in tutto il tempo precedente il giorno della mia morte.

Seguo la forma sinuosa delle sue ciglia, il suo corpo che, tuttora, mi si dona, il suo lieve pudore mentre l'ardore del fuoco altera i confini del suo universo percettivo e, pur ad occhi chiusi, comincia a vedere e a desiderare di incontrarmi, in quello che lei chiama “altro mondo”: l'altro mondo scende a capofitto, sin nel centro della terra. Ha per ingresso una scala a chiocciola d'argilla, così angusta e malferma da farla trasalire ad ogni passo.
Alza il capo e osserva. È entrata nel mondo al contrario: un filare di alberi dal tronco nodoso, le radici infitte nel cielo, un guscio di crosta bruna e la chioma, una fronda di foglie amaranto intrecciate, che spiove sospesa e, accanto, girasoli giganteschi, parimenti capovolti.

È un mondo chiuso.
Hai paura, lo sento.
Stai invadendo uno spazio chiuso e sospeso. Rompendo un folle equilibrio. Ti chiedi perché non ci siano spiragli. Me lo sono chiesto anch'io. E ho concluso: perché non ci siano contatti, tra il Mondo di Mezzo e il Mondo di Sotto.


Si guarda intorno. Ha sempre una percezione quando le parlo: un fruscio di vento appena più sibilante, un bagliore tra le nubi, un'improvvisa visione.

Io non ti voglio qui, nel mondo chiuso.

Scivola appena sulla scala: il suo volto è un punto infinitesimo della discesa infinita, sospeso tra chiome d'albero, corolle di fiori e un folto girovagare d'insetti variopinti. Il suono dei tamburi è ormai come un ritmo indelebile, intrecciato ai suoi passi, una vitalità inconscia che la sostiene, in un mondo ovattato di silenzio.

Ma io sono finito là, sotto la lapide, in un bosco simile a questo. Non ci sono più. Non cercarmi.

Il pallore s'impossessa del suo volto, quando le si para davanti un animale, con il corpo d'orso e il volto d'aquila. Ma tace. Non sa che forma potrei avere assunto, nell'”Altro Mondo”.

Sei troppo ostinata. Lo sei sempre stata. Intrecciavi fiori vivi a fiori appassiti. Cercavi segni nei fenomeni atmosferici. Chiamavi gli spiriti di ciò che hai perso, in continuazione. Ecco, ora io sono uno spirito, ma vivo recluso, senza forma, senza essere, senza sentimento. Ho perso il mio trasduttore, ho perso il mio cervello. E tu... tu credi che io sia con te, ma è solo perché i tuoi circuiti sono integri e m'incatenano al mio volto e al mio tempo. Sei solo un'illusa.

Ma lei non ci crede, non mi ha mai creduto. Non lo ha fatto neanche allora, quando sperimentavo la mia cura per il dolore e per i traumi psichici. Quando staccavo le persone dai loro ricordi perché non soffrissero più. Quando mi sono staccato dal mio stesso dolore.

Ma tu scendi nel profondo e segui il tuo Animale Guida con assoluta dedizione e non inciampi. E lo facevi anche allora, quando danzavi sulle acque serpiginose del ricordo. Ti farai del male, soprattutto oggi.

Alza il capo. Le incornicia il volto un girasole senza punto cardinale.
"Sei qui?", sussurra, mentre carezza il tronco di un albero.

Tu sfiori questi tronchi pensando di trovare me? E allo stesso modo passi il palmo delle mani sulla mia fotografia. Mi cerchi nelle cose, senza mai rassegnarti.

Ha nel volto quella solita guardinga bellezza: le pupille accese, i capelli mossi, un'icona della vita. "Non ti ricordi quando sei stato l'albero?", mi chiede, mentre si ancora al legno nero.

Non so cosa sia essere un albero.

"Eppure, come te, non sa che il suo tronco sono le radici di un altro albero, in un altro mondo"
La osservo: materiale, incede qui, dalla sua realtà nella mia oscurità. Lei è viva. Io sono morto. Danza su quella scala onirica, come una figura primordiale, avvinta in una veste bianchissima. Mi pensa, mi vede nella sequoia gigante. Si ricorda di tutte le volte che lo sono stato e accarezza la ruvidezza del tronco, la lucentezza delle foglie, il sapore dei frutti.
E già prendo forma: la mia barba è un baco appeso al ramo più esile, il mio petto è il tronco, i miei pensieri sono foglie... crescono lussuriose, verdeggianti..

Come illusioni... le tue solite illusioni...

“Poi ingialliscono, diventano anemiche, arse d'improvviso da un'intera stagione di canicola, come una delusione cadono nel vento e si portano nella terra... come i tuoi pensieri...”

Vedi che non rimane niente, che la Natura è programmata per cancellare il ricordo...

Eppure ancora ricordo: il sapore della salsedine che m'investe dall'oceano, la solidità del legno, lo stridere di una pietra per incidere due nomi sul tronco, il tepore del sole, la brezza della nebbia.
E poi ancora...

Il tempo scandito dalle stagioni...

"Ti ricordi le nostre stagioni? Il profumo dell'inverno, la materialità del freddo, l'arrivo dell'erica e del ciclamino?"
No, non voglio ricordare.
"Non vuoi ricordare le cose in cui sei stato perché in realtà vuoi ricordare sempre la materialità di te stesso, confermare la tua teoria. Sei tu che non ti lasci andare..."

Non posso accettare che la mia teoria fosse sbagliata.

"E per questo non vedi come ti trasmetto questo mondo, in continuità col mio... come ti ricreo, momento per momento... non avevi visto la mia distesa di girasoli capovolti..."

"Ma non vedono il sole..."

"Eppure esistono e si volgono all'unisono in una direzione"
Li osservo seguire, in un'improvvisa girandola collettiva, i miei movimenti.

Sono girasoli senza sole, fitti come una foresta... il loro gambo si unisce a un gambo speculare, nella Terra di Mezzo, nella terra degli uomini...

"Davvero non ti ricordi quando sei stato il girasole?"

Ogni volta in cui ho trovato un Dio rigoroso, che variava la sua posizione nel cielo per non essere mai del tutto un Dio al tramonto, così che ad ogni tramonto evanescente corrispondesse un'alba...

"Ogni volta in cui, per curare il dolore, mi hai impedito di amarti e hai continuato la tua marcia imperterrito, dietro quel Sole"
I suoi pensieri creano come un'interferenza nel silenzio di fondo del mio mondo sotterraneo, scavano anfratti da cui passa una certa luminescenza, scuotono il mio Limbo, pervadono quest'universo buio di meraviglie.

Non accetto di non essere morto.

Lei tace.

Ma tu sei già venuta, molte volte. Una volta suonavi una cetra, per riportarmi fuori dall'Ade. Ti chiamavano Orfeo. Ma io so che eri tu...

Ride.
Sembra cosi completamente consapevole.
"Come spirito sei una frana..."
Ancora sorride. È arrivata in fondo alla scala. Si passa la mano tra i capelli. So che aspetta di vedermi nelle mie sembianze. Ma i suoi occhi sono iridi trasparenti, adesso. In essi scolora un arcobaleno, roteando prima piano, poi sempre più veloce.

Segue il ritmo di un tamburo.

"Centottanta battiti al minuto... ti ricorda qualcosa?"

Centottanta battiti... in Medicina...

"No, non in Medicina..."

Quando sono stato in quei centottanta battiti?

Lì, nei suoi occhi, da quel vortice d'arcobaleno, si riflette un fascio di luce bianchissima.
Mi volto indietro: la fonte è una sfera infinitesima, un sole millesimale, un granello luminoso al centro della terra.

Quando lo sono già stato?
Alzo lo sguardo e d'improvviso lo so.


Mi schiarisco la voce e comincio a raccontare. A raccontare di un mondo capovolto, perfettamente speculare al Mondo di Mezzo, dove gli alberi sono infitti col tronco nella crosta terrestre e le loro chiome sporgono verso il centro del globo.
Lo dico e sono: il fulcro verso cui guardano i girasoli, la meta della scala, la luce che permette scambi nutritizi con gli alberi.
Roteo in un fluido denso, indifferenziato. Nella scala scorrono due binari: una vena e un'arteria ombelicale. Nelle fronde degli alberi il loro sangue s'ossigena, mi plasma, imprime forma alle cellule, le compatta. Centottanta battiti al minuto: questo è il ritmo del mio cuore.
Lei ha i capelli rossi. Mi ha sempre amato. Mi ha sempre chiesto di ricordarla, per poterla scegliere ancora, in questa o in un'altra esistenza.
Lei è già stata qui. Una volta suonava una cetra per richiamarmi alla vita. Ma da quella volta ha imparato a non voltarsi mai e a non guardarmi mai per quello che sono, ma a evocarmi nelle cose, per non perdermi.

Il cerchio di uomini tacita i tamburi. Lei apre gli occhi. Il fuoco si è spento. Si accarezza il ventre, sorride.
Usciamo dal luogo che ci hanno indicato.
Ora possiamo andar via insieme.

lunedì 15 novembre 2010

Una damigiana d'inchiostro


Entriamo nel luogo che ci hanno indicato, quattro mura di legno scuro e, fuori, solo la tundra, una macchia madida al tramonto.Loro sono già là, seduti a gambe incrociate intorno a un fuoco ancestrale. Ci guardano e, con un linguaggio a cerchi di fumo, ci fanno segno di sederci.Sembra un punto di non ritorno. Forse lo è, forse è davvero un'iniziazione. O forse è solo un rituale che, scandito da un ripetizione infinita, ha perso la sua importanza e ci lascerà null'altro che un folcloristico ricordo.Noi sappiamo già cosa dobbiamo fare: aspettare il nostro turno e raccontare la storia di una creazione. Dicono che sia ciò che all'uomo, per natura, viene meglio: pensare di creare, prima ancora di farlo oppure non farlo mai. Guardo la mia compagna di viaggio e il suo volto di lentiggini, che sa di mete lontane.Dunque mi alzo, aspiro dal calumet della pace, subito vedo i loro volti divenire linee sfumate. Mai ho provato l'ardore del dar voce ai miei desideri di creazione. Ma adesso è il momento: fanno risuonare i tamburi, chiudo gli occhi e mi schiarisco la voce

“Io non ho niente da dire.
Non ho più niente da dire.
Prima lo avevo. Questi luoghi, legati con un filo di fumo a una potenza primigenia, esistevano in me prima che nella realtà. È quest'altra me che non ha idea di cosa sia creare, vitalizzare le cose e, poi, lasciarle andare. Forse è perché sono diventata egoista, mano a mano che la cura procedeva, e ho preteso di tenere tutto per me. Così, a forza di implodere per non dare, i frammenti dell'implosione si sono dispersi, non dissimili dalle cellule di un tumore, colonizzando gli organi, il sangue, la vita.
Sono una persona morta, con una vita accessoria, che si avvicina alle cose in modo famelico, le ama perversamente, le trangugia selvaggiamente, senza soffermarsi a sentire ciò che sono.
Dicevano che ero brava a scrivere poesie. Ma ho perso anche quest'attitudine.
Dicevano che era un'abilità dei matti. Ora sono sana, senza picchi e senza abissi.
Ora sono un fantasma, il più arido fantasma della normalità.
Amavo il fiume di un paese, incastonato tra le montagne. In esso lanciavo le mie poesie e le vedevo disfarsi nell'acqua grigia e procedere lente verso la valle. Impassibile il fiume scandagliava i miei anni e io glieli consacravo, avviluppata alla mia infanzia eterna.
Quella casa, a tre passi dal fiume, non c'è più.
Dicevano che fosse irrazionale tenerla, visto che ero oberata di debiti e mi servivano soldi.
L'ho lasciata chiusa un giorno di novembre, mentre il vento sollevava un tappeto di foglie rosse.
Dicevano che tornare mi avrebbe fatto soltanto regredire, mentre era necessario che mi staccassi dai miei “oggetti” infantili. Così non sono più tornata.
Amavo un cimitero di campagna. Mi ero affezionata a una tomba e alla foto di un uomo bello, che sembrava essere stato in ogni istante in un estatico equilibrio tra la vita e la morte. Gli portavo i fiori, anche se non lo avevo mai conosciuto, e in quel cimitero di lapidi cineree vedevo, nonostante tutto, nascere le cose: l'arsura si volgeva nel sopore dell'autunno -cadevano castagne dall'albero secolare e scricchiolava il silenzio un pavimento di foglie-, l'autunno spariva nella neve, il bianco svaniva al verde. Sotto una siepe di rovi, muovevano i loro primi passi traballanti un gatto nero e uno color pesca grandi come il pugno di una mano. Il gatto color pesca era diventato il mio gatto, poco prima che la neve, per la quarta volta, tacitasse la valle nel suo ovattato candore.
Dicevano che non era razionale estrarre la vita dalla morte, che era un gioco perverso. Dicevano che dovevo “elaborare” il lutto, accettare l'assenza di mio padre e, nonostante i miei perpetui tentativi di averlo vicino, il fatto che egli ne rimanesse indifferente, anziché cercare padri morti e idealizzati.
Così ho lasciato il cimitero di campagna e ho consegnato all'eternità una pianta finta per quella tomba vuota. Il gatto l'ho regalato, perché è meglio concentrarsi sulle relazioni umane, pensare, casomai, a fare un figlio in carne ed ossa, anziché umanizzare un essere bestiale.
Ora vivo in una casa asettica, evito le fotografie, i libri e, soprattutto, evito l'inchiostro. Più di tutto evito ciò che è stato il mio strumento di dissoluta distruzione della cura: l'inchiostro è l'unico effetto che mi sarebbe rimasto personale, nella mia stanza bianca. L'unico che avrebbe potuto mantenere un legame con la mia aura confusa e incantata. L'unico che avrebbe potuto rovesciare rivoli di rabbia sulle pareti e da essa riplasmare sul muro vuoto il fiume, le poesie, la casa, il cimitero, il gatto color pesca. L'unico antidoto contro il litio che, metallico, mi aderisce alle labbra, alla pelle, alla mente.
L'inchiostro sporcherebbe la mia vita automatizzata, disinfettata, inutile.
Mi ero innamorata di lui perché portava sulle spalle una damigiana d'inchiostro. Sembrava un pastore in un presepe di carta, in marcia verso un Bambino a sua volta di carta. Sembrava che dovesse disegnare le pupille su quel volto ingessato, insufflare un'anima e un fiato nel bue e nell'asino, rendere teporosa la paglia, regalare una feconda oscurità notturna a quel cielo immobile e bianco di carta millimetrata.
Da quando è comparso, elargendo ebbrezza da quella sua damigiana, anche lei è ricomparsa: ha i capelli rossi e le lentiggini e sembra venire da mete lontane.
È lui che mi ha portata qua.
È lui lo stesso che mi ha curata, per tutti questi anni.
Andavo da lui quattro volte alla settimana. Mi stendevo su un lettino bianco. Anche la stanza era bianca, completamente bianca. La sua poltrona era l'unico elemento nero. Era la cosa migliore da fare, l'unica cosa che mi era rimasta, dopo i miei progressi, l'unica che ancora mi interessava. Forse perché lui era l'unico che sembrava trattenere entro di sé i lineamenti di ciò che ero stata, il sapore di ciò che avevo posseduto, la magia di ciò che avevo sognato.
Io avevo imparato a non fargli domande sulla sua vita, su chi fosse al di fuori della stanza bianca.
Compivo il mio compito diligentemente. Gli raccontavo cosa sognavo la notte. Mi ero abituata al meccanismo del nostro dialogo, alla sospensione del nostro rapporto. Mi ero abituata a essere un ingranaggio nel meccanismo della cura. Mi ero rassegnata a consegnargli tutto quello che avevo e alla sensazione che mi rimaneva, di averlo perso, inesorabilmente.
In cambio avevo solo lui, il litio, perché il mio problema era una nevrosi isterica e avevo imparato che ciò che dovevo combattere si chiamava “maniacalità”. Che essa era una sorta di palliativo, che mi proteggeva dal contatto con i miei traumi infantili. Che ricorrevo ad essa per alimentare fantasie fusionali, in cui, a dispetto di ciò che richiede una crescita sana, non mi separavo mai dai miei oggetti infantili, ma vi rimanevo confusamente legata, alimentando un circolo vizioso che mi soffocava, impedendomi di muovermi.
Avrei fatto qualsiasi cosa per non sentire il nome della mia malattia che, sussurrato a mezz'aria, nel vuoto di quelle pareti bianche, scavava solchi di angoscia e di terrore. E così spegnevo la mania. Evitavo di ironizzare sul mio dolore. Evitavo di sublimarlo. Evitavo, soprattutto, più di tutto, per non regredire, l'inchiostro. Evitavo di far sì che l'inchiostro attingesse alla pozzanghere del mio dolore e lo trasformasse ancora in quella sensazione che più di tutte avevo sperimentato esser simile alla felicità, anche se per lui si trattava sempre e solo di un'euforia maniacale. Evitavo con dedizione non solo di essere felice, ma anche di essere. Di essere qualsiasi cosa che potesse venir biasimata.
Un giorno, però, mi aprì la porta con uno sguardo diverso. Lo studio era in disordine, i libri erano caduti dalle librerie, il materasso era posto a terra, i muri erano imbrattati di vernice, il pavimento cosparso di briciole, il tavolo incorniciato da un mazzo di fiori.
Guardava fuori dalla finestra con lo sguardo assorto e sembrava non volesse più ascoltare.
Fuori nevicava, anche se era agosto, anche se una canicola struggente macchiava i vestiti di sudore.
La neve si fermava sui marciapiedi, sulle macchine, sui lampioni. Era bianca, ma di un bianco diverso da quello delle pareti dello studio: creava un contrasto con il grigiore stagnante della periferia e dei suoi fumi, ripuliva l'aria, generava un profilo nuovo per quella distesa imbruttita da una fabbrica arancione.
D'improvviso vidi che la sua stanza era piena di cose mie: i libri che aveva nascosto nella sua libreria erano quelli che io avevo scritto; le briciole erano quelle della torta paradiso che, come un rituale, mangiavo ogni giorno alle tre, quando da bambina mi risvegliavo dal mio sonnellino pomeridiano; la vernice era di tutti quei colori che avevo scartato prima di scegliere di dipingere ancora e solo in bianco le pareti della mia casa; i fiori erano quelli che amavo portare al cimitero di compagne, violacciocche bianche; il suo stesso volto aveva qualcosa di familiare, come se esso plasticamente si forgiasse a restituirmi occhi che avevo obliato, in un lontano passato.
Aveva una damigiana d'inchiostro sulla schiena e si preparava a distribuirla a destra e a manca. Ma quell'inchiostro era mio. Mio e di nessun altro. Ero stata la sua macchina di circolazione extracorporea per innumerevoli anni, avevo scaldato il suo sangue, lo avevo ossigenato e glielo avevo restituito, rivitalizzandolo, a poco a poco. Aveva sul volto una insolita bellezza, negli occhi mete lontane.
Per la prima volta mi guardò, mi prese la mano e mi parlò di un luogo ai confini del mondo, dove l'oceano è fermo come l'acqua di un lago; dove l'acqua, in virtù di questa quiete alimentata dai ghiacci, fa da specchio al profilo dei monti, agli altopiani ricoperti di erba gialle, alle case di legno scuro; dove ogni cosa rimanda all'altra e, infine, è l'altra; dove gli animali si uniscono a plasmare un unico spirito vitale, incolonnati e stilizzati sulla sacralità di un totem, arso da un fuoco ancestrale; dove un cerchio di uomini con indosso una maschera, al ritmo di un tamburo, pronuncia una formula magica, chiamando a raccolta le entità della terra entro il divampare delle fiamme: da quell'amalgama si leva nell'atmosfera un miasma denso; di esso si aspergono quegli uomini, mentre ad uno ad uno, in una splendida sinergia, iniziano un racconto di creazione, che si leva in un coro asincrono che scuote la tundra e le sue notti bianche, tinteggiate di senape e ocra, i colori della terra evaporati nel cielo.
Dopo avermi parlato di questo luogo, non l'ho mai più rivisto. Se n'è andato con la mia damigiana d'inchiostro e io l'ho seguito a debita distanza. Ad oggi non saprei dire se questo ultimo nostro incontro sia stato un sogno, la realtà o forse solo un'altra realtà, che aveva sempre convissuto con noi e il nostro dialogo incagliato dal troppo voler scandagliare i sogni.
Sono venuta solo a riprendermi il mio inchiostro per poter tornare a scrivere di lei, lei che ha i capelli rossi e le lentiggini e sembra venire da mete lontane.
È ricomparsa non appena lui è scomparso. Si nasconde sempre dietro le superfici riflettenti, tutta avvolta da un pallore nebuloso che, mi sembra, chiede solo di essere enucleato da un ammanto di nebbia.
Anche adesso ondeggia tra le increspature della bacinella d'acqua che gli uomini in cerchio hanno posto al centro, a raccogliere i trucioli di legno che, simili a corolle di fiori, si riversano come pioggia primigenia dall'arsura del totem.
La vedo mentre schiude le labbra e racconta una storia. Dice che amava scrivere poesie e gettarle in un fiume grigio, che le portasse al suo delta; che amava una casa a tre passi dal fiume, incastonata tra le montagne; che amava portare fiori a una tomba vuota, in un cimitero di campagna, alla foto di un uomo bello che sembrava aver vissuto perennemente in bilico tra la vita e la morte; che aveva un gatto color pesca, nato tra gli sprazzi dell'ultima neve nel cimitero di campagna.
Dice che non si è mai dimenticata queste cose. Solo, le aveva separate da sé e aveva frapposto un muro di vernice bianca e spessa.
Ora, tra le increspature della bacinella d'acqua, come soffiata dal ripetersi etereo di quella formula magica scandita dai tamburi, ride e fonde una lacrima a quella pozione che evapora: una lacrima d'inchiostro.”

sabato 14 agosto 2010

APOLLO 18


Scruto la strada, i crocicchi del mio quartiere, l'ultima volta prima del lungo viaggio.
Mi volto indietro: il tricolore sventola con insistenza, ai due lati della strada e c'è chi, sporgendosi dal gazebo, mangia prosciutto di Parma o chi ha preferito una fragrante pizza Margherita. Mio padre ha indossato anche oggi il suo ridicolo cappello da cuoco bianco, il grembiule rosso con l'effigie gloriosa di un tortellino, la cravatta verde. Io sono l'unico a sapere che, smessi quegli abiti sempre impeccabili quanto pacchiani, il suo viso porta i solchi internazionali del tempo e i suoi occhi si celano dietro una patina di universale malinconia. Lo sapeva anche mia madre, che invece amava più di ogni altra cosa gli abiti lunghi, “coi fiori non ancora appassiti”. Se ne stava quasi sempre sulla soglia, coi capelli sciolti e un'espressione sognante. Diceva che sarebbe tornata, che tutti saremmo tornati. Invece è rimasta qui per sempre, rimpiazzata da una foto posta in quella sua stoica posizione di benvenuto, incastonata tra il poster della nazionale di calcio con la sua coppa del 2006 e la Ferrari numero 5 di Schumacher posteggiata gloriosamente sotto il podio di Monza, nel giorno del suo addio alle corse.
Insieme, mia madre e mio padre, incarnavano quell'essenza gloriosa del sogno sbiadito del viaggio e, come un Ulisse a due teste mai rimpatriato, colmavano i loro flutti d'assenza materializzando falsi ricordi del loro paese natale: ingannavano l'oblio, partorendo simboli e attaccandoli alla parete, il vuoto, lasciando vorticare dischi nei mangianastri e inondando le strade di quei frammenti musicali della loro lingua, la loro felicità tutta americana, parlandomi in un chimerico idioma italo-americano.
Da solo, mio padre è un automatismo etereo e spettrale, che recita esattamente la sua parte, storpia il suo americano, ormai fluente, con un evocativo e fasullo accento siciliano, suona il mandolino, elargisce sorrisi bonari. Alla sera, però, sale sulla sua Chevrolet Impala, sfreccia su Broadway, da buon statunitense sorpassa sulla destra e si gode l'ennesimo stereotipo, a stelle e strisce questa volta, la pace di una casetta a due piani a Brooklyn, circondata ai quattro lati da un prato d'erba soffice, il baccano di una partita di baseball e il sapore untuoso di un cheeseburger col bacon.
Io non sono così.
Io “giù” non ci sono mai stato e conservo in me, per quel paese che suona mandolini, quel silenzio interno che mi è capitato di ascoltare solo nelle chiese o in quei luoghi a tal punto grandiosi da produrre rarefazioni atmosferiche e acquifere profondità negli occhi: è un silenzio spesso, che si lascia cullare tra estraneità e paradossale inclusione.
Osservo il mio cielo: si addormenta anche questa sera in quella nitida foschia che esala l'Hudson. Le saracinesche si abbassano e tentennano le posate. La gente va, raccolta in fiumare, sui marciapiedi. Non si sa dove vadano le persone a New York, ma per una sorta di imperativo sanguigno e genetico, vanno. Si riflettono in file di grattacieli neri e in essi si deformano e si contraggono, sino a formare una marea umana, un mondo sommerso, fermo, almeno per un'istantanea di tempo.
In Italia non penso che il tempo vada così. Lo sento andare all'unisono con quella che ritengo essere la mia impronta a stivale: io non marcio, non corro. Cerco luoghi piatti e soavi colline, senza punte, senza acuti. I miei sogni non hanno niente della frenesia dei fastfood, delle auto lunghe, delle luci psichedeliche di Times Square; i miei paesaggi non hanno l'immensità dei deserti Navajo, il fragore dell'oceano, l'elevazione dei geyser di Yellowstone, l'asperità dell'Alaska... o forse amo il dinamismo e i dettagli, ma solo se sfumati da una dimensione sopraelevata, placida, ferma... voglio l'Italia, solo perché mi ha escluso, solo perché non c'è stata se non in frammenti lontani, sbiaditi, ideali. E perché in Italia la gente non cammina, ma osserva, con quegli occhi tesi all'orizzonte che aveva mia madre.
In Italia il cielo non avrà questa ambiguità: qui sembra sempre che se ne debba andare, risucchiato dai vapori dell'oceano, enucleato dei colori netti, come un feto nascosto nel suo liquido amniotico, lasciato galleggiare nella sua infinita potenzialità. Là sarà di un azzurro univoco, spesso, un eccesso di colore su una tela.
Il mio sarà un viaggio al contrario. I miei genitori sono arrivati qui per avere, io desidero solo perdere i miei simulacri.
E perderò del tutto i miei dettagli di adesso, mi contrarrò nella mia origine. Penserò di tornare. Ma so che non ritornerò. Come mia madre.
Simili, dissimili. Chi si espande, chi si contrae. In ogni caso l'occhio reagisce nel medesimo modo, che si perda tra confini inesistenti o si concentri su un dettaglio microscopico: perde la messa a fuoco, vede dileguarsi i contorni della realtà, si abbandona in una massa monocromatica, compenetra la profonda unità di tutte le cose. E allora non è vero che “dove l'aria è popolare c'è più spazio per sognare”, perché il sogno non nasce dalla mancanza. E' la mancanza che nasce dove c'è un sogno, per poterlo concepire in eterno.
Faccio un cenno all'autista: ho affittato una limousine per l'aeroporto, perché il mio sogno non è l'America, non è l'Italia, è il viaggio, la sospensione sopra il cielo fosco e il cielo nitido, la partenza.
E questa partenza deve essere perfetta. All'antenna ho fatto attaccare un tricolore e il mio cocktail di benvenuto è un ottimo prosecco.
Allungo le gambe, mi stendo. Lascio Little Italy, le bandierine, l'odore di spaghetti, i menù turistici, il singhiozzo della radiolina che trasmette Roma-Lazio, il sorriso di tanti miei coetanei, che mi guardano stupiti mentre mi catapulto lontano da quella certezza stereotipata, dai mandolini, dalle chitarre, da Ramazzotti, Pavarotti, dal basilico, dalle finte statue romane, dal Colosseo di plastica, dalla mozzarella di bufala.
Mio padre si toglie per un attimo il cappello da cuoco e qualcuno nota che, nel frattempo, ha perso quasi tutti i capelli. Alza il pollice, come un autentico Fonzie. Agito la mano. Gli avevo chiesto perché non tornasse, ma lui ha scosso celermente la testa e ha stretto il bancone tra le dita, con tutta la sua forza.

L'aereo è atterrato da qualche ora.
Sono venuti a prendermi con tutti gli onori.
Io finalmente mi sento felice.
Entro in quella che sarà la mia nuova casa.
Nessuno sa dove io sia veramente. Io so che sto andando davvero verso le mie origini.
E' un attimo: le vibrazioni si fanno sempre più intense, le cinture di sicurezza esercitano tutta la loro forza prensile sulla gabbia toracica, quindi lo SpaceShuttle si solleva da terra: “Apollo 18, decollo avvenuto”.
Il tempo si ferma e un candore ovattato mi sospende, senza vincoli di gravità: Cape Canaveral si allontana, come la realtà quando sfuma tra rochi strascichi di ciglia. Oltre la nitida foschia dell'Hudson, oltre il cielo d'America, sopra l'acuzie dei canyon. Eccola là, l'Italia, vista da questa distesa di crateri bianchi: una distesa compatta e piatta, abbarbicata per le sue insenature. Non parla, non suona, non emana odori. Vive il suo tempo circolare, segue la melodia dei giri di rivoluzione planetaria, sospeso nell'universo, ammantata da filari di nubi come panni di bucato scossi dal vento. Esiste, oltre tutto. La guardo e mi sembra che nei miei occhi si fonda un altro sguardo, incerato nella sua eternità: i fiori non sono ancora appassiti.

domenica 27 giugno 2010

Bianca è la quintessenza (contest BluSuBianco)


Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi.
Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta:
prenderei la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del cervello o nella gola;
scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero il foglio, ci resterebbero attaccate
con tutto quello che si portano dietro.
E’ il potere della pagina bianca, credo.
Ti risucchia e ti libera: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
“Allora?” mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.
“Preferirei di no”.

Lui vuole parole. E' fatto così.
Ma io non ho scritto stanotte e neanche stamattina. Non ho finito il romanzo. Non so dirgli perché non voglio finirlo.
Lui mi scruta a fondo. Non è un cattivo uomo. Semplicemente: non capisce. Non capisce dove non ci sono parole, per lui non esistono spazi bianchi, scossi dal vento. Per lui esistono i dettagli, non le sfumature.
“Ti serve solo un foglio bianco, sono convinto che me lo potresti scrivere anche qui, adesso. Così mando tutto alla grafica.”
La grafica ingoierebbe le parole, ordinerebbe i paragrafi, sigillerebbe i fogli in una risma. Tempo, ordine, una pagina dopo l'altra.
Se avessi un foglio bianco, lo poserei sul volto dei miei personaggi, che ho abituato ad essere un'andatura bizzarra o un nichilismo mondano o un dramma esoterico. Indossano il loro volto, con i suoi fulcri difettosi e ogni pagina li immortala, con una frase, un discorso diretto o un monologo eterno.
Sono chiusi nel libro.
Camminano per quei crocicchi nebbiosi, sanno quando tornano le rondini, quando si posa la neve, quando i semi diventano papaveri, vivono con discrezione il loro tempo, confidenti che ripeterò i cicli, con un ordine rassicurante, indissolubile. Per quei medesimi cicli, per cui permetto loro di cambiare i vestiti, di provare una sensazione di rinascita in primavera o una nostalgia silenziosa e mortale d'inverno, mi chiamano Dio.
Non sanno di quell'ultima pagina, della copertina rigida che li incastonerà in un'ibernazione senza fine, con le labbra schiuse in un perenne sorriso o in uno sguardo malinconico verso l'infinito. Non sanno che si cristallizzeranno con in mente un ricordo e quale pena eterna sarà l'immobilità di quel pensiero.
O meglio, lo sanno, ogni loro tremore è dedicato alla morte, ma evitano di pensarci, sanno che fa parte dei cicli. E in fondo, da buoni personaggi, non riescono a immaginare la scenografia vuota dei loro passi, l'orizzonte senza i loro occhi, il boato di una tempesta senza le loro orecchie. Sanno che Dio vive attraverso di loro. Non sanno che Dio vuole sempre altre esperienze, nuovi libri.
Se avessi un foglio bianco, lo stenderei sui loro corpi. No, non è un gesto mortuario, non è una copertura. Si sbagliano. E' solo una cancellazione, un dolcissimo oblio.
“Ma perché dici queste cose?”, mi chiede, facendo sobbalzare gli zigomi del suo volto grassoccio, vibrando i mustacchi castani, rimpicciolendo gli occhi porcini. Questa è in lui l'espressione della disperazione, un congegno mimico ben definito, punto per punto.
Loro non sanno quando sono nati e perché. Ho dato loro in dote un passato, affondato in gesti sfocati: per alcuni è un'oasi fertile, piena di datteri, un luogo perduto; per altri è un padre che li ha abbandonati, una madre che li ha rifiutati, o la piccola violenza di un gesto quotidiano. Quale che sia, li ho legati a quel passato, l'ho messo al centro del loro essere. Ho bisogno che credano che sia importantissimo: ne ho bisogno perché la storia abbia un senso. Quel passato é di loro proprietà come lo può essere una protesi, che condiziona la marcia, la rende meccanica, la dirige, la limita. La conduce esattamente là dove voglio che vada. E' la loro ancora e da allora la loro navigazione è un girovagare infinito intorno ad un perno, punto per punto equidistante dalla loro scia.
Se avessi un foglio bianco, glielo adagerei sugli occhi, lo fonderei con le loro labbra. Nessuna scritta, nessun nome, nessun ricordo.
Bianco, com'era prima. Senza copertina, senza numerazione delle pagine. Bianco e basta.
Non nati, non morti. Ci sarebbero, come effigi sacre su un campo oscuro, come rilievi sui negativi. Non annasperebbero per recuperare l'ancora, ogni volta. Guarderebbero la spuma della scia, l'ampiezza della loro circumnavigazione, odorerebbero le alghe adese in poppa, carezzerebbero il susseguirsi dei porti, lo spessore del manto dell'acqua, la linea del sole sui flutti. Nel loro girare perpetuo intorno a se stessi, godrebbero delle cose che ho loro elargito, osserverebbero il legame con il centro, carpirebbero il mistero. Comprenderebbero che la navigazione non ha origine se non la meta, la quadratura del cerchio, o meglio, il ricongiungimento con la partenza.
“Ma cosa ti viene in mente?”, m'interrompe.
L'ho vista.
“Hai visto chi?”
La verità.
Strabuzza gli occhi, inumidisce col fiato gli occhiali, li pulisce con la manica della camicia.
Ho visto il foglio bianco. Ho visto la trama. La semplice trama.
“E dunque?”
Non aveva un nome. Nessuno scrittore si era curato di darglielo. Le avevano lasciato una casetta di legno, per ripararsi dall'inverno. Una casetta di quelle che danno l'idea di voler includere ed escludere, allo stesso tempo, un simbolo ambiguo, un utero senza corpo. Le lasciavano ogni giorno una ciotola piena di cibo a buon prezzo, di quello che non si riserverebbe al proprio animale, ma sufficiente a spandere calore nelle articolazioni, energia nei muscoli, legami nella mente.
Non avrebbero saputo esattamente descriverla: era una gatta bianca, insieme ad altri gatti, con una macchia nera sull'orecchio, chi può dire se fosse il destro o il sinistro?
Li guardava con malizia, senza avvicinarsi e senza troppo allontanarsi. Faceva qualche passo di corsa, si stirava, si affilava le unghie su un tronco, faceva un'altra corsa, riducendo il raggio della distanza. Mostrava impaziente ciò che sapeva fare, con eleganza. Ma loro, a quel punto, dicevano “ciao”.
Era una gattina qualunque, col naso rosa.
Una gattina qualunque con un segreto. Non mangiava mai quel cibo che veniva elargito alla sua colonia di gatti. Attraversava la strada, quando calava la sera, quando il paese si svuotava e l'aria diventava meno densa, s'infilava sotto le inferriate del cimitero vecchio, odorava le bacche rosse della pianta all'ingresso, s'inebriava di quel profumo di gelsomini. Il cimitero era un giardino proibito, carezzava con la zampa le fotografie sulle lapide, mangiava l'edera rampicante che avvolgeva una cappella dissestata. Infine andava là, sotto la siepe, ai confini del prato. Di quella siepe non aveva alcun ricordo, ma era la siepe sotto cui era nata, la prima siepe sotto la quale era stata nascosta per lei e solo per lei una tazza di latte. Da allora quel cibo ha continuato ad esistere, con la costanza di un'elargizione invisibile di fronte a un piatto svuotato sera dopo sera, come una madre vacua, eterica, eppure spessa, fitta di silenzi notturni.
Quella madre osservava, ogni mattina, l'impronta del suo feto sconosciuto: era una sagoma vuota in un vaso di anemoni. Aveva le forme del suo sonno, la lunghezza dei suoi arti, la distensione del suo volto. Aveva il paradosso di una vita che continuava a ritirarsi nella sua gestazione, in quel sacco amniotico che era il vaso, adiacente a quel cordone ombelicale che era il sottovaso adibito a ciotola, in mezzo alle lapidi. Nessuna definizione, nessuna conoscenza, solo un'impronta.
“Questo non c'entra con il romanzo...”, borbotta, mentre accende la pipa.
Lei era un foglio bianco sulla strada nera, stamattina, all'alba. L'ho riconosciuta per quella macchia sull'orecchio, non saprei dire se il destro o il sinistro.
Un foglio bianco e immobile, rannicchiato per sempre vicino alla sua origine.
Gli anemoni si risollevavano, chiudevano la sagoma, la dileguavano. La liberavano. Cancellavano il segno del suo passaggio.
Pochi minuti. Alla mia uscita, il foglio bianco era sparito. C'era solo la strada nera, macchiata di sangue.
Sono andata via con una strana sensazione. Che il mio feto fosse finalmente nato, avesse rotto le acque, macchiato il lenzuolo. Solo allora che, come un foglio bianco, per un attimo, inaspettata, l'avevo vista, senza averla prima immaginata o progettata.
Mi guarda, apre le labbra.
“Mi dispiace”, mi dice.
Non è un cattivo uomo. Semplicemente: non capisce.
“Allora se avessi un foglio bianco scriveresti questo?”
Se avessi un foglio bianco, prenderei la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del cervello o nella gola.
Scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero il foglio.
“Allora?”, mi ripete.
Sporcherebbero il foglio, gli ripeto. Quel foglio bianco sulla strada nera, rannicchiato vicino alla sua origine, che oggi, invece, voglio che sia soltanto il suo. E' il momento giusto, mi ripeto.

martedì 18 maggio 2010

Shadow city

Salgo ad una ad una le scale, carezzando i muri, che non hanno perso, tuttavia, il loro candore, anche se al minimo sospiro paiono sfaldarsi.
Il grande salone ha i pavimenti in legno d'ebano. E' rettangolare più d'ogni rettangolo archetipico, il soffitto a cassettoni di mogano. Sulla parete sud, rivolta verso l'oceano, è incassato un camino bianco in muratura. Sulla parete nord, simmetricamente al camino, avevo fatto disegnare la sagoma eterea di un orologio a muro: quell'orologio si è fermato alle ore 5,37 di tredici mercoledì fa.

D'allora più nulla, qua, s'è mosso, neanche la terra, che tanto aveva tremato.

Non oso dirlo a lei che, seduta a gambe incrociate al centro del salone, su un grande cuscino rosso porpora, bello imbottito, mi attende. Anche lei pare non essersi mai più mossa. Appare incerata nel silenzio fatiscente del municipio diroccato e senza finestre, sfiorato appena dal muggito dell'oceano croceo, che solitario respira, come il ricordo di un'esistenza lontana. Non oso dirle che, falcidiato dal sopore della città che dorme, mi trovo a ricercare la vita nel medesimo tremore che l'ha distrutta, perché esso è stata l'ultima presenza, l'ultimo specchio del divenire sulla nostra terra.

La scacchiera è lì, al centro, incoronata dai cuscini color porpora, integrità tra frammenti di carta e cristallo.
Avremo luce finché ci sarà il sole.

Proprio lì, tredici mercoledì fa c'era un lungo tavolo di cristallo con un grande plastico della nostra città: la chiamavano White City, perché non aveva un elemento che non fosse bianco contro l'oceano, niente di così tangibile, materiale, aggressivo da trattenere un colore.
Ogni cosa a White City era predisposta per colorarsi secondo l'incidenza della luce: ne ricordo i profili aranciati, quando l'osservavo al tramonto da Corn Hill, le lugubri tinte violacee quando il cielo era plumbeo e consistente come un'essenza fantasmatica, nei giorni di temporale estivo, le voluttuose trasparenze dell'alba, quando il divenire enigmatico del giorno sui flutti dell'oceano annientava la materia e la scioglieva: allora l'intonaco delle case, chiuse nel loro anfratto di costa limitato da due scogliere simmetriche colonizzate di leoni marini, pareva liquefarsi ed evaporare sopra i comignoli. Non si poteva chiamare nebbia, quella evaporazione, perché non nascondeva le cose, bensì le restituiva di un'altra natura, eterea, spirituale, di un altro mondo.
Lei dice che l'alba s'è conservata della medesima consistenza e che all'alba la città continua a non esserci, adesso come allora.
Dice che, adesso come allora, si scarcera e si eleva. I pruni e i mirti, sulle colline, la fanno veleggiare sulle loro esalazioni, ogni cosa, dalla pietra, al leone di mare, alla sabbia dell'oceano, al granello d'asfalto diventa un respiro collettivo, un grande e regale spettro.

Ma lei è fatta così. Dice tante cose. Le dimentica. Le nega. Le riafferma.

Mi siedo di fronte a lei.
Le sue pedine sono quei pezzi che il grande plastico, frantumandosi, ha abortito. Sono i suoi pezzi bianchi: li riserva a se stessa, come un incontrastato simbolo del Bene.
Oggi è il primo mercoledì in cui il cielo pare un po' meno scuro e impregnato dalla fuliggine.
“Sei in ritardo.”, mi sussurra con aria grave.
Ma so che non si riferisce a questa sera. So che mi rimprovera di non esserci stato, l'alba di tredici mercoledì fa. So che me lo rimprovererà sempre, per quella sua attitudine, che ha conservato dall'infanzia, a considerare l'assenza una forza tragica e dirompente, in grado di distruggere le cose. So anche che, nell'intimo dei suoi sogni, mi ritiene responsabile della catastrofe.
Si tiene appigliata alle sue pedine bianche con una caparbia speranza. Vuole che sia io a ricostruire la città bianca che non c'è più.
“Sei l'architetto migliore del mondo”, mi dice anche oggi, per ricordarmi il perché di quella convocazione.

Il nostro gioco è in realtà, sempre lo stesso. Si ripete, nel silenzio surreale.
Da tredici mercoledì non vediamo la pioggia. Le nostre nubi sono state solo nubi di fuliggine.
“Hai visto?”, mi dice, mentre mi indica delle nuvole gravi, spesse, che dall'orizzonte incedono sul mare e, trafitte da una coltre radente di luce, si fanno d'un grigio luminescente, quasi aureo.
Lei non è più la donna che era. Gli occhi sono una patina spenta e le mani non hanno mai smesso di tremare da allora. Ogni tratto di lei sembra ancorato a trattenere qualcosa della catastrofe, come un'estrema difesa contro il nulla. Ogni espressione in lei è una lapide che vuole conservare, incensare, adorare.
Sembra aver perso qualsiasi forma di fascinazione per le cose vive ed essersi votata ad un assurdo culto dell'assenza.

E così non posso che attendere questo nostro mercoledì.
Il resto della settimana è come una massa di tempo virtuale e contratto, che non ritiene all'altezza di essere vissuto. E' solo il tramite per ogni mercoledì successivo, per la celebrazione maniacale del lutto totalizzante, informe, spettrale. Il resto della settimana non mi è dato di vederla. Non so dove vada né cosa faccia. So per certo che tutta la sua mente è tesa alla ricostruzione. Ricordare, ricordare, ricordare, questo è il suo imperativo.
Ogni mercoledì vuole essere certa di aggiungere qualcosa, foss'anche un piccolo dettaglio della vita della città bianca che non c'è più: può essere un decoro sulla parete della scuola, un dipinto del museo, la particolare forma di una mensola della libreria comunale, un'aiuola di fiori rampicanti appesa alla testa di un lampione. Può essere un riflesso della pavimentazione del lungomare, che interamente era stato impregnato delle conchiglie a colori cangianti del nostro oceano. Può essere la pianta rampicante che s'intrecciava lungo le pareti della lanterna e sorbiva i flutti della scogliera.
Lo aggiunge lì, sugli elementi del plastico. Ha acquistato dei colori fini, per restituire all'anonimato delle case in miniatura la loro anima.

E' in grado di utilizzare alla perfezione lo spazio esiguo della scacchiera e ogni mercoledì, quando il sole, tramontando, ci lascia nell'oscurità, la città bianca riluce ordinata sul pavimento, come un fantasma. Ci allontaniamo in silenzio, lei talora cammina in punta di piedi, quasi non volesse svegliare il suo feticcio e io ho davvero l'impressione che lo metta a dormire dentro di sé. Dopo aver completato questo rito, qualcosa in lei si placa, la tensione dei muscoli si allenta, lo sguardo allucinato si spegne. Anch'io posso sparire, dileguarmi nelle strade nere, come se non fossi mai esistito.
E io so che non mi chiede davvero di ricostruire la città, ma di essere un testimone della sua assenza, un sacerdote che benedice all'infinito un'estrema chiusura e rende inesauribile la funzione.
Ecco perché ho le pedine nere.

“La nostra nuova città si chiamerà Shadow City”, ha deciso.

Certo, Shadow City, la città ombra: ho tanti pedoni neri, amorfi, quanti sono gli edifici bianchi che lei con precisione decora. Per ogni suo posizionamento bianco, deve essercene uno mio nero. Per ogni elemento, proprio come in una città reale, deve esistere un'ombra, un alter ego, una controparte immateriale.

Ora che la materia bianca si è sgretolata ed è diventata spirito, vuole che il nero sia la nuova pietra. Nera dev'essere la città, neri devono essere i muri, i marciapiedi, le case, i belvedere. E devono sorgere proprio laddove una volta si allungavano le ombre degli edifici della città bianca, come un monito perpetuo al ricordo. Shadow City ha già in sé tutta una vocazione a non esistere, a sbiadirsi, a vivere della luce riflessa di ciò che è stato e non sarà mai più.
Questa è l'unica condizione che mi ha posto.
Prima di ricostruire, però, vuole essere certa di aver ricordato tutto, ma proprio tutto di White City, cosicché io possa studiare l'esatto profilo delle ombre e non commettere errori.

“Come stai?”, le chiedo, sfiorandole la mano.
“Aah...”, mi risponde.
Non sta in nessun modo, non vuole sapere come sta, è solo un contenitore senza fondo di luoghi passati.
Mi ricordo di un ritratto che le aveva fatto un artista sul belvedere, quando aveva quindici anni: l'aveva disegnata col viso avvolto da un velo trasparente. Lei gli aveva chiesto stupita il perché e il ragazzo, un ragazzo che allora ci sembrava grandissimo e che non posso fare a meno di ricordare con indosso una giacca di velluto marrone e una testa di riccioli castani, aveva risposto: “Perché per adesso non sei ancora nata. Quando sarai cresciuta, il tuo viso sarà definito, senza velo. Ora puoi essere qualsiasi cosa.” Lei se n'era andata non molto contenta di essere stata avvolta in quei confini nebulosi ed io, mi ricordo, invece, l'avevo invidiata tantissimo: quel ritratto mi pareva l'assegnazione di una libertà sconfinata di essere e di esistere. Era qualcosa di simile al mio concetto di bellezza, che tuttavia non avevo ancora formulato in modo razionale dentro di me. Eppure ne ero già fatalmente affascinato, proprio come ero affascinato dalla coltre di luce che all'alba faceva sparire White City e dai riflessi cangianti che il bianco catturava. Bianco era il velo, bianca la mia città, bianco, etereo il volto di lei. Bianco era tutto ciò che amavo.

Osservandola mi sembra che abbia indossato di nuovo quel velo. Che lo indosserà per sempre. Che qualcosa di splendidamente regressivo e primordiale l'abbia rapita e che esista come un essere di un'altra qualità, straordinariamente non individuale. So che lei non ci sarà mai più, perché ormai è ovunque, proprio come ci immaginiamo che sia la morte, un essere sempre, ovunque. Ma per qualche strano motivo questo sentore mi rende quieto e sicuro.
“Oggi non tocca a me il nero”, le dico, conoscendo già la risposta.
“Le tengo, io”, mi dice, “perché nulla deve essere ricostruito sulle fondamenta.”.
Sa che, se avessi in mano i pezzi fantasma, non saprei trattenermi dal far riemergere rassicurante la materia lì dove ora c'è il vuoto.
Posiziona per prima la sua casa, al centro.
Prende un pennarello azzurro, mi guarda.
“Dai!”
E giù il primo pedone nero.
Il pennarello azzurro indugia sui particolari che non si riescono a intagliare sulla plastica.
“Queste erano le persiane... te le ricordi? Mio padre le verniciava una volta l'anno, con quell'intonaco azzurro... quando, svegliandomi, sentivo l'odore della vernice, sapevo che era ritornata l'estate... che per un po' non sarebbe piovuto.”
Me le ricordo... mi ricordo che le hai lasciate chiuse per tanto tempo, dopo che tuo padre se n'è andato, e che ti sei scordata di verniciarle per tante e tante estati. Ma oggi non ha importanza: tu vuoi ricordare ogni cosa che c'è stata e il prima e il poi sono dettagli in mezzo alle crepe.

“Questo era lo steccato... qui c'era quella siepe di more... non le lavavamo mai, anche se tante volte sapevano di salsedine... però erano buone lo stesso...”
Erano buone, buonissime, le tue more, Caterina.
Vorrei dirti di quante volte le ho rubate la notte, quando indugiavo sul molo e ti guardavo dalla finestra, con quell'assurda pretesa che hanno gli innamorati di avere l'oggetto del loro amore sottraendo loro qualche microscopico dettaglio.
Ma neanche adesso oso dirtelo. Io non ci sono mai stato, e tu vuoi ricordare solo ciò che è stato, vuoi solo le ombre delle cose, solo le lapidi.

“E Jack ci correva a salutare.”
Già, Jack, aveva due orecchie pendule, di uno strano colore, un po' aranciato. Era il cane più ridicolo che avessi mai visto. Non so che fine abbia fatto. Mi sento di mettere un'altra ombra, solo per lui, sulla scacchiera, perché di certo non si esime dai riti di saluto, ogniqualvolta ci streghiamo mentre accarezziamo i pezzi del suo steccato azzurro.
Prende la torre e la mette laggiù, all'angolo est della città, a picco sull'oceano.

“Qui c'era il cimitero, il cimitero bianco.”
So dove vuole che metta l'ombra: accanto a una lapide bianca e solitaria sulla spiaggia, investita dalle onde e rivolto verso est. Questo vuoto c'è sempre stato, perciò lo ricordi, con una strana consistenza, velata di rabbia. Dici che ti sei specchiata sempre in quella foto, che era la più bella foto che avessi di lei, quella che ti rassomigliava di più. Ma io credo che quella foto ti piacesse perché, a dispetto della sua perpetua assenza, c'era sempre, eterna, rassicurante, volta verso l'alba, resa viva dal ritmo dell'onda, che la sfiorava col suo andirivieni, come un respiro.
Ed è così che vuoi che ti costruisca la tua nuova città: nera, eterna, rassicurante, volta verso l'alba.
Caterina mi guarda e sorride con gratitudine: sa che lo so.
Quanto è appassita la sua bellezza! Forse per non fare torto a chi è sparito nelle crepe della terra? Da tempo non si trucca più, da innumerevoli mercoledì porta i capelli raccolti in una coda d'ordinanza.

Posiziona un edificio, lassù sulla collina e, con un pennarello verde, scrive: “Elementary School”.
“Era faticosa la salita...”
Sì, era faticosa almeno quanto era liberatoria la discesa. Correvi giù per la strada non asfaltata, sempre un po' sghemba nascosta dietro la tua grossa cartella. Io raccoglievo, paziente, i pezzi, perché tu, nella foga della campanella ti dimenticavi almeno una volta su due di chiudere lo zaino. La maestra Margaret, dietro i suoi occhiali bordati di grigio, lo diceva sempre che avresti perso anche la testa, una volta o l'altra.
Posiziono, sicuro, una torre nera.
“Hai fame?”, mi sussurra.
Annuisco. So dove vuole andare: nella pasticceria a Corner Street, nascosta sotto le fronde di un salice: fanno sempre dei dolci buonissimi. Muove le dita sulla scacchiera sino a raggiungerla. Prenderemo come sempre tre muffin all'albicocca appena sfornati: ne prende tre per fingere di averne solo uno e mezzo, ma senza accorgersene ne mangia sempre almeno due e forse qualcosa di più.
Una regina nera qui ci sta a pennello.

“Oggi dice che ricorda ogni cosa.”, afferma, mentre posiziona un grosso edificio rettangolare, all'apice ovest della collina.
I suoi ricordi sono i racconti polverosi più belli delle nostre sere d'estate: lui, il pezzo secolare della nostra scacchiera, non aveva un nome. C'era sempre stato, arrivava con un carretto un po' arrugginito, pieno di libri e si metteva a raccontare: noi lo chiamavamo il cantastorie, anche se qualcuno diceva che si facesse chiamare Homer... come Omero.
Tutti lo festeggiavano quando, in primavera, tornava da altri lidi.
Negli ultimi tempi lo andavamo a trovare lassù, nel grosso edificio bianco, con la sua borsa di libri, che aveva lasciato in pegno alla vecchia biblioteca comunale.
Ricordava ormai poco e le trame delle sue storie, che conoscevamo a memoria da innumerevoli anni, intrecciandosi nelle sue falle di coscienza, erano diventate storie nuove, nebulose, surreali. Ce le raccontava con lo sguardo vuoto, sprofondato nel suo letto diafano dell'ospedale. Ma ce le raccontava, sempre e comunque perché, come diceva lui, non si può vivere senza avere una storia.
Posiziono un cavallo nero.
Prende i pezzi della strada, sul plastico, e li fa scorrere sulla scacchiera. Quei pezzi si snodano tra tutte le case bianche che non conosciamo e che la plastica, liscia come non mai, lascia bianche.

“Ti ricordi Lisa?”
Sì, me la ricordo Lisa. Era la ragazza del lungomare: col suo Ipod cantava canzoni per addormentare il suo feto, mentre lei, in netto contrasto, correva lentamente: ci teneva a mantenersi in forma.
Le avevamo chiesto se non dormisse già sempre, un feto nella pancia. Lei ci aveva risposto che voleva che imparasse da subito a distinguere il giorno dalla notte, il bianco dal nero.
Non so se posso mettere un'ombra nera anche per lui. Ma, poi, pensando a quanto s'è allenato, per ben otto mesi, a distinguere il nero dal bianco, mi convinco di sì e neanche Caterina sembra avere nulla da ridire in proposito.

Guardiamo la nostra città, bianca e nera, le cose che ci saranno, quelle che non ci saranno mai più, quelle che non hanno fatto in tempo ad esserci. Speculari s'intrecciano, come le illusioni di una Gestalt, come luci ed ombre. Ma entrambe, con una certa caparbia speranza, identica a quella che ravvedo negli occhi di Caterina, ci sono e svettano in un essere vacuo e malfermo, in attesa di plasmarsi, nella presenza o nell'assenza, al cospetto della nostra finestra sopraelevata e appannata, che proviamo a spannare.
Metto un'ombra anche per quella finestra, che tante volte, nei pomeriggi di pioggia, era stata la nostra scacchiera e su cui avevamo disegnato, con le dita ondeggianti sulla pioggia, la nostra città. Già, oggi, per la prima volta da allora, un tuono annuncia la pioggia.
Mi porge la mano. Vuole il re e la regina.
Laggiù, sull'angolo ovest, vicino alla scogliera, c'è uno spazio libero, dacché me lo posso ricordare.
Li mette lì, rigidi e fieri, uno accanto all'altro, lo sguardo verso ovest, verso il tramonto.

“So che faranno un ottimo lavoro.”, dice.
E scribacchia su uno dei fogli, gettati alla rinfusa sul pavimento:
“Dissero che i tempi erano terminati. Io, da quest'apice sommerso, dico: nontiscordardime.”

Bianco come il catrame (dal contest letterario Blusubianco)

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora: infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsanuova sul ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla stanza. Va a sedersi davanti allo specchio.E’ bella, oggi; sembra quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può girarsi, raggiungere il letto.Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida.Va all’armadio e cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono anche se è lì, sul comodino.
Non c'è una stampella libera, nota con disappunto.
Ogni cosa giace simmetrica, sino ad occupare, nel modo più funzionale possibile, ogni legittimo spazio del grande armadio bianco. Anche lo spazio immaginario è soffocato da cassettiere aggiuntive e, nelle stesse, spazi divisori si sono presi un'ulteriore rivincita contro il caos.
Chiude la finestra, per riparare la stanza dalla brezza e dal brontolio arrugginito del vaporetto, in partenza, dal porto fluviale. L'osserva andar via da quello spazio insonorizzato, come un quadro che si liquefa, distrattamente, su una tela. Il paesaggio fuori è ora ricomposto, la schiuma della barcarola rinchiusa in onde parallele, un raggio di sole, il primo dell'alba, filtra tra le foglie di una betulla. Respira.
Guarda le pareti bianche, l'orchidea bianca nel suo vaso sulla specchiera di betulla, abbassa le tende ricamate, si stende sul letto dal copriletto bianco. In quello spazio immacolato rimane assorta, rivede la sua immagine nello specchio. Certo, è bella, è bella anche oggi, come se il trucco di ieri non si fosse disfatto. E in effetti nessun evento, nessuno sconvolgimento è intervenuto a interrompere la compattezza della sua nuova cipria sulla pelle pallida e lucente. Nessun vento ha scompigliato la treccia di capelli biondi e sottili. Nessun incanto, nessun sussurro le si è insinuato nelle piccole orecchie rotonde. Si accarezza il collo, ricerca la sua voglia a forma di fragola. Dovrebbe farsela togliere, pensa.
Parrebbe soddisfatta, ma si volta verso la cassettiera e ancora la ritrova lì, la camicia bianca: che stupida, ripete ancora a se stessa, per averla dimenticata un'altra volta. Allunga il braccio e ancora accarezza il colletto. Sembrerebbe volerlo lisciare, com'è suo solito, quando deve indossare un abito con così tante, insidiose pieghe. Lei stessa finge che questo sia il suo scopo. Eppure le sue mani indugiano sulla stoffa, s'incrinano nelle asole, stringono il pugno impercettibilmente sul bavero, roteano sulle rotondità dei bottoni.
La camicia si stropiccia, a poco a poco, sotto il tocco di quella mano che agisce come un organo a sé, automatizzato, staccato dal resto del corpo. Nel suo pugno i lembi si sfiorano, sino a formare un ventaglio. Nell'atmosfera colonizzata dalle fragranze di un detersivo alla lavanda, s'asperge dell'odore di quella camicia. Lo sente, ma sempre con quella mano, che pare essersi dotata di tutto un suo apparato percettivo.
Il resto di lei è riflesso come un tubo rigido, un'ombra immobile sul soffitto bianco. Lo respira, quell'odore, sa di vento, di quelli che arrivano da nord e spirano vociferazioni fredde in una giornata temperata. La mano s'infila nella manica, l'accarezza dall'interno. La mano si sente, come un'essenza pesante, lambire un altro luogo, un'altra vita. Si sente, nascosta entro quella manica, come il vento stesso, che di nascosto plasma le forme, le gonfia, le scaglia e le rilascia lontano. La mano si sente, come corpo sottile. La camicia si solleva, fa un vortice nell'aria, si riabbassa, serpeggia sul copriletto, La camicia può ricordare, ora, i movimenti che ha compiuto e quelli che ha solo immaginato. La camicia può pensarsi, investita dai flutti sollevati dal vaporetto. Sa di acque fluviali e di un percorso verso un delta caotico che si affaccia su due mari. Forse qualcuno la abbraccia, un'altra camicia. Un altro vento. La camicia sa che c'è stato un prima. Perciò è di un altro bianco, rispetto ad ogni bianco della stanza. Ma lei non lo sa, lei non la osserva. Che stupida, si ripete. Quella camicia non deve star lì. Si alza di scatto, con un filo d'irritazione che le schiude la bocca e le schiaccia le narici. Ritorna al cospetto dell'armadio. I ripiani sono pieni. Pieni zeppi di cose nuove, intonse, impilate. Scruta dal basso il profilo rettangolare della sua borsa nuova. E' bella, è di pelle e della pelle nuova emana l'odore. Dentro, palline di carta velina ne foggiano il profilo con fierezza.
Eppure basterebbe girarsi, per vedere. Per vedere che quella camicia da tempo non è stata lavata, perciò è una macchia bianca su un copriletto più bianco. Una macchia che giace senza posto sull'altra piazza del letto, come un monito, come un compagno. Basterebbe girarsi, per sentire, per sentirsi. Per sentirsi muta nello spazio insonorizzato e inerte, sopraelevata in quella guglia affacciata su uno scorcio di ciminiere. Su quelle ciminiere sono tornati, ancora una volta, i gabbiani: disegnano cerchi concentrici che si restringono, ad ogni disperato giro su se stessi, verso il loro centro e urlano la loro caduta, sul fiume nero di catrame.
Ma qui tutto è bianco. Le finestre sono bianche, le tende sono bianche e i loro intagli schermano parte della visuale e si lasciano trasportare sui rami frondosi di quell'unica betulla, che svetta tra i fumi e forse inspirando il suo desiderio dell'altra lontana riva, con una forza rituale li assorbe e li cancella.
Guardala quella camicia.
Quella camicia è il caos. Quella camicia cambia tutto. L'ultima volta, le viene in mente. Si ripete questa locuzione. L'ultima volta. L'ultima volta è già avvenuta o ancora deve avvenire?
Guardala quella camicia.
L'ultima volta che ha guardato qualcosa sapendo di lasciarla andar via per sempre... quella volta non c'è stata. Non sa immaginare come possa essere, lambire i contorni delle cose, delinearne la forma, per poi ricordarla nell'assenza, cingerli con le braccia, soffiarli indistintamente con le labbra, chiuderli dentro gli occhi.
Osserva il pallore della sua stanza, le cose ferme, immobili, la sua immagine, identica nello specchio. Deve sforzarsi di non guardare il telefono di ultima generazione, che un caricabatterie mantiene in vita come un respiratore artificiale. Deve sforzarsi di non guardarlo per non sapere che nessuno ha chiamato. Si avvicina alla porta. Quella camera potrebbe essere tante cose. Immagina di consegnare le chiavi alla vecchia locandiera. Che sia l'ultima volta. Immagina il nuovo abitante di quella guglia.
Potrebbe essere uno scrittore, giunto da lontano, in cerca di quell'ispirazione per cui luoghi degradati come quello, alla fine del mondo, strano centro di contaminazione industriale, nel candore primordiale dei fiordi, trovano inaspettata la loro poesia.
Quello scrittore rimarrebbe di certo sorpreso del bianco soffocante di quelle pareti. Di certo non gli sfuggirebbe lo spessore inaudito della pittura, l'odore sempre intenso d'intonaco. Non potrebbe non notare come plurimi strati di quel colore abbiano formato dei grumi minuti che arricciano come onde quella superficie non più liscia.
Quello scrittore ha appoggiato la giacca sulla sedia. Apre la finestra e osserva il fiume nero, placido, Vede che il catrame della sciagura ha lo stesso spessore della vernice. Qualcosa è in perpetua attesa di snodarsi, di sverniciarsi. Qualcosa, come una melodia cantilenante balena sul fiume: sembrerebbero gabbiani, ma le loro ombre non hanno riflesso nelle acque scure. Nessun tempo può davvero passare, nessun ritorno può essere celebrato.
Lo scrittore guarda attentamente anche quella nuova prospettiva della stanza: c'è una camicia, sul letto. Come una macchia, provocante, se ne sta stropicciata con una certa, inconsapevole foga, di un bianco diverso, informe, caotico, vissuto. Chi gliela ha lasciata, gli ha fatto un grande favore: quella camicia cambia tutto. E' una camicia di bambino? O forse non è la camicia di qualcuno: se ne accorge dalla trama dell'ordito, non davvero perfetta e dalla lunghezza impari delle maniche, dalle asole, che non sono allineate sulla loro linea verticale. Quella camicia era un progetto. Forse era il primo lavoro, non ben riuscito, di cucito. Forse aveva voluto cominciare con una taglia più piccola, per limitare i danni sulla stoffa. La solleva, la allarga: i due lati non combaciano. Quasi che, chi l'ha cucita, abbia progressivamente ristretto il progetto: le cuciture sono nervose, arrabbiate, storte. Ogni passo d'ago s'incurva come a chiudere gli orli. Nella foga s'è dimenticata di lasciar aperta la manica. Vi mette dentro la mano e la agita, come un moncone. Qualcosa, qualcuno è morto dentro quella camicia. O forse dentro la camicia qualcosa si era ostinato a vivere caparbio e ora rimaneva lì, per il viaggiatore, angosciante, selvaggio, impregnato di sapori densi. Come un caos primitivo, enucleato dal cosmo, come una nascita universale inversa, un elemento svincolato in viaggio solitario verso l'entropia.
Forse qualcuno era stato ucciso con quella camicia e ora rimaneva lì, brandello mutilato di un delitto, colpo postumo inferto sulla vittima, Sì, forse quella era stata una comune camicia, forse qualcuno l'aveva disfatta, a colpi retrogradi d'uncinetto e l'aveva chiusa, deformata nel suo profilo. Forse qualcuno era stato ucciso, per non essere una comune camicia bianca nell'universo bianco e un eros indomito se ne impossessava segretamente, lasciandolo inerme sull'altra piazza del letto.
La stanza ora è caotica: oggetti nuovi sono sparsi sul pavimento, alla rinfusa. Le ante dell'armadio sono aperte. Lei si è sciolta la treccia. Come uno spettro la camicia giace sulla testa della lampada, sul comodino.
Apre la finestra. Ora, i piedi liberi e nudi sullo stuolo di quelle cose non nate, riesce a sentirsi. Si affaccia e prende tra l'indice e il medio una foglia di betulla. Come un'inattesa illusione, le ombre dei gabbiani ritornano sul fiume. Vorticano in cerchi concentrici, alla ricerca dell'ennesimo ritorno. Non potevano andarsene, prima di essersi ritrovati, ombre nella loro meta. L'oscurità fluisce lentamente dal fiume, come un'evaporazione densa. Sente caldo... il catrame si scioglie, ritorna nella stanza... l'intonaco sgorga via dalla parete e le onde ritornano al fiume.
Apre gli occhi. Ora può girarsi, raggiungere il letto. Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida. Che stupida a pensare di chiuderla nell'armadio.

A-mors (dal contest letterario "Blusubianco")

“Assaggia.”
Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia, così le tiene incrociate sul tavolo.
Lei gli passa il cucchiaino: sta aspettando. Ci sono tante cose da dire, adesso.
Prima di entrare in casa gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo padre avrebbe fatto lo stesso.
Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il dolce che si scioglie sulla lingua
e gli sveglia una parte del cervello che credeva addormentata.
“Lo so perché sei venuto” dice lei nello stesso momento in cui lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: “Cos’è?”
Lei lo guarda, sorride, gli prende la mano, guida ancora il cucchiaino verso le sue labbra, seduttiva ma con un certo palpabile distacco.
“Secondo te?”, gli ammicca.
Lui sorride vacuo e guarda la torta.
In ogni voluttuoso giro di panna sulla superficie, gli sembra di intravedere una supplica velata, amorfa... ma subito si plasma, quella supplica, in ogni intaglio del marzapane, in ogni sua rotondità foggiata a guisa d'un fiore pregiato, come a schiudere una simbologia di nascita contro l'assenza che lei presagisce imminente. Come un segno persistente, estetico o, forse, in fin dei conti, solo l'ennesima prigione.
Esplora ancora la torta con il cucchiaino ed è quasi un arco riflesso il protenderlo verso di lei, che però serra le labbra, prima severa, poi scoppiando in una risata forzata. Non vuole condividere la sua ultima prelibata creazione dolciaria, gli dice, quella torta è solo per lui, strato dopo strato, sino alla farcitura... dice, questa torta è una storia, un incedere di passi, fino al nucleo... è una caccia al tesoro, ogni strato è un messaggio criptato nel decoro, nell'impasto, nella base...
La osserva: è come è sempre stata, avvolta da una nube di vaghezza, due occhi leggermente strabici, non bella, eppure di un'alterità che le disegna sul volto quella nobiltà che non possiede di casta; possente, estrosa, eppure magistralmente fredda e quasi efferata, nel suo darsi e nel suo assentarsi, proprio come capita con il suo sguardo,
Primo strato: panna e chantilly sono il terreno di una coltre di nontiscordardime di marzapane. Blu su bianco, sempre fiori tra la nebbia. Affondano come note su un pentagramma, scolpiscono qualcosa. Nascono in primavera, a ciuffi e li osserva anche lì, in centrotavola, raccolti in un mazzetto ordinato, dentro quel vaso in ceramica bianco che avevano comprato al mercato delle pulci.
Nontiscordardime, violenti, intimidatori su uno strato di nebbia. Primo monito contro l'abbandono: lo sente e ne assaggia uno, perché almeno un avvertimento, delicato, sofferente scompaia dalla miriade di avvertimenti colpevolizzanti. Ne mangia un altro e un altro ancora, con aria di sfida.
Lei tace, accarezza i fiori veri, li odora, soffia contro i petali come vento lieve, loro tentennano e sembrano riplasmarsi, come d'incanto, anche sulla distesa di panna punteggiata di lacune simili a lapidi senza nome.
Rimane la nebbia, con le sue vertigini... glielo diceva sempre, lei, che ogni alba paga il suo fio alle dissolvenze della notte... e anche la sua alba, che immagina lontana da lei, ponderata, poi negata, ritrovata, per un attimo si tinge di nero.
Ma lui va oltre, deciso, verso il mezzogiorno, quando le dissolvenze diventano una stria nera sull'orizzonte, che tutti sanno essere solo il limite intrinseco della vista, non qualcosa di reale.
Lui può lasciarla, si convince.
Secondo strato: scaglie di cioccolato su una crema all'arancio. Sono punti scuri, su uno sfondo mellifluo, cardini in mezzo al nulla, il sapore definito che squarcia il languore dell'arancia sulle papille.
Lei è sempre lì, ha incrociato le palme delle mani sotto il mento e attende. I suoi occhi strabici non lo guardano mai direttamente, le mete del suo sguardo sono sempre in un altrove. Perciò si fanno seguire per i loro angoli astrusi: disegnano un aldilà imprendibile, vincolano con una divina fascinazione. Ogni cosa dritta e lineare sbiadisce, come crema all'arancio, un magma pallido e aspro, che cerca confini nelle ombre irregolari riflesse dal suo iride, simili a quelle scaglie al cioccolato, che le sue mani hanno tagliato con tanta maestria.
“Non mangi?”
Lui impugna il cucchiaino, affonda le scaglie nella crema fino a farle sparire e la rende uniforme. Vuole vincerla lui, questa partita.
Ma l'albero d'arancio l'osserva, rigoglioso nel suo vaso, fuori dalla finestra, sul terrazzo. Le foglie sono verdi e lucenti, i rami di un bruno intenso. Ogni cosa è. Ogni cosa parte da lì, da lei, torna nella torta, per lui. Ogni cosa rimane, al di là di lui, come un calco sempiterno, una forma originaria. Ogni cosa entra in lui, diviene lui, diviene il suo sapore, il suo anelito. Anche l'indefinito della crema arancio, fluttuante lì come uno spirito ammaliante dal suo futuro, appartiene a lei.
Mangia ancora, lecca il cucchiaino, trova le scaglie al cioccolato, i loro spigoli amari e fondenti.
“Fai ogni cosa come tuo padre.”, gli sussurra, accarezzandogli le orecchie col dorso delle mani.
Glielo dice sempre, ma la sua voce rimane sospesa in un Limbo, le parole scandite senza alcuna vibrazione e lui non sa se ritenerle un rimprovero sprezzante o il luogo dove l'eterno, intrappolato nelle rotazioni del DNA, si può placidamente ripetere, come un rito sbiadito presso un altare.
Non se lo ricorda suo padre. Per forza: se n'è andato, ha abbandonato sua madre, che pure sempre lo rivede nei suoi gesti. Così non sa se potrà o non potrà fare lo stesso.
Terzo strato: una crema densa, bianca, come midollo.
E' la chiave.
Il bianco ha il coraggio di non essere, raccoglie ogni frequenza della luce, la prende e l'annulla in sé. E' tra tutti il colore più potente. Nel bianco ogni cosa si apre e si chiude e, silente, si dilegua.
In quella crema bianca affonda ancora il cucchiaino. La assaggia, ha un sapore agro. Sembra risvegliare in lui quella parte del cervello che si era addormentata.
Lei è immobile, vestita di bianco, come una vestale ad una cerimonia di iniziazione. Lei, l'arancio, i fiori, la stanza sono immagini che, sfumando, si affrontano come carte sbiadite, cadono, si uniscono, formano una strada. Lei non può essere lasciata, perché è in ogni cosa, anche nella strada medesima che, traslucida, gli obnubila i sensi, gli toglie il respiro, irrigidisce i tratti, gela le labbra, accelera a girovaghe intermittenze il suo battito cardiaco e poi lo placa. Come una sposa lo conduce sui campi desolati di nontiscordardime, cammina sulla nebbia, accosta gli opposti e li nullifica. Lo conduce al suo dolce ritorno.
Non può lasciarla.
Perché? Cos'è?
Lei è il nucleo.
Lei è la farcitura.
Ora lo sa: lei è il veleno.

Amo lei perché amo te.


Cammino dietro di te.
Talvolta capita che ci salutiamo, di sfuggita. Vedo che non ci fai caso.
Conosco i tuoi luoghi più prosastici, così come i tuoi apici.
So che scarpe indossi al mattino, conosco il tuo volto struccato e quello che vesti per incontrare lui.
So che raramente ti ricordi l'ombrello quando piove e che più spesso te ne ricordi quando il cielo è solo grigio e nulla, ma proprio nulla lascia presagire che pioverà. Che ti piacciono i mandarini senza semi, i pesci non surgelati, le barrette ipocaloriche al cioccolato.
E che correggi i compiti di italiano dei tuoi allievi su una panchina di un parco abbarbicato sulle alture, che nessuno, credo, a parte tu ed io conosciamo in questa città... capisco che lo scegli perché tutto vorresti, tranne che correggere i compiti di italiano e fare l'insegnante. Non si sceglie un parco così, squallido, acquitrinoso di foglie che nessuno passa mai a raccogliere, fangoso di neve che, posandosi, si scioglie, circondato da palazzi grigi di fuliggine, su questo monte che hanno bruciato gli incendi; non si sceglie se non per chiuderci una malinconia che non vuoi confessare.
Ti ravvii i capelli con la penna blu, quella che non usi mai. Non ritieni che possa esistere errore così grave. Non ritieni di essere la persona più idonea a mutare le parole in numeri, ogni parola è già una negazione del numero, della certezza... ogni parola, a suo modo, è esattamente l'opposto di ciò che vorrebbe essere: è silenzio, un insolente provocatorio silenzio.
Insegni a usare la parola, ma dentro di te sai che la parola è un modo per stare da soli, per riempire i vuoti di fronte a cui inorridiremmo... sai che la parola, che tutti ricercano febbrilmente, è il luogo primordiale della paura, della lontananza... la parola, e il suo abisso semantico, un regno così ambiguo, così confuso, così incerto.
A te non piace parlare e di parole ne usi pochissime.
In questo ti rendi così perfetta, sui picchi e negli abissi. Ho capito che questo è il fulcro della tua bellezza.
So che non cerchi la felicità fuori da te stessa, che non alzi mai gli occhi verso il cielo e che non ti ricordi dei sogni che t'incontrano di notte.
Lo so perché non ascolti la musica e acceleri sempre con un tempismo perfetto ad ogni verde di semaforo.
Lo so perché so che lui ti ama.
Non so niente di lui, niente di così profondo che non possa vedere attraverso di te.
So che ti ama per come corri verso di lui, per come gli accarezzi i capelli, per come nella tua mente lui non sia affatto diverso da ciò che è realmente. Perché sei salda, libera, sana. Perché non fuggi via con la mente, perché lo tieni dentro di te con calma, chiarezza, sicurezza. Perché entro i tuoi confini si ritroverà sempre come si era lasciato.
So che ti ama perché non è un oggetto del tuo narcisismo, che non lo usi come uno specchio nel quale rifletti la tua bellezza e nascondi la tua insicurezza.
Camminiamo in fila, sotto questa pioggia fitta di oggi, per queste strade di periferia, quelle che non avrei mai calpestato senza di te.
Respiro la tua nuvola fredda, che lasci noncurante dietro, io invece ne accarezzo la precarietà, quella di cui non ti occupi tu... vorrei stigmatizzarla, come la mia solita poesia, vorrei averti in fermo immagine, almeno per un momento, per carpirti nella tua interezza... no ti occupi mai della tua eternità... forse perché hai una memoria prodigiosa, che vive dentro di te, che trasformi in presente, attimo dopo attimo.
Anche per questo lui ti ama: stende in te la sua malinconia, i suoi anni che passano, i suoi capelli che diventeranno bianchi.
Tu non incidi il tuo nome sui muri.
Ne ho la certezza.
Io lo faccio sempre, con i frammenti di calce, con la ghiaia, con i rami stecchiti degli alberi.
Ti sembrerà buffo, ho tanti anni sullo stesso muro, tanti ricordi vuoti che agonizzano dentro ad un numero: 2006, 2007, 2008...
Ogni muro è l'occhio appannato che ti ha seguito, al pari di ogni altra vita che non ho realizzato.
Ogni muro è il mio tempo eterno e non scandito.
Eppure ci ho anche scritto la data.
Non ti fa paura questa casa addossata a una stazione fantasma, dove non si ferma nessun treno. Non hai paura dei lampioni arancioni, della luce così intensamente artificiale e traballante, dei piccioni che non lasciano tracce cromatiche nel cielo né urla romantiche nella memoria. Non hai paura di essere quello che sei e io amo il tuo vuoto come una fortezza nascosta in seno ai vortici dei miei perché.
Non hai orrore dei platani spogli, delle pozzanghere sporche, delle urla del pescivendolo, dell'odore di rancido di quel fumo di fabbrica laggiù. Questa è la tua poesia, quella che ti porterà via, lontana.
Non hai paura del mondo di Zola, non hai disprezzo per il Realismo.
La tua sagoma scarna compare dietro una tenda colorata. Ti spogli senza paura dello specchio.
Osservo le tue forme e le so strette a lui, protese nel loro amore carnale, che non pensa né a ieri né a domani.
Non sai nulla del baratro del tempo, non sai che il futuro e il passato possono essere percorsi avanti e indietro, perché sono comunque ciò che abbiamo perduto. Non sai che lo perderai dopo averlo avuto dentro di te, e non lo fai sapere a lui, che è già alla tua porta.
Lo vedi, il tuo futuro è già il mio passato, e il mio futuro e il tuo, terribilmente asincroni, si allontanano.
Non hai paura né imbarazzo nell'aprirgli svestita.
Io sì, io ho paura, ora che il mio pudore mi riporta nella notte, nell'odore di rancido, nelle pozzanghere sporche. Ora che vi lascio soli.

Cerco la luna, per ritrovare il mio punto cardinale.
Già il mio punto cardinale, tu, che stai con lei che io ho seguito, o la luna, similmente sopraelevati, lucenti, intoccabili.
So che non lo vedrai quando scenderai: sì, non vedrai il mio nome, inciso sul muro con l'ultima moneta da 500 lire che mi hanno rifilato al posto di euro due.
Ridi, ridi con lei.
Ti ho lasciato una margherita sul parabrezza.
Mi piacerebbe rimanere a vedere se, in fondo, ti lasci incantare anche dalla mia Luna, lontana, siderale, vestita di plurimi strati. Non lo sai ma tu, dalla mia prospettiva lontana e lunare, bianca, crostosa, piena di crateri, hai la meraviglia cromatica della terra, il blu oceanico, il giallo desertico, il verde fertile... tu, dalla mia prospettiva, inconsapevolmente eserciti la tua gravità su di me che, velata, onnipresente, ti osservo di notte, multiforme, malferma, bisognosa della tua distanza, per non perdere l'equilibrio.
Resto avvolta nella mia prospettiva e ti osservo. Questa è l'ora in cui lei scompare, avvolta nella notte. E' l'ora in cui la stacco da me per stare da sola con te: è per questo che ogni tanto la Luna perde qualche spicchio.
Ti sembrerà contorto: seguo lei, amo lei, perché non so amare te.
Ti sembrerà contorto: amo lei, perché amo te.

Uomo


Cammina su di una strada
di sale
e pur nel deserto
crede sia neve.
Echeggia in un antro
di sassi
e pur nell'assenza
pensa sia un altro uomo.

Si spia tra i roveti
fluisce nel fiume
tramonta in un universo
rancido.

Nasce sulle dune
le disegna con la mano
e pur mobili
sente di ritrovarle
per l'eterno contorno
curvilineo e freddo dell'alba.

Teme negli astri
erode col vento
cade con la pioggia
per poter evaporare.

Nella pelle si consuma
di solchi
e un bambino li segue
col polpastrello.
L'ha levigati il deserto
quando con l'eco
molto gli ha parlato.

Si spegne nella sabbia
ora sa che non poteva
ritrovarsi
ma in quel luogo eterno
del vento
s'innalza
come strada sospesa
nell'etere
e ancora dalla terra
tra rami di pesco
e l'ennesimo fiore
appeso a un verde ridente
un altro esclama:
“Le rondini sono tornate”

lunedì 10 maggio 2010

IL REBUS


Il sole. Una collina. Il grano. Giallo.
Il sole. Una duna. La sabbia. Gialla.
Il sole. L'oceano. Un'alga. Gialla.
Il sole. Un treno. Un segnale rotondo. Giallo.

GIOCATORE A. C'è una soluzione. Che tutti i componenti abbiano qualcosa in comune lo capisce: sono gialli.
Lei ha le mani minute e graziose, le unghie impreziosite da smalto trasparente.
Tra i pezzi del puzzle trova distanze abissali, più grandi del suo universo. Non ha mai visto le dune di sabbia e non ha mai visto l'oceano. I treni e le colline, quelli sì, ma pensandoli li vede grigi. Non gialli.
Le viene da ridere dell'ardua impresa.
Dovrebbe tenere tutte e quattro le immagini nella mente, poi connetterle per risolvere il rebus.

GIOCATORE B. Tratteggia forsennatamente una linea curva, senza staccare la mano dal foglio. Ha la mano paffuta e rosata.
La linea ovviamente l'ha fatta gialla.
Questa gara la vincerà lei di sicuro.
Non le importa di non aver mai visto le dune gialle e l'oceano. Non é così importante: l'oceano è solo un mare molto grosso e molto arrabbiato. Le dune sono come colline, però al posto dell'erba c'è la sabbia, come quella della spiaggia dove va d'estate. Il treno... il treno è per ora la sua spina nel fianco, non capisce il nesso, ma è sicura che risolverà il problema. Ha già mordicchiato il primo colorino e di solito le idee più brillanti le vengono quando ne ha mangiati almeno due o tre. Così le capita a scuola.

GIOCATORE A. Pensa al treno che non ha preso. O meglio, sospirando pensa che di treni ne ha persi tanti. Ma di sicuro uno lo ha perso più degli altri.
Il treno parte. Un segnale giallo gli segna la traiettoria.
Il treno è partito tanto tempo fa. Ma gli indicatori gialli sono sempre lì, coesistenti a ogni viaggiatore. Forse, se si mette sulla loro strada, percorrerà la strada del treno perduto. E la voragine di tempo tra sé e il treno? Forse il suo cammino forsennato incurverà lo spazio e creerà una scorciatoia tra gli antipodi della terra, tra la partenza e l'arrivo, tra le colline e il deserto.

GIOCATORE B. Ha mordicchiato la seconda penna.
Il treno non parte. Non può partire. Perché la luce gialla continua a lampeggiare e il capotreno non capisce se deve accelerare o se deve star fermo. E' come quando deve attraversare al semaforo, la mattina, davanti a casa per andare a scuola e da verde diventa giallo. Se va, rischia di trovarsi faccia a faccia col rosso da un momento all'altro e l'esito potrebbe essere catastrofico. Se non va potrebbe perdere l'attimo e dover aspettare ancora un altro noiosissimo, lunghissimo ciclo del semaforo. Questo dubbio dura una vita. Intanto, nell'ipotetica stazione gli altri treni sfrecciano. Certo, non hanno questi segnali pieni di confusione. Lei non sa se salire o no sul treno. Un treno indeciso non è molto affidabile.

GIOCATORE A Per riprendere il suo treno deve stare sul treno o deve stare fuori dal treno?
Se sta sul treno originario, questo deve ancora partire. Seguirà, certo, la linea gialla che va dalle colline gialle alle dune gialle. Sarà lo stesso treno per quanto riguarda la rotta, lo stesso spazio, ma il tempo sarà perso per sempre.
Se sta fuori dal treno e immagina la destinazione, forse la sua immaginazione raggiungerà il treno, ma perderà lo spazio per raggiungerlo.

GIOCATORE B Odia i viaggi. Li trova noiosi. Si va, ma tutto è immobile, attorno. Per questo ha deciso di non salire sul treno. Odia stare seduta sul sedile e vedere davanti a sé la stessa immagine, la stessa signora, per ore ed ore. Invece, fuori, le immagini corrono troppo veloci. Vede i campi sconfinati e non può posarci le scarpe, respirare l'acredine dell'erba bruciata d'autunno. Vede il mare, che a poco a poco, tra due fenditure affrontate di terra, s'increspa e perde l'orizzonte. Diventa rabbioso, potente, pieno di schiuma. E' tutto giallo. Completamente giallo e rabbioso. Ma non c'è tempo per capire che sulla superficie galleggiano esanimi centinaia di alghe. Il treno s'è rinfilato nella grotta scavata tra le rocce di granito.

GIOCATORE A Deve prenderlo il treno. Il tempo assoluto forse lo perderà, ma al cospetto dell'eternità, quando sarà giunta a destinazione, ci sarà il suo pensiero per la meta di allora e la sua presenza nella meta di adesso. Quelle due sequenze di tempo si guarderanno negli occhi e nascerà di certo un incontro.
In questa nostra terra al posto dello spazio vuoto c'è l'oceano. Lo spazio vuoto, solcato dalla luce, è nell'universo la misura del tempo.
L'oceano, percorso da un capo all'altro da un filare di alghe disposte a ponte, davvero gialle, è sulla terra la misura del tempo mentale.
Sul treno avrà il tempo per camminare su tutto quel ponte, su quel vuoto così profondo e pieno di vita, che le ha fatto scordare il treno, per tutti questi anni.

GIOCATORE B Senza prendere il treno ha guadagnato un bel po' di tempo. Ha capito. Non servono i treni per muoversi. Basta la mente.
Lo fanno anche alla televisione.
Ha capito anche la risoluzione del rebus.
La parola è trasformazione.
Perciò non c'è nessun viaggio. Ogni luogo è già l'altro e ogni altro è già un luogo.
La linea collega le colline al deserto. Nella linea, nascosti, vi sono il treno e l'oceano, che sono il percorso. Ma con la sua tecnica sono essenziali quanto un filo per tenere su le perle di una collana. Invisibilmente necessario.

GIOCATORE A E' arrivata! E' arrivata, finalmente. La parola è trasformazione... ma quanto tempo ha impiegato per trasformarsi!

GIOCATORE B E' arrivata! E' arrivata, di già. Sì, ha vinto anche lei: la parola è trasformazione... facilissimo, un istante.

Sì, una duna è come una collina. Ma al posto dell'erba, gialla, c'è la sabbia, gialla. Come quella della spiaggia dove è sempre andata, ogni estate. L'oceano è come il mare che lambisce quella spiaggia, solo un po' più spumoso. Il treno passa con difficoltà tra i campi, perché sono arati e non può rovinare il raccolto. Passa con difficoltà anche tra le dune, perché il vento le scuote e le rende mobili. Per fortuna esiste qualche ponte sull'oceano e così talora se la può cavare.
Viaggiando dalla campagna al deserto ha imparato che è più desolata la campagna, millenaria e identica, che non il deserto, che ritrova ogni volta in evoluzione come il cammino delle dune scosse dal vento.
Ha imparato che ogni partenza è già la meta e viceversa.

Ha le mani minute e graziose, impreziosite da un velo di smalto trasparente. Ha i capelli grigi, la pelle grinzosa, gli occhi affidati a una saggia rassegnazione. Ed è piena di nostalgia per i suoi treni perduti. Quelle mani sono un po' tremolanti e trattengono con emozione quel foglio di carta ove si uniscono con una riga tracciata senza staccare la mano dal foglio quattro immagini gialle. Una mano paffuta e rosata. Quella mano che, tanto tanto tempo prima, era stata la sua.